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Per un ambientalismo umanistico. Dal rifiuto alla prospettiva: equi ritorno al bene comune

di Marco Palla - 03/01/2010

Fonte: appelloalpopolo


Nel PRECEDENTE ARTICOLO il tema della prospettiva è servito da pista per seguire l’avvitamento della coscienza critica europea e il ripiegamento di un rapporto antico con l’ambiente che la pressione demografica interna e un confuso appropriamento di nuovi territori all’esterno hanno spinto ai suoi minimi storici.

La città, trasformata dalla rivoluzione industriale e insufflata di genti e materie prima, non è ancora completamente spogliata dell’eredità rinascimentale, ma in lei i segni del passaggio da ambiente a scala umana ad ammasso confuso di istanze moderne e conflittuali è già evidente

Prima di seguire l’evolversi della storia culturale europea nel cuore del nostro discorso – le città – è opportuno ricordare le condizioni in cui l’Europa arriva alle soglie del XIX secolo.

All’avvento della civiltà industriale il soggettivismo è definitivamente tramontato: l’Enciclopedie promuove il lume oggettivo della ragione, La ricchezza delle nazioni di Smith svela un ordine naturale nell’economia, i lavori di Lavoisier mostrano la struttura del mondo attraverso le scienze fisiche, Laclos e De Sade spogliano i sentimenti umani di ogni partecipazione.

I progressi della matematica, dell’ottica e della cartografia permettono di rompere definitivamente l’antico rapporto tra rappresentazione geometrica ed esperienza personale, elevando le rispettive scienze all’astrazione. Persino le misure di lunghezza tradizionali, bracci, piedi, pollici, vengono soppiantate da un sottomultiplo del meridiano terrestre passante per Parigi, il metro; così anche la misura dello spazio perde il riferimento umano: i prodotti delle varie tecnologie si separano, senza passare più attraverso un unico vaglio visuale.

Per concludere il precedente ragionamento, la prospettiva – che la matematica ha confinato nel regno della geometria descrittiva – sopravviverà nell’arte fino al classicismo delle accademie di pittura, nello scorcio tra XIX e XX secolo, in un periodo impaurito dallo sviluppo dei processi seriali, industriali e scientifici, ammirati ed esaltati ma anche temuti perché sentiti in qualche modo falsi. Arriverà poi a quella parte delle accademie che, alle soglie dei movimenti avanguardistici del primo ‘900, reagirà rifugiandosi non nell’individualismo e nell’irrazionalismo sempre più acceso, ma tentando un’ulteriore razionalizzazione. E’ il periodo che prelude all’apertura di una cattedra di Disegno dal vero nelle facoltà di architettura italiane ed estere, che però preservano ostinatamente un pensiero già di retroguardia.

L’irrazionalismo penetrerà dunque l’arte, cercando il linguaggio dei sentimenti, ma ritirandosi dall’obiettivo civile dell’arte, la costruzione della città: già dall‘800 i prodotti artistici vengono collocati in spazi appositi (musei e salotti) e non arricchiscono più l’ambiente, l’ordine pubblico è ormai l’unico segno che rimane della potenza dell’amministrazione centrale.

All’esterno le colonizzazioni militarizzate europee si limitano di solito a creare insediamenti costieri che scimmiottano le forme tradizionali, laddove incontrano stati ugualmente forti e organizzati, benché più poveri (come in Cina). Ciò non accade in pratica soltanto in India, dove l’iniziativa imperiale britannica forgia dal nulla città e soggiorni estivi (Singapore nel 1819), e trasforma rapidamente i centri costieri occupati nel tardo ‘700 nei principali snodi del vasto subcontinente.

In Europa il compromesso tra intervento pubblico e interesse privato – ereditato dall’iniziativa mitteleuropea seicentesca – diventa stridente, in uno spazio sempre più stretto: le masse operaie strappate alle campagne conducono un numero crescente di risorse all’interno delle concentrazioni urbane, favorendo la rendita fondiaria.

Il carico dei problemi organizzativi ed economici assume talvolta l’aspetto minaccioso e violento del potere, dapprima nella fase rivoluzionaria (Parigi è al centro delle vicende rivoluzionarie nel 1789, 1794, 1799, 1830 e 1848; Milano, Atene e altre città vivono le medesime vicissitudini ), poi durante i riflussi delle restaurazioni.

Durante i periodi di pace l’intervento pubblico si arma contro la minaccia rivoluzionaria, e riorganizza le città scendendo a patti con i poteri costituiti, conservatori e (quasi sempre) vittoriosi, che ne sostengono il rinnovato sviluppo. Dall’accordo con quegli interessi privati si rilancia l’equilibrio precedente – tra grande e piccola scala, tra unità e molteplicità, tra grande progettazione e sfruttamento del piccolo appezzamento – che già però portava in nuce lo smantellamento dello scenario storico urbano.

Il primo e più  importante di questi scenari è Parigi, modello funzionale per le altre grandi città europee e icona sentimentale esaltata da alcuni (Hugo), rimpianta per le sue vestigia da altri (nelle stampe di Gustav Doré gli slum si amalgamano con la Grand Vie e così i rispettivi abitanti, ma l’autore ammette che il criterio artistico è inannzitutto la selezione nel suo occhio) e, infine, molto più tardi, interiorizzata e portata a fondamento psicologico dello spleen (Baudelaire).

Parigi è  l’emblema della fine della città rinascimentale europea perché le nuove strade qui costruite intorno al 1850, lunghe e diritte, abbattono i vecchi quartieri, fissano una frontiera rigida fra spazio pubblico e privato, instaurano la legge dell’allineamento delle facciate sul fronte fabbricabile che sostituisce la complessa casistica dei rapporti reciproci della tradizione più antica.

E squilibrano le misure di corrispondenza tra i conti dell’amministrazione e della proprietà fondiaria: la proprietà, sempre più fitta e densa, riceve un sovrapprezzo dovuto alla posizione centrale, l’amministrazione pubblica rimane indietro e s’indebita. Si costruisce più del necessario, per far crescere i prezzi dei terreni, e i servizi pubblici insufficienti rincorrono le iniziative private. Crescono le differenze di valore che alimentano la rendita fondiaria e le speculazioni, e si aggravano i contrasti ambientali tra un centro della città sempre più ricco e una periferia raggiunta sempre più lentamente dai servizi primari.

Le conseguenze, che, nonostante i tentativi novecenteschi di fondare delle new towns assiali e funzionali (Le Corbusier), sono ancora sotto i nostri occhi e si riproducono anche più drammaticamente lontano dal vecchio continente, sono: insalubrità degli ambienti urbani, sovraffollamento, congestione, disordine, speculazione sfrenata, insufficienza di regole pubbliche.

La città diviene così – nel corso dell’Ottocento – estranea all’uomo, ostile. E l’uomo perde la cognizione del suo posto nell’ambiente, fin dentro la sua casa, ormai irrimediabilmente mutata.

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Qual è la via d’uscita da questa situazione? Le città antiche – che visitiamo come turisti incuriositi – hanno ancora qualcosa da dirci, da insegnarci?

Forse sì.

Le città  più antiche, i cui centri oggi visitiamo e ammiriamo, preservano i valori locali sviluppatisi nell’Alto Medioevo ben più fortemente di quelli nazionali nati al più cinque secoli fa. Anche le grandi capitali come Londra o Parigi sono prima che capitali di Stato capitali di provincia o di distretto, e ci ricordano un valore ambiguo di identificazione e di antagonismo col potere centrale che ospitano. Ma questa ambiguità è ancora più evidente nelle altre capitali – Madrid, Roma, Vienna, Bruxelles – che sono ben bilanciate dalla presenza di altri grandi centri nello stesso Stato.

Dovunque le città  più antiche si identificano con le amministrazioni locali, costruendo un rapporto politico fra cittadini e autorità locali profondamente sentito, che ostacola il funzionamento di enti di scala nazionale. Molto spesso sulle comunità locali è modellata l’organizzazione ecclesiastica, che fronteggia il potere centrale strada per strada, una chiesa che s’affaccia su ogni piazza.

Le città  europee formano una fitta rete in uno spazio ristretto. Il loro rapporto con la campagna circostante è andato in crisi quando queste negli ultimi due secoli sono cresciute a dismisura, ma oggi la valutazione di questo rapporto è ricominciata nell’equilibrio e nella conservazione dei centri antichi sopravvissuti, secondo un modello pacificato e umano. Le città più dense oggi – Venezia, Siena, Praga – si mostrano agli occhi sia pure miopi del turista come piccoli universi di edifici giardini e corti che aprono spazi meravigliosamente conservati all’uomo e alla sua misura.

Molto resta ancora da fare e innanzitutto da sottrarre all’industria del turismo, ma se il laboratorio che ha creato queste città non è così distante nel tempo ed è tuttora funzionante ciò vuol dire che l’impresa di salvarle e replicarle è fattibile.

Una tendenza da invertire è la segregazione dell’arte – dei cosiddetti Beni Culturali – nelle stanze dell’industria del turismo: musei, parchi di intrattenimento, collezioni private hanno allontanato e quasi del tutto separato la bellezza dalla vita, seguendo i percorsi di alienazione e di individualismo dell’arte neoplastica novecentesca. Ciò diventa tanto più vero quanto più i mezzi di comunicazione di massa – per primo quello che stiamo qui usando – dilatano la sfera dell’intrattenimento e della passività dei fruitori.

La città  pre-industriale europea rappresentava il simbolo vivente di una diversa amministrazione e distribuzione di tale ricchezza: la permeabilità fra spazi pubblici e privati attraverso il filtro delle facciate e delle proporzioni geometriche destinava allora al cittadino, abitante il luogo specifico e parte della comunità, la sua piccola parte di bene pubblico. Era cioè possibile frequentare le immagini d’arte mentre si circolava, si lavorava, si viveva, senza accumularle in un luogo specifico e nella memoria. E anche se questo bene pubblico aveva un proprietario, esso era esposto e proposto alla vista di tutti e di ciascuno, e anzi sul suo possesso si basava e articolava la scala sociale. La contemplazione della bellezza era sentita come sollievo nella vita quotidiana, e non relegata come esperienza a sé stante nel tempo libero.

Oggi la fruizione diretta è annientata dalla comunicazione di massa (attraverso giornali, supplementi, schermi), e ciò provoca innanzitutto una limitazione dell’autonomia di giudizio.

Ebbene la città  pre-moderna, nella misura in cui funziona come città, è  l’alternativa a questo meccanismo e la prova della sua insufficienza. E l’ambiente che costituisce può essere a sua volta sentito e vissuto come un’opera d’arte reale, organica, e non solo composta di immagini vaganti. Un apprezzamento responsabile e attivo del patrimonio culturale può avere un ruolo importante nella conduzione di una città, grazie all’intelligenza degli amministratori pubblici.

Poiché le città europee alto-medievali nascono come città chiuse (oppure le città più antiche si trasformano in comunità ristrette durante l’Alto Medioevo), l’esigenza di autonomia e concorrenza ne plasma le forme a discapito dell’uguaglianza interna, dando vita a una scena imperfetta, composita ed eclettica, formata dall’azione di spinte antagoniste.

La rendita fondiaria urbana, cioè il guadagno dovuto a posizioni uniche, è parte fondante della storia di queste città, dal momento in cui il potere centrale dispotico declina e viene superata la disposizione a recinti chiusi (tipica delle città antiche islamiche e orientali); tale dispositivo di autonomia e concorrenza viene controllato entro margini prestabiliti nelle città mercantili, e stimola la crescente progettazione e amministrazione pubblica man mano che questa si afferma col passare dei secoli.

Con la crescita smisurata nell’età industriale e la riduzione in condizioni di quasi schiavitù delle masse operaie, la rendita fondiaria urbana comincia a condizionare in misura inaccettabile la trasformazione della città – mediante l’ineguale distribuzione dei servizi e la progettazione degli ampliamenti periferici ad uso e guadagno di avidi costruttori che dequalificano le maestranze.

Ora la soluzione a questo problema può essere centralizzata e “statalista”, ovvero la gestione pubblica permanente di tutto il suolo urbano, ma si è detto che questa teoria è estranea alla storia urbana europea, e una volta messa in pratica probabilmente produrrebbe solo storture.

Oppure si può  tentare di recuperare l’antagonismo fra interessi privati e pubblici, che pure esistono e non vanno negati; si può cercare di stimolare l’invenzione e l’autonoma ricerca di soluzioni entro una cornice misurata di progettazione generale, secondo un piano di appropriata collocazione che segua il coordinamento e la spontaneità, anche dal punto di vista economico (concorsi, sovvenzioni ecc.).

Da questo punto di vista, il fenomeno statunitense ha qualcosa da insegnarci; i grandi spazi americani hanno evitato alla popolazione ancora numericamente scarsa tutti i conflitti dell’ambiente industriale; gli slums delle grandi città sono nati non per inettitudine degli amministratori e dei progettisti né per speculazione, ma perché occupati da masse molto eterogenee che sono ancora in fase di reciproca integrazione. Il più straordinario paesaggio urbano dei nostri tempi – cioè la foresta di guglie e di metallo che è Manhattan, deriva dalla competizione di un numero altissimo di manufatti, lasciata libera di riempire la più semplice delle griglie planimetriche. Essa è l’ultimo esito della città aristotelica, dell’ambiente aperto e perfettibile, incompiuto.

Non a caso a Manhattan è possibile osservare, nell’ombra di un parco pubblico o in una piazza schiacciata tra muri di cemento, la rinascita di un fenomeno che viene a noi dall’antichità: l’evergetismo, ovvero l’investimento a fondo perduto di denaro e lavoro – da parte della classe aristocratica e di chi può permetterselo – che riporta un’opera umana d’ingegno e talvolta d’arte al centro dello scenario pubblico. Se ci si china sulla base di queste opere, sculture giardini patii corridoi e anche semplici panchine, si scopre una targhetta di metallo che sotto al nome dell’opera e alla data di edificazione riporta in calce i nomi di chi l’ha pagata, come un ex-voto pagato al principio ispiratore del nucleo urbano, da che mondo è mondo: la vita in comunità, la società umana al di sopra delle beghe di ciascuno dei suoi componenti.

Recuperare il pieno equilibrio tra interessi e scelte, così come si progetta l’andamento e il funzionamento della forza lavoro o del corpo sociale, deve essere una priorità per tutti, a cominciare dallo spazio che si occupa. Per salvare l’ambiente (non quello degli orsi polari ma il nostro) è necessario rinunciare a – o almeno rivedere in parte – alcuni motori della modernità: il primato della produttività, la verticalità dell’impresa e del capitalismo, l’ordine individuale delle decisioni sull’ambiente, anche quello che è di proprietà e non solo quello pubblico. Il discorso così generalizzato è applicabile ad ogni scala e su tutta la superficie del globo, ma deve cominciare dalle nostre strade, dai luoghi dove passiamo la maggior parte del nostro tempo, considerandoli come un’estensione dei nostri salotti.

E’emblematica la vicenda ancora sospesa di Venezia. L’eccezionalità dell’ambiente in cui sorge – acqua invece di terreno, niente automobili, canali al posto delle strade – crea l’emarginazione delle funzioni di una città.

Ora, questa emarginazione che espelle centri di commercio, produzione in scala e persino abitanti dalla città potrebbe essere agevolmente compensata dalla tecnologia moderna, ma invece permane e si accentua perché gli interessi speculativi esterni, che utilizzano la decadenza di Venezia, sono più forti degli interessi congiunti della popolazione veneziana e della cultura del pianeta che lì guarda quando pensa al suo passato.

Non manca il denaro né i mezzi, ma forse un luogo così illustre nel cuore dell’Europa civilizzata non potrà salvarsi e diventerà uno scenario inanimato, una ex-città, assorbito nel circuito del tempo libero, del turismo, della cultura che si vende e non si costruisce se non come merce.