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I paesaggi rappresentati da un artista sono finestre su di un’altra dimensione?

di Francesco Lamendola - 30/12/2009

 

Noi siamo relativamente abituati a considerare i paesaggi dell’arte come creazioni della mente di un certo pittore o di un certo poeta, il che ci esenta da ulteriori riflessioni circa la loro vera natura e la loro autentica origine.
Al massimo, se qualche guida ci spiega che, nel quadro del tale pittore, compare, appollaiata sui colli dello sfondo, una città turrita, e che quella città raffigura proprio la tale città, così come appariva all’epoca, noi accogliamo questa informazione come una curiosa testimonianza storica che ci permette di confrontare l’aspetto della città che oggi ben conosciamo, con quello che essa offriva cinque o sei secoli or sono.
Non ci viene in mente, generalmente, che, fra le due possibilità estreme di una raffigurazione totalmente fantastica e di una riproduzione scrupolosamente realistica, esiste quanto meno una terza possibilità, ossia che l’artista abbia rappresentato, più o meno fedelmente, un paesaggio naturale realmente visto, ma non con gli occhi del corpo e non in questa dimensione dello spazio e del tempo.
Anzitutto, una premessa.
 Il paesaggio naturale è diventato qualche cosa di più di un semplice sfondo per la figura umana solo a partire dall’estetica del Romanticismo, almeno nella cultura occidentale (perché in quella cinese, ad esempio, il paesaggio era già da tempo protagonista in se stesso, tanto nella poesia che nella pittura).
Si prenda un quadro di Caspar David Friedrich, come «L’abbazia nel bosco di querce», «Scogliere bianche a Rügen» o «Nella morsa dei ghiacci»: la figura umana o è assente, o è minuscola e rappresentata in religioso atteggiamento contemplativo; in essi è la Natura a fare da soggetto, non in funzione di qualche cosa d’altro da sé.
Oppure si prenda un testo letterario di un autore inglese degli ultimi anni del Settecento o dei primi dell’Ottocento, ad esempio le «Lyrical Ballads» di Wordsworth e Coleridge, e si noti con quanta freschezza il paesaggio lacustre del Cumberland e del Westmorland è rappresentato e si pone, per così dire, al centro della scena. Rappresentato da un artista è, prima di essere tradotto sulla tela o sulla pagina scritta, concepito, immaginato, visto con gli occhi della mente.
Ebbene: quella visione interiore  deve essere considerata unicamente come un gioco della fantasia, come un capriccio dell’immaginazione? Oppure, nel migliore dei casi, come una sorta di duplicazione di paesaggi visti in precedenza, magari nell’infanzia, oppure in sogno, oppure, ancora, pensati mettendo insieme elementi più o meno frammentari di ricordi, pulsioni, desideri, timori, speranze: insomma, materiali puramente attinenti alla psicologia individuale?
Non potrebbe darsi che i paesaggi rappresentati da un artista siano qualche cosa di più di tutto questo: per esempio, luoghi realmente esistenti in un’altra dimensione, sui quali l’anima ha potuto gettare uno sguardo fugace e abbagliante, un po’ come accade nel mito platonico della biga alata, relativo al mondo delle Idee?
L’ipotesi, del resto, è valida anche per i sogni: e si tenga conto che, per la tradizione indù e per quella islamica, ciascuno dei sette corpi di cui è costituito l’essere umano, sogna nell’ambito che gli è proprio. In questa sede, tuttavia, ci limiteremo ad una riflessione sull’intima natura dei paesaggi dell’arte.
Per agevolare il nostro lavoro, torniamo al caso del Romanticismo e scegliamo un racconto di Joseph Sheridan Le Fanu (1814-1873), scrittore irlandese divenuto famoso non, come avrebbe desiderato, per i suoi romanzi storici, ma per i racconti del soprannaturale, alcuni dei quali, come «Carmilla», sono considerati dei veri e propri capolavori del genere.
Nel racconto «La vendetta del lago», Le Fanu ci presenta una minuziosa descrizione di una località immaginaria: Golden Friars, dominata da alte e cupe montagne ammantate di boschi, che si specchiano nelle acque di un lago dalla fama un po’ sinistra.
Scegliamo alcuni passaggi del’opera che ci sono sembrati particolarmente interessanti ai fini della nostra riflessione (da: J. S. Le Fanu, «The Revenge of the Lake», in «Avventure di fantasmi», traduzione italiana di Roberta Rambelli, Milano, Tea, 1991, pp. 28; 79; 85; 108-09):

«La graziosa cittadina di Golden Friars, che sorge sulla riva del lago, circondata da un erto anfiteatro di erte montagne rosseggianti, ricche di colore e solcate da burroni - quando appare, con i suoi tetti spioventi, le strette finestre delle case di pietra grigia, il campanile della vecchia chiesa, da l quale tuttora rintocca ogni sera il coprifuoco, quasi inargentati dai raggi della luna, e i neri olmi che gettano intorno ombre immobili sui prati levigati - è uno degli  spettacoli più belli e più singolari che io abbia mai visto.
Sorge, “come per un colpo di bacchetta magica”, così lieve e velata che la si direbbe un’immagine riflessa  sulla nebbia sottile della notte.
Durante una di queste noti d’estate, la luna splendeva sulla facciata del san Giorgio e il Drago, l’accogliente locanda di Golden Friars, tutta in pietra grigia, la cui insegna  forse  il più bell’esemplare di questo genere che sia rimasto in Inghilterra. […]
Quella sera [Sir Bale, il protagonista del racconto], andò a passeggiare sui monti di Golden Friars, quando già il paesaggio sottostante era immerso nella luce del crepuscolo, mentre gli ampi fianchi brulli e gli spigoli di quelle alture gigantesche erano ancora illuminati dal nebbioso sole, ormai al tramonto.
Non c’è senso di solitudine simile a quello che proviamo sulle immense, silenziose altezze delle grandi montagne. Sollevati al di sopra dei rumori, oltre le dimore degli uomini, in mezzo ale grandiose distese selvagge tra le immense opere della natura, proviamo, nella nostra solitudine, una strana paura e una strana esaltazione… un’ascesa al di sopra delle sofferenze e degli uomini, e i tremiti di un’apprensione indefinita e indistinta. Il disco velato della luna era sorto a oriente, e stava già inargentando debolmente lo scenario sottostante ormai in ombra, mente Sir Bale stava ancora nella luce morbida del sole al tramonto, che sfiorava anche le vette dei picchi dei Morvyn Fells, di fronte a lui. […]
Una sera d’autunno Si Bale Mardykes stava meditando, irritato, dopo aver pranzato da solo. Un sole d’un rosso acceso stava riversando gli ultimi raggi obliqui attraverso la valle all’estremità occidentale del lago, sfiorandone le acque scure e colorando d’una inattesa sfumatura vermiglia la vela dell’imbarcazione su cui Feltram [il deuteragonista del racconto] stava tornando dalla sua solitaria crociera. […]
Da ragazzo non si era mai addentrato nel bosco fino a quel punto, glielo avevano proibito, e perché non si perdesse in quell’intrico d’alberi, e non venisse sorpreso alla notte. Aveva sentito ripetere spesso che era un terreno infestato dagli spettri, e da bambino questo sarebbe bastato a intimorirlo. Perciò la vista era nuova per lui, e spesso si fermava per guardarsi intorno. Qua e là il panorama si apriva, mostrando lo stesso assoluto abbandono, e schiudendo altre prospettive fra gli alti tronchi degli alberi visibili in quell’ombra  solenne. Non riusciva a vedere fiori, ma un paio di volte scorse un anemone, e ogni tanto un piccolo ciuffo di acetosella.
Le querce immense cominciarono mescolarsi agli altri alberi e a farsi più frequenti,e poco per volta la foresta  divenne un grande bosco di sole querce, tra le quali non crescevano altre piante meno nobili. Rami enormi si curvavano in fuori verso le radici, per espandersi poi in altezza: parevano immense colonne, che stendevano i rami a ogiva, come la volta buia d’una cripta.
Mentre procedeva sotto l’ombra di quei nobili alberi,  il suo sguardo fu colpito all’improvviso da un bizzarro fiorellino, che si agitava isolato accanto alla radice nodosa  d’una delle grandi querce.
Si chinò e lo colse, e mentre lo coglieva, un grosso uccello dalle ali pesanti volò via tra i rami, proprio sopra il suo capo, con un grido acuto. Non riuscì a vederlo, ma gli parve che il grido fosse simile  a quello della grande ara di cui aveva osservato poco prima il volo. Questa congettura era fondata soltanto sullo strano grido che aveva udito.
Il fiore era fuori del comune: uno stelo sottile come un capello reggeva una minuscola campanula, che sembrava una goccia di sangue e non smetteva di tremolare. Sir Bale proseguì stringendolo tra le dita, e presto ne vide un altro della stessa strana varietà, e poi un altro, a distanza più breve, e poi uno un po’ sulla destra e un altro a sinistra, e più oltre un gruppetto, e alla fine il pendio scuro fu tutto un tremolio di quelle piccole campanule, che si fecero più fitte quando Sir Bale scese un dolce declivio verso la riva del ruscello che scorre attraverso la foresta e si getta nel lago. Il mormorio sommesso del ruscello era il primo suono, dopo il grido dell’uccello che l’aveva fatto trasalire poco prima, che turbava il profondo silenzio del bosco, da quando vi si era addentrato.»

Si tratta di una scrittura fortemente evocativa, ove le descrizioni paesaggistiche, a volte molto accurate, altre volte più generiche, ma sempre suggestive, suggeriscono una dimensione che sta a mezza via fra realtà e sogno o visione: ora la luce della Luna, ora la nebbia che sale dal lago, ora le dense ombre della foresta, ora dei suoni improvvisi che rompono il silenzio: tutto questo lascia dubbiosi se si debbano considerare i luoghi descritti come realmente appartenenti a questo mondo ed al piano dell’esperienza ordinaria.
Studiosi come Shleag J. Squire sostengono che il paesaggio romantico non è che la mitizzazione di un paesaggio rurale che, sotto i colpi della rivoluzione industriale, andava scomparendo, e che una ben precisa élite sociale e intellettuale volle ricreare ai fini della propria ideologia in chiave conservatrice.
In particolare, l’Autore citato afferma (Squire, «Wordsworth  e il turismo nella Regione dei Laghi: una ricostruzione romantica del paesaggio», in: «Fatto e finzione. Geografia e letteratura», a cura di Fabio Lando, Etaslibri, 1993, pp. 178-79):
«Il paesaggio è “ricco di suggestioni e indeterminati stimoli emozionali” (Santayana) ed i poeti romantici fecero dei sottili elementi  (fortemente subliminali ed individuali) delle esperienze ambientali le basi  della descrizione paesaggistica e della poetica della “natura”. Poiché molta della letteratura romantica è intrinsecamente geografica, l’analisi di alcuni comuni temi ed immagini romantiche (come quelli espressi nella poesia di Wordsworth) si rivela estremamente utile nella comprensione delle origini di particolari atteggiamenti neri confronti dell’ambiente e del cambiamento  dei rapporti con il paesaggio ed i luoghi.
Nel momento in cui gli effetti della rivoluzione industriale  non poterono più essere ignorati, l’idealismo romantico  incominciò a declinare ma, nonostante tutto, l’immaginario romantico si dimostrò di gran lunga più duraturo. Anzi persino coloro che non hanno mai letto Wordsworth e Coleridge hanno la possibilità di “accedere” ai ritratti ed alle impressioni romantiche di un luogo, poiché  queste sono state continuamente ripetute e reinterpretate negli opuscoli turistici.
Ovviamente ci sono molti modi di vedere un paesaggio ma, al di là della prospettiva individuale e dell’impulso immaginativo del singolo, la letteratura può colorire in modo significativo la percezione di un luogo, come nel caso del Romanticismo. Sebbene il paesaggio romantico  sia essenzialmente mitico, il particolare coinvolgimento dell’uomo verso questa realtà mitizzata  ha permesso di compiere un’analisi della letteratura romantica  che va ben oltre i limiti della critica letteraria coinvolgendo altre dimensioni culturali.»

Pur senza escludere che in questa interpretazione vi sia un nocciolo di verità, noi vorremmo andare oltre il livello sociologico della riflessione e domandarci se non sia per caso possibile che il paesaggio dell’arte, e specialmente quello dell’arte romantica - che per prima ne fece un soggetto pienamente autonomo e non subordinato ad altri valori -, sia molto di più che l’espressione di certi valori estetici e di una determinata ideologia, per coinvolgere gli strati più profondi dell’essere, quali si rivelano talvolta ai mistici nelle loro visioni.
Naturalmente, la nostra riflessione potrebbe partire col domandarci se vi sia una differenza sostanziale fra l’invenzione di un personaggio letterario e la creazione di un paesaggio da parte di un poeta, un romanziere o un pittore; e la risposta sarebbe negativa.
Pirandello pensava che lo scrittore non inventa realmente il proprio personaggio, ma si limita ad evocarlo, o, meglio ancora, a rispondere alla sua chiamata, prestandogli, per così dire, una esistenza concreta (specialmente nel caso del personaggio di un’opera teatrale, destinato perciò ad essere impersonato sul palcoscenico); e osservava, a prova di ciò, che il personaggio è, per molti aspetti, più reale del suo stesso autore. Non solo egli sopravvivrà molto più a lungo di quello, ma accade anche che, mano a mano che l’autore lo fa vivere nella sua pagina scritta, il personaggio incomincia ad emanciparsi dalla volontà altrui e a vivere di vita propria, indipendentemente dalle intenzioni del suo, chiamiamolo così, padre adottivo.
Il burattino Pinocchio, a un certo punto, si emancipa dalla volontà di Mastro Geppetto, che lo ha tratto fuori da un pezzo di legno; e un personaggio di Miguel De Unamuno, nel racconto «Niebla» («Nebbia»), si presenta addirittura dal suo autore, suonando al campanello di casa sua e chiedendo conto della vicenda di cui è protagonista, che non gli piace (una situazione che ricorda da vicino quella dei pirandelliani Sei personaggi in cerca d’autore).
Ora, non c’è motivo di pensare che la dinamica esistente fra un paesaggio naturale rappresentato da un artista sia soggetta a leggi diverse da quelle che scaturiscono dal rapporto fra personaggio ed autore. Anche qui ci troviamo di fronte ad una realtà che viene evocata, o che, forse, lancia un richiamo, a cui l’artista - sia egli un pittore o uno scrittore, o anche un musicista (si pensi al paesaggio notturno e inquietante evocato da «Una notte sul Monte Calvo» di Mussorgskij) – risponde, perché è il primo a raccoglierlo e a farlo proprio.
Così, ad esempio, potremmo pensare che il malinconico lago e le alte, cupe montagne che lo dominano, nel racconto sopra citato di Le Fanu, oppure la desolata foresta di querce spogliate della chioma dai rigori invernali, che circondano le rovine dell’antica abbazia nel quadro di Friedrich, non siano paesaggi semplicemente immaginari, ma che essi siano stati captati dai due artisti mediante la vista interiore e tradotti, rispettivamente, in parole e in immagini, erompendo da una dimensione «altra», in cui già esistevano prima.
E che dire di un paesaggio onirico: di un paesaggio, cioè, presentato da uno scrittore come se fosse stato visto in sogno: da quale dimensione fisica, astrale, eterica, ecc. - esso proviene realmente, se è vero - come abbiamo sopra accennato - che a ciascuna delle sette dimensioni dell’essere umano corrisponde uno specifico ambito onirico?
E che dire, inoltre, di un paesaggio visto realmente in sogno, e che poi uno scrittore ha tentato di rappresentare; ma di un sogno così vivido e intenso, da suggerire l’idea di qualcosa di già oscuramente noto, qualcosa che forse è già stato visto molto, moltissimo tempo prima del sogno stesso: prima della nascita, prima che questo nostro mondo esistesse, così come noi attualmente lo conosciamo?
Prendiamo, a titolo di esempio, questa lettera, scritta dal romanziere americano H. P. Lovecraft, allora alle prime armi, all’amico Maurice W. Moe in data 15 maggio 1918 (in: «Lovecraft. Il vento delle Stelle», a cura di Sebastiano Fusco, Roma, Edizioni Agpha Press, 1998128):

«… Alcune notti fa ho fatto uno strano sogno di una strana città - una città dai molti palazzi e dalle cupole d’oro, che sorgeva in una conca circondata da orribili colline grigie. Non c’era un’anima in tutta la vasta regione di strade lastricate di pietra, mura di marmo e colonne; le numerose statue nelle pubbliche piazze raffiguravano strani personaggi barbuti avvolti in tuniche, quali non avevo mai visto prima. Ero visivamente ben consapevole di quella città. Mi trovavo entro di essa e al suo intorno. Ma di certo non avevo esistenza corporea. Vedevo, a quanto mi pareva, ogni cosa insieme,; senza limitazioni legate alla direzione. Non mi muovevo, ma trasferivo la mia percezione da un punto al’altro, a volontà.  Non occupavo uno spazio definito e non avevo forma. Ero soltanto una consapevolezza, una presenza percettiva. Rammento di aver provato un’intensa curiosità d fronte a quello scenario, e di aver cercato strenuamente di ricordarne l’identità; perché sentivo di averlo conosciuto bene, un tempo, e che se fossi riuscito a ricordare sarei tornato indietro nelle ere  fino a quel periodo così remoto… molte migliaia di anni fa,, quando si erra verificato un evento vago ma terribile. Dopo un po’ riuscii quassi a far chiarezza nella memoria, e divenni fole dal terrore, anche se non sapevo ciò che avrei dovuto ricordare…»

Questo paesaggio, al tempo stesso pauroso e affascinante (è sempre la categoria romantica dell’orrido che confina col sublime, magistralmente analizzata da Schopenhauer), ritorna in numerose opere di Lovecraft: costruzioni ciclopiche, archi grandiosi e torri che sfidano il cielo, il tutto in una prospettiva geometrica «sbagliata» che suggerisce un’architettura non umana, una dimensione aliena.
Sorge spontanea la domanda: dove ha visto Lovecraft un tale paesaggio (artificiale, in questo caso, anche se circondato da elementi naturali altrettanto inquietanti, come le «orribili colline grigie» che si perdono a vista d’occhio)? Non basta dire: in sogno; perché, a questo punto, la domanda è: non potrebbe darsi che il sogno sia una delle vie d’accesso alle altre dimensioni, cui l’artista, grazie alla sua particolare sensitività, è in grado di accedere nei momenti di più intensa ispirazione, vale a dire nelle esperienze spirituali privilegiate, simili - per certi versi - alle estasi dei mistici e delle grandi personalità religiose?
Abbiamo suggerito, sulle orme di Pirandello, che un personaggio letterario, una volta rappresentato dal suo autore, incomincia a viverre di vita propria. Ora, se ciò è vero anche per un paesaggio letterario o pittorico - altrettanto carico della materia emozionale dell’autore -, non sarebbe più giusto smetterla di pensarlo come puramente immaginario, ed ammettere che anch’esso, una volta evocato, vive ormai di una vita propria, che non dipende più dagli uomini?
Esiste una teoria secondo la quale tutto ciò che esiste produce delle onde o vibrazioni energetiche, le quali non svaniscono nel nulla allorché quel dato oggetto si dissolve fisicamente, ma permangono sotto forma di «registrazioni akhasiche» (ne abbiamo già parlato in numerosi articoli, per cui non riprenderemo daccapo la questione). Se ciò è vero, tutto quanto è accaduto nel passato continua ad esistere, come in una pellicola cinematografica; e così ciò che accadrà nel futuro, che a noi sembra tale per la nostra limitazione temporale, mentre, in effetti, non vi è che un eterno presente, e tutto accade contemporaneamente.
Dunque, anche i paesaggi dell’arte vivono accanto a noi, benché i nostri sensi ordinari non siano in grado di coglierli. Tanto più essi vivono, quanto più vengono percepiti da diversi soggetti (il pubblico di un’opera d’arte), che li alimentano con le loro potenti energie emozionali. Sono stati fatti degli esperimenti in proposito, chiedendo ad un gruppo di persone di pensare intensamente una data cosa, ad esempio, un personaggio immaginario: e si sono avuti riscontri impressionanti, come se la cosa evocata cominciasse a dare segni di vita autonoma.
Un discorso analogo, fra parentesi, si potrebbe fare per le divinità invocate da migliaia o milioni di fedeli: le correnti emozionali da esse indotte, finirebbero per conferire ad esse una esistenza reale. In questo senso, si può meglio comprendere il senso della frase misteriosa, riferita da Plutarco, che si udì sul mare deserto: «Il gran dio Pan è morto!»: perché, quando un culto si spegne e non vi sono più dei fedeli ad adorare una certa divinità, quest’ultima tende a scomparire - anche se, forse, sopravvive allo stato latente negli «intermundia», pronta a ritornare qualora venga nuovamente evocata.
Non è forse questa l’idea centrale della mitologia di Lovecraft, a proposito dei Grandi Antichi? E non è forse questa la ragione per cui molti studiosi e lettori dello scrittore americano sono convinti che il malefico «Necronomicon» esista, sebbene il “solitario di Providence” abbia più volte affermato recisamente il contrario? Anche un libro, una volta che sia stato pensato e immaginato da numerosi soggetti, potrebbe incominciare ad esistere, anche se tutto fosse iniziato come un gioco da parte dello scrittore che per primo ne ha parlato.
Tutto questo può apparire inquietante ed anche un po’ pauroso; ma, d’altra parte, è giusto ricordare che, se la teoria qui sopra esposta ha un sia pur debole fondamento, allora la stessa cosa può essere applicata alle creazioni positive della mente, a tutti quei personaggi, quei paesaggi, quegli oggetti, che hanno il potere di rasserenare lo spirito, di ritemprare l’anima e di spalancare agli esseri umani orizzonti di fiducia e di speranza.
Ne sappiamo veramente troppo poco, per poter dire che cosa è possibile e che cosa è impossibile al riguardo.
Quello che è certo è che la nostra scienza materialista e meccanicista non sarà mai in grado di rendere ragione di misteri come quelli che abbiamo tentato di descrivere. La via giusta per accostarvisi, se esiste, non può essere quella del Logos strumentale e calcolante, che insegue la chimera di una realtà “oggettiva” e sussistente al di fuori di noi, ma quella dell’esperienza interiore, che nessuna formula matematica potrà oggettivare, ma che costituisce una forma di conoscenza più alta e più profonda di qualunque esperimento di laboratorio.