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Ipazia. Una martire pagana per la libertà

di Umberto Bianchi - 04/01/2010

Una delle vicende più drammatiche ed a tutt’oggi sottaciuta dai libri di testo, riguarda la figura di Ipazia, scienziata, astronoma e filosofa, vissuta a cavallo del 4°e del 5° secolo DC nel raffinato contesto di un’Alessandria d’Egitto, ancora intriso di sapienza neoplatonica, ma sempre più in preda alle ultime convulsioni di un mondo che scivolava verso la propria fine, preannunciata dall’aggressivo fanatismo della neonata fede cristiana che presto avrebbe fagocitato uno splendido bagaglio di cultura, storia e tradizione, lasciando al suo posto un plurisecolare deserto di oblio ed ignoranza.

Ipazia nasce ad Alessandria in una data incerta, verso il 370 DC. Di lei si sa poco, tranne che è figlia di un certo Teone, “filosofo e geometra d’Alessandria”, così come rilevato dal bizantino Lessico di Suda. Dedito alla matematica ed all’astronomia sino a diventare un famoso insegnante ad Alessandria, trasmetterà questa passione alla figlia Ipazia che, ben presto dimostrerà di uguagliare e superare il proprio padre. Della sua competenza in queste discipline ci parla Sinesio, suo prediletto allievo ed unico attendibile biografo, il quale, nel parlarci di Ipazia, ci ricorda gli eruditi commentari all’ “Arithmetica” di Diofanto di Alessandria ed alle “Coniche” di Apollonio di Perga, mentre è, di dubbia originalità il “Canone astronomico”, composto forse quale commentario all’opera di Tolomeo. Di lei mancano scritti autografi,  fatto questo che rende problematica la questione della reale valenza ed influenza della scuola di Ipazia sulla cultura del tempo.

A quanto è dato di capire dalle poche fonti in nostro possesso, sembra che la scuola di Ipazia combinasse interessi teorici con interessi altrettanto pratici in un’originale mix di impostazioni che però non impedirono la realizzazione dell’astrolabio e dell’idroscopio, così come riportatoci dal fedele Sinesio. Questi fatti spalancano il problema sulla effettiva portata della scienza dei Tolomeo e degli Ipparco che dai loro corpus teorici non riuscirono però a trarre alcuna applicazione pratica, così come invece accaduto con la scuola di Ipazia. Un problema analogo si pone con la questione dell’apporto dato dalla studiosa alessandrina al pensiero filosofico. Anche qua la scarsità di fonti ci affida alla testimonianza diretta del solito Sinesio, il quale ci dà di Ipazia l’immagine di una persona profondamente convinta dell’aderenza della filosofia alla vita reale, facendo di questa la principale fonte di ispirazione per i comportamenti quotidiani.

La filosofia è in lei, la “scienza delle scienze”, in quanto sapere superiore in grado di compenetrare in sé tutti gli altri saperi. Sempre secondo la testimonianza di Sinesio, Ipazia avrebbe recepito l’insegnamento filosofico nella sua accezione plotiniana, e più esattamente, in quella rifacentesi a Porfirio, più direttamente collegata al razionalismo plotiniano che non al misticismo teurgico di Giamblico. La parola di Sinesio è avvalorata dal fatto che egli stesso si dimostrerà all’altezza della propria mentore e maestra, sia come poeta metafisico di notevole rilevanza con la pubblicazione degli “Inni”, che con la pubblicazione del “Dione”, opuscolo dedicato al sofista Dione di Prusa, in cui viene rimarcato il rapporto esistente tra letteratura e filosofia.

Sinesio recepisce la filosofia neoplatonica nella sua versione alessandrina più vicina alla versione razionalista dello stesso Plotino che non a quella più radicalmente anticristiana e misticheggiante ateniese, rifacentesi ai vari Giamblico. Ipazia quindi si trova, suo nonostante, coinvolta nella grande disputa dottrinale che nella tarda antichità coinvolgerà due similari scuole di pensiero, tanto da far affermare nel 440 a Socrate Scolastico la primogenitura di Ipazia e di Alessandria nell’interpretazione del platonismo a partire da Plotino, contrariamente a quanto invece affermerà Ierocle, alessandrino di nascita, ma ateniese di adozione che indicherà nel proprio maestro Plutarco, il perfetto erede di una linea che da Platone arriva ad Ammonio Sacca, passando via via per Origene, Plotino, Porfirio, Giamblico, sino appunto a Plutarco di Atene.

Identico percorso verrà delineato dal più tardo Proclo, anch’egli prestigioso membro della scuola ateniese. In questo modo si cercherà di escludere Ipazia e Sinesio dal novero dei filosofi neoplatonici, per cercare di accreditare questa scuola come l’unica erede di un platonismo via via sempre più misticheggiante e teurgico, contrariamente all’impostazione più razionalista di Ipazia. Comunque sia, tutte le testimonianze, inclusa quella di Damascio, concordano nell’attribuire alla pensatrice una preparazione di altissima qualità, accompagnata dalla propensione ad una sua generale diffusione, arrivando a fermarsi in strada a dare lezioni e spiegazioni a chiunque glielo avesse richiesto, come nella migliore tradizione peripatetica ateniese.

Tutto questo arriverà ad ingenerare non poche invidie da parte di personaggi come Damascio che arriverà a rivendicare al proprio maestro Isidoro il privilegio della percezione della “vera filosofia”, non attribuibile, a suo dire, ad Ipazia in quanto donna e “geometra”, cioè proveniente da studi scientifici che, in quanto tali, andavano considerati inferiori. Di Ipazia non sono rimasti testi autografi, né ci è, a tutt’oggi, dato di sapere se avesse mai detenuto qualche cattedra di insegnamento in Alessandria. Ciò non significa che non sia stata una grande ed innovativa pensatrice, viste le lodi, ma anche le invidie che ingenerò e furono sicuramente alla base della sua tragica fine.

Per meglio comprendere la vicenda di Ipazia ed al perché della sua fine, bisogna rifarsi al clima venutosi a creare in quegli anni quando, in seguito all’emanazione degli infami decreti teodosiani (391-392 DC), viene sancito in modo definitivo il divieto di esercitare qualunque culto gentile, pena la morte. L’abbattimento e la riconversione dei templi (peraltro già iniziati sotto imperatori come Valentiniano, sic!) ora prosegue in modo più deciso, senza ostacoli. Ad Alessandria, in particolare, molti splendidi templi furono abbattuti per ordine dell’imperatore sotto le pressioni del vescovo Teofilo (letteralmente “amico di Dio”, sic!), tra cui il favoloso Serapeo, dedicato alla divinità ellenistica Serapide, ed all’interno del quale venivano celebrati i culti di Iside e di altre divinità egizie. Il Cesareo ed il tempio di Dioniso furono risparmiati e riconvertiti in chiese, non senza resistenze da parte dei gentili, immediatamente soffocate con violenza da parte dei legati imperiali.

In particolare, è di quegli anni la nascita del movimento degli “elleni”, ovvero di coloro che, al di là della singola fede religiosa, avevano decisamente optato per la rivalutazione della cultura greca, di contro all’incuria, all’ignoranza ed all’inciviltà propalate a piene mani dagli zelanti e fanatici cristiani. Le vicissitudini  degli elleni subiranno sorti alterne sino al 5° secolo quando, con l’avvento di Giustiniano, le scuole di filosofia verranno definitivamente chiuse.

Nel 414 l’avvento sul trono dell’impero d’Oriente dell’Augusta Pulcheria, determinerà una grave battuta d’arresto per gli “elleni”. Il casus belli sarà determinato dal contrasto tra il vescovo Cirillo (succeduto a Teofilo nel frattempo morto) ed il “praefectus augustalis” Oreste ( grande estimatore di Ipazia), che aveva fatto mettere a morte un fanatico “parabalanos”/monaco barelliere, che lo aveva ferito con una pietra. Oreste non aveva fatto i conti con il fatto che Cirillo, fautore dell’ortodossia ed in diretta competizione con Nestorio, vescovo monofisita di Costantinopoli, era direttamente supportato nei suoi intenti da Pulcheria. Cirillo reagirà santificando l’aggressore e facendo mettere a morte la neutrale Ipazia per mano di alcuni “parabàlloi”, tramite linciaggio, senza per questo, pagare alcun fio.

Questa vicenda è alla base di “Ipazia, vita e sogni di una scienziata del 4°secolo” di Adriano Petta ed Antonino Colavito, edizioni La Lepre, dove, con un linguaggio da romanzo, accanto alla descrizione del contesto storico culturale, è la stessa Ipazia a parlare di sé dei suoi sogni, delle sue idee e delle sue scoperte, lasciando il lettore con l’interrogativo su dove sarebbe arrivata la scienza odierna se la Storia non avesse conosciuto quella lunga e buia parentesi di ignoranza partita dalla tarda antichità e giunta sino ai giorni nostri.

E’ vero, Ipazia anche se neutrale, fu personaggio scomodo in quanto donna e studiosa, rappresentante di una cultura, quella neoplatonica , sempre più invisa ad un fanatismo cristiano che finirà per fare, della cultura in sé, un vero e proprio oggetto di discriminazione per i secoli a venire. Tutto questo, fermo restando che Ipazia fu espressione della sua epoca e non la rappresentante ante litteram di una modernità empirista e materialista,già allora ansiosa di affacciarsi sul proscenio della Storia.

Ipazia rimane pur sempre una figlia di quella grecità che allora, anche se nelle molteplici varianti del tardo ellenismo e del neoplatonismo, continuava a connotare di sé l’intera oikumène mediterranea. Qui l’idea di un tempo ciclico, l’assenza di un concetto matematico di infinito, l’immagine di una geometria euclidea tutta volta al finito, l’idea tolemaica di un cosmo finito a cui fa da contraltare l’assoluta incompatibilità ed inconoscibilità dell’Uno plotiniano con il resto del creato, la natura assolutamente strumentale delle scoperte scientifiche interrelato ad un concetto sacrale della scienza, rendono insensata l’idea di “progresso” di stampo materialista, tanto cara alla civiltà occidentale dal ‘600 in poi. Ipazia assurge, comunque, a simbolo della persecuzione verso tutte le culture anticonformiste ed eterodosse, come a tutt’oggi dimostrato dalle vicissitudini di “Agorà”, l’ultimo film di Alejandro Amenabar sulla vicenda della pensatrice alessandrina, uscito nelle sale cinematografiche di mezza Europa, meno che in Italia, grazie alle solite, odiose censure clericali.