Credo che la cosa migliore sia cominciare parlando di quella che mi sembra essere una visione dell’Africa tanto diffusa in Occidente quanto distorta e contraddittoria e quella che mi sembra essere una visione dell’Occidente diffusa in Africa, altrettanto contraddittoria e distorta. Non voglio fare generalizzazioni improprie per cui, in questa prima fase, mi manterrò ad un livello superficiale di analisi.
Da un lato, noi immaginiamo un inferno in terra: fame, malattie, siccità, baraccopoli, ma dall’altro vi identifichiamo anche l’ultima traccia di un bucolico Eden che la megamacchina dell’occidentalizzazione sta fagocitando.
Loro, da un lato vedono in noi un nemico che ha schiavizzato e deportato i loro antenati e che tutt’ora li depreda delle loro ricchezze e li discrimina, ma dall’altro siamo noi il loro Eden, il loro sogno che la televisione alimenta ogni giorno.
Cosa c’è di vero in tutto questo? Fame, malattie, siccità e baraccopoli di sicuro, ma per fortuna non è tutto qui. L’Eden, invece, io non l’ho visto. O meglio, in quanto turista, sì, ho visto dei paesaggi che mi hanno fatto luccicare gli occhi e riempito il cuore; ma dopo essere stata in baraccopoli (in Kenya) e aver quasi visto uccidere a bastonate davanti ai miei occhi un ladro – perché, in quelle condizioni di povertà estrema che mi verrebbe da definire come una sorta di nuovo artificiale stato di natura dove ogni giorno si lotta o si coopera per la sopravvivenza e dove la Legge non arriva, anche il furto di una pentola può significare la morte di una persona – pensare che esista un paradiso mi pare una bestemmia. E lo stesso pensavo quando entravo in una casa interamente fatta di lamiera sotto il cocente sole africano; o quando guardavo negli occhi la bambina che vendeva banane vicino a casa e non potevo non chiedermi se non le sarebbe invece piaciuto essere a scuola.
Quanto alla tratta e alla rapina delle risorse dell’Africa, anche queste sono reali, ma in varie occasioni è stato difficile spiegare che la responsabilità non è mia, che non posso sentirmi in colpa se persone che hanno in comune con me solo il colore della pelle compiono o hanno compiuto atti indegni. E, infine, sappiamo bene come il sogno americano e la famiglia della Mulino Bianco non siano mai esistite e come quel vuoto sia riempito da nuove forme di alienazione.
Sta di fatto che questo loro non lo sanno e che non capirebbero nemmeno chi gli dicesse che il loro vivere con poco (o quasi niente) è un preludio ad una decrescita mondiale: la loro non è una scelta e chi può, scappa. Infatti non è un caso che il 90% delle persone dell’altro sesso che incontri ti dica che ti vuole sposare e andare in Europa con te.
Bisogna stare attenti a non modellare la realtà a immagine e somiglianza della propria idea e a non permettere a quest’ultima di occupare tutta la propria visuale.

Detto questo, sorgono tante domande: come convincere l’africano medio che ogni Paese e ogni cultura deve trovare il proprio modello, nel rispetto degli altri?
Ma anche: quali sono le condizioni di vita minime di cui tutti gli esseri umani devono effettivamente usufruire? L’acqua corrente si o no? E l’elettricità? E internet, il telefono, la televisione, la lavatrice, un mezzo di trasporto? E come fare, praticamente, per darle a tutti? E come rinunciare a quelle in eccesso?
Resto convinta che il modello di sviluppo occidentale sia tutt’altro che perfetto e che la cooperazione da Truman in poi non sia altro che una forma di neo-colonialismo. E sfido chiunque a dire il contrario, visto che il nostro modello rischia di mettere a repentaglio la vita stessa del Pianeta e che le ricette suggerite o imposte alle ex colonie per svilupparsi non hanno dato i risultati promessi. Però non ci sono ricette facili e qui la gente sogna (come anche l’occidentale medio) tutti i lussi che sono stati inventati e che ancora devono esserlo e si immagina alla guida di un macchinone o in una villa con piscina e un sacco di belle ragazze o bei ragazzi intorno. E come dargli torto quando loro vivono in un paesino sperduto che non si vede nemmeno sulla cartina mentre da qualche parte al di là dell’oceano ci sono posti indefiniti e magici come New York, Dubai e Londra?! D’altro canto, lo sappiamo, tutto questo è impossibile ed effimero.
Mi viene da pensare che probabilmente non ci salveremo mai, eppure il cielo che vedo sopra di me è così bello e mi fa capire che intimamente credo che un mondo diverso sia possibile e che è quello che voglio. Che non mi interessano lussi ed eccessi, ma semplicità e solidarietà.

Il problema è che la teoria è così diversa dalla pratica, che le scienze sociali sono tutt’altro che esatte, che quando si ha a che fare con gli esseri umani, la contraddizione è la regola. Ad esempio, è strano come qua si mischino quello che per un europeo sono passato, presente e futuro: non c’è l’acqua corrente, ma la plastica è ovunque; si riutilizza qualsiasi cosa (l’altro giorno ho visto una carriola costruita con un coperchio di plastica che fungeva da ruota, due rami come manici, una bacinella come contenitore e del fil di ferro per tenere insieme il tutto) ma si buttano le immondizie per terra, e così via.

Molte domande si affollano nella mia mente e per adesso ho poche risposte. L’unica cosa di cui mi sento sicura è che nessuna cultura è perfetta e che solo dall’incontro di culture diverse può nascere una speranza per il futuro. Ed è questa la mia idea di cooperazione internazionale, una sorta di interculturalità secondo un approccio pratico. Per questo, come scrivevo nella mia tesi triennale, “dovremmo mettere da parte un po’ dell’etnocentrismo tipicamente occidentale e accettare di non poter solo imporre, insegnare o aiutare, ma di dover o poter anche imparare e scambiare conoscenze con altre culture su un piano di parità. Anzi, è proprio dal fallimento del progetto occidentale per i ‘Paesi in via di sviluppo’ che nasce una nuova alternativa per il futuro. Questa è la via suggerita da Raimon Panikkar, e ripresa da Serge Latouche nel suo ultimo saggio sull’Africa, L’autre Afrique entre mondialisation et décroissance, e da Lester Pearson, premio Nobel per la Pace nel 1957. La via dal pluriversalismo, un dialogo autentico tra le culture, alternativa alle previsioni di scontro di civiltà di Samuel P. Huntington, tenuto conto anche delle attuali folate di etnicismo in molti Paesi. Non è il tentativo di creare una cultura universale, in cui possano confluire tutte quelle particolari e nemmeno la semplice tolleranza, (dal verbo latino tolero, tolerare, che significa sopportare un peso), ma una vera ‘democrazia delle culture’, nella quale ognuna di esse riconosca la propria contingenza, conservi la propria legittimità e il proprio diritto all’esistenza, in cui sia centrale il dialogo, si resti sé stessi ma si accetti anche di imparare, in cui i cambiamenti non siano imposti, ma trasmessi appunto ‘culturalmente’ e in modo democratico. Non sono forse il dubbio e la relativizzazione due elementi fondamentali della filosofia occidentale moderna?”
Tutto questo anche considerando che pensare che le culture possano restare impermeabili è follia; per esempio, mentre me ne stavo in uno dei baracchini che vendono cibo per strada a mangiare il ‘tipico’ fried rice con maionese e ketchup, ho pensato che ogni cibo tipico in realtà ha quasi sempre qualcosa di importato: il caffè napoletano e il pomodoro per fare il sugo della pasta dall’America, il thé inglese e il pepe dall’Asia. E anche al di là dei cibi, se si pensa al Brasile, non si immagina l’indio ma la ballerina di samba con fattezze tutt’altro che indigene e che parla un portoghese cantato. Insomma, come si fa a pensare che il mondo in cui si è nati sia quello originale da preservare da influenze esterne?! Come si fa a non volere un mondo che abbia tutti i colori come l’America latina di oggi e che sia pacifico, aperto e solidale?! Come si fa a non essere curiosi dell’altro e del mondo che potrebbe essere se lo costruissimo insieme?!

E invece l’Europa ha distrutto o comunque corroso tutte le altre culture, a tal punto che durante una visita ad un vecchio forte inglese a Cape Coast, mi è capitato di sentir dire alla guida che la tratta, nonostante la sua innegabile tragicità, ha almeno avuto il merito di portare la civilizzazione e lo sviluppo in Africa.
Come dicevo prima, siccome la sindrome del peccato originale non fa parte del mio carattere e forse anche grazie all’esperienza che sto vivendo qui, non voglio sentirmi in colpa per questo. Non voglio essere banale, ma sto davvero imparando che tra bianchi e neri non c’è alcuna differenza, che sono semplicemente, nel bene e forse soprattutto nel male, esseri umani. Che ogni cultura propone qualcosa di buono – anche se spesso solo in teoria – e che ogni popolo e ogni essere umano la interpreta come gli fa comodo, e cioè spesso in malo modo.

E tutto questo è tragicamente carnevalesco, perché se solo lo volessimo potremmo cambiare questo mondo. Non produrremmo più cose inutili e riutilizzeremmo tutto quello che si può (vedo alcuni bambini con le loro scarpettine, che dureranno si e non 3 mesi prima di essere troppo piccole e penso che ognuno di loro – magari non qui, ma in Occidente si – ha avuto una carrozzina, quando invece ne sarebbe bastato un decimo, se fossero state regalate invece che buttate quando non servivano più), tutti lavoreremmo solo qualche ora al giorno e i frutti del nostro lavoro sarebbero messi in comune gratuitamente e reciprocamente.
Non è una gran scoperta. Per me. Per noi. Ma la maggior parte delle persone non ci ha neanche mai pensato, perché gli è stato insegnato a pensare in modo individuale/individualistico e che più è meglio.
Credo sia fondamentale riuscire a raggiungere più persone possibile, solo per far loro sapere che esiste un’alternativa, poi starà ad ognuno scegliere. So che a tanti si aprirebbero gli occhi e cambierebbe la vita. Ma come fare in un’epoca in cui si può comunicare da una parte all’altra del mondo, ma in cui il 90% della gente rincoglionisce davanti alla televisione e non sa neanche quello che succede dietro casa sua?! Come ho sentito dire da Moni Ovadia ad una conferenza organizzata dal Sunsplash, in qualche modo bisogna passare per la tv. Ma come?! Prima di tutto penso che ci sia bisogno di nuovo progetto Politico, organizzato, diffuso, capillare, legato a doppio filo con la società civile e radicato sul territorio.