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Paolo e Francesca. Se l’amore vince la morte

di Carlo Fabrizio Carli - 04/01/2010

Senza ombra di dubbio, Dante è stato uno degli scrittori che maggiormente ha richiamato l’interesse degli artisti visivi, inducendoli anche ad interpretazioni sistematiche di una cantica (per lo più l’Inferno), o dell’intero poema, fino all’adozione di linguaggi affascinanti e problematici, da Salvador Dalì, a Jean Fautrier, da Robert Rauschenberg, a  Michael Mazur.

Ormai nutritissimo si è fatto il repertorio di artisti che la Casa di Dante in Abruzzo ha coinvolto nel progetto di offrire una articolata interpretazione visiva della Commedia (e non soltanto: perché il giustamente ambizioso programma iconografico ha riguardato anche La Vita Nuova, Le Rime, La Monarchia), a partire da sommi artisti medievali, rinascimentali, romantici, per approdare ad interpreti contemporanei. In questo che è probabilmente, a tutt’oggi, il più ricco novero di pittori, soprattutto, ma anche scultori (scultoreo, più esattamente una mostra di bronzetti danteschi, fu infatti l’esordio di questo lungo itinerario espositivo) applicatisi ad offrire un riscontro visivo del “poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra”, il tema scelto quest’anno è il quinto canto dell’Inferno, ed esattamente l’episodio “più romantico e romanticizzato” (1), com’è stato detto giustamente, certo tra i più universalmente noti dell’intero poema, quello di Paolo Malatesta e Francesca da Rimini, del loro amore colpevole e tragicamente espiato, che neppure la morte riesce ad allentare.

Sei, dunque, gli artisti che Giorgio Segato ha inteso coinvolgere in questa impresa dantesca, Ademaro Bardelli, Claudio Castellani, Bruno Gorlato, Leda Guerra, Nader Khaleghpour, Gabrie Pittarello. Va subito detto che un dato significativo unisce le opere dei sei artisti, costituendo un primo elementare discrimine nel contesto caratterizzato dal riscontro figurale di un testo letterario; vale a dire, il fatto di trattarsi tutte di espressioni d’arte autonoma, non di dipinti ideati per una illustrazione libraria.

Ora, come non sussistono dubbi sul fatto che l’Inferno costituisca la cantica di maggiore suggestione visiva (anche per l’efficacia ammonitrice della rappresentazione delle pene), altrettanto è evidente che l’episodio di Paolo e Francesca rappresenta l’imprescindibile fulcro del coinvolgimento nel quinto canto, vicenda con cui tutti gli artisti hanno comprensibilmente voluto confrontarsi.

Ademaro Bardelli ha, così, dedicato a questa sua interpretazione dantesca cinque opere pittoriche, nel cui ambito ha anche attivato ardite e personalissime soluzioni iconografiche. Si pensi a Minosse, il giudice ultraterreno, evocato mediante la raffigurazione delle mani. Mani rugose, scolpite dagli anni, deformate dall’artrite, che richiamano subito alla mente un contesto figurale che potremo definire di Realismo esistenziale, peraltro ulteriormente drammatizzato dal ricorso a liquide, ma accese, velature. Agli occhi dell’artista toscano, del mitico figlio di Giove e di Europa, che l’antichità volle aureolare con la fama di giusto re e legislatore di Creta, e pertanto fu assunto da Dante come giudice ultraterreno, sono proprio mani come queste, così vissute, ad assicurare la convinzione “che ad esaminare le colpe degli umani, sia un’anima non solo giudiziosa e grave, ma anche saggia”. Figura ben diversa, quindi, dalla spaventevole presenza che gli viene abitualmente attribuita, a dire il vero, anche sulla base del verso dantesco: “Stavvi Minòs orribilmente e ringhia…”.

Un’ulteriore immagine è dedicata ad Elena, al volto della regina di Sparta che, accettando la seduzione di Paride, provocò la guerra di Troia e gli innumerevoli lutti e traversie che ne discesero. Per Bardelli, circostanza, però, che Dante non affronta, “lo sguardo di Elena è addolorato, celato da un dolore profondo, malinconico. Sembra ricordare la sua vita terrena e sembra assumersi la responsabilità del suo vissuto, arresa ormai a scontare per sempre le sue colpe”. Piuttosto, va considerato come i lineamenti della bella Elena siano modernissimi (come, del resto, i volti di Paolo e Francesca, uniti nel bacio fatale), assunti, senza margine di incertezza, dagli scenari visivi della contemporaneità, tralasciando ogni ricorso a canoni classicheggianti, magari assunti dall’inesauribile repertorio della pittura vascolare greca, o di quella rinascimentale. La scelta può essere giudicata in modo diverso; a me piace tuttavia scorgervi la volontà del pittore di sottolineare l’universale validità della poesia dantesca, mediante l’attribuzione di contrassegni attuali. Oltretutto, non si dimentichi che Bardelli è fiorentino, e che i fiorentini hanno sempre instaurato nei confronti del sommo poeta una sorta di speciale dimestichezza, da concittadino a concittadino.

Assai originale è pure l’interpretazione pittorica che Bardelli ci offre dei versi 139-140 (“Mentre che l’uno spirto questo disse / l’altro piangea…”): dei due amanti, Dante fa parlare solo Francesca; il pittore ha invece scelto di dare spazio, sebbene silenzioso, anche a Paolo, cui dedica l’illustrazione del mirabile distico. Questi è effigiato mentre “si stringe nel suo dolore e nella sua vergogna; nasconde il volto tra le braccia e, all’interno del suo abbraccio, cerca un impossibile conforto”.

Di forte impatto riesce anche il riscontro figurale dell’ultimo verso del canto, esso pure di universale celebrità: il pittore raffigura infatti, in piena temperie espressionista, il rovinoso crollo a terra delle membra tumefatte del poeta, sopraffatto dal dolore e dallo sgomento.

La Urbino dell’infanzia e degli anni della formazione, con l’armoniosissimo paesaggio, le colline, le rocche, gli antichi centri dai palazzi e dalle case in mattoni a vista, le mirabili architetture rinascimentali, perfino l’inconfondibile gamma di ocre giallastre cui tutto è qui improntato, hanno lasciato un’orma indelebile nell’immaginario di Claudio Castellani. Eppure l’elaborazione pittorica di questo patrimonio della memoria può concretizzarsi in esiti non scontati: talvolta dà pure vita – com’è stato notato – a singolari “paesaggi che paiono tagliati con l’accetta, ispidi e pur organicamente compatti”.

L’artista ha affidato la sua interpretazione visiva del quinto canto dell’Inferno a nove dipinti, eseguiti ad acrilico e tecnica mista su tavola; anche in questo caso, al fine della lettura delle opere, converrà attenersi alla traccia ermeneutica proposta dall’autore. Il poeta si inoltra nel secondo girone infernale: “la composizione raffigura in alto il mondo terreno che Dante ha lasciato, mentre l’immagine spettrale, indefinita, tra rocce e anonimi volti angosciati che la stringono, e il turbinare di anime, simili ad uccelli sbattuti dalla tempesta, vuole esprimere i tormenti di cui il poeta sarà spettatore”.

Degna di nota è anche la traccia iconografica che ispira la seconda opera, con la presenza terrificante di Minosse, giudice delle anime, che si presentano a lui, una dopo l’altra, alla stregua di esili larve, di fragili manichini spauriti. Nell’immagine seguente, il pittore effigia Virgilio e Dante, mentre, sullo sfondo, tra luci e ombre, la bufera infernale si accanisce a tormentare le anime dei lussuriosi. Castellani ci presenta del poeta un’immagine ispirata dalla tradizionale raffigurazione, abbigliato con il manto e il berretto di rosso amaranto.

Ed ecco l’incontro con Paolo e Francesca, che ispirano a Dante la celeberrima immagine della coppia di colombe “dal disìo chiamate”: “attraverso la leggiadria, la grazia, con la quale volteggiano le due anime – sono parole dell’autopresentazione di Castellani – l’artista ha voluto anticipare la pietà che il poeta proverà per il triste destino dei due giovani amanti”.

Tutto elegiaco è il tono delle tre tavole seguenti, dedicate rispettivamente al paesaggio della natia Ravenna (è Francesca che parla); all’esordio innocente del trasporto amoroso dei due giovani; alla lettura, fatalmente coinvolgente, delle avventure di Lancillotto e di Ginevra.

Con completo rovesciamento di attitudine, i due ultimi dipinti sono invece ispirati ad accenti tragici: il bacio che dà l’avvio al colpevole amore, e Paolo e Francesca agonizzanti, dopo la feroce vendetta del marito di lei: la colonna spezzata della bifora, che inquadra la scena, allude, con chiara allegoria, alle loro giovani vite interrotte.

Anche Bruno Gorlato ha, nel nostro mannello di artisti, risposto con generosità a questo progetto di figurare il quinto canto dell”Inferno dantesco, approntando otto opere; dal punto di vista della tecnica, si tratta di tempere grasse su carta preparata a gesso. Giorgio Segato, che di Gorlato è critico di riferimento, ha avuto occasione, nello scorso trentennio, di soffermarsi più volte sul lavoro del pittore veneto, sottolineandone l”originalità tematica, la coerenza operativa, “la continuità viva di ragioni formali”. Assai giustamente, il critico avverte nel lavoro di Gorlato “un”ambizione di grandezza celebrativa, quasi uno sforzo di tentare un”astratta mitologia dei nostri giorni dando voce e pagina epica all”umiliato eroismo dell”uomo d”oggi: quello del senso rassegnato della solitudine di ciascun individuo”.

Il dipinto dedicato al giudice infernale Minosse trova il suo motivo di maggior interesse nel gruppo delle anime in attesa della loro destinazione, cui non a caso è riservato il primo piano; esse sono raffigurate come lemuri figurali immersi nell”incandescente crogiolo del loro supplizio. Di forte suggestione anche la seconda opera in cui, come in un fosco gorgo dolente, le anime sono travolte dalla bufera, come su un mare in tempesta.

Completamente diversa, non foss”altro per la liquida trasparenza celeste e per la compiaciuta descrizione della foggia esotica degli abbigliamenti indossati in vita e che le anime non abbandonano neppure dopo la morte, è la tavola dedicata ad evocare la schiera di coloro che hanno perso la vita per amore: nonostante la tragicità del contesto, Gorlato sembra qui accedere ad una dimensione di accenti fiabeschi; le presenze architettoniche sono ispirate alle città murate, agli incantati borghi del territorio veneto. Tale dimensione sussiste pure, semmai perfino accentuata, nel dipinto dedicato a dare volto – come nell”omologa tavola di Castellani – alla nostalgica evocazione, da parte di Francesca, della Ravenna che le dette i natali. In questo caso, l”attitudine fiabesca è rafforzata dal magico fluire delle anime, in un fondersi di realtà e di sogno, di memoria e di favola, di nostalgia e di visione.

Davvero degno di nota è il dipinto dedicato al famoso bacio; dipinto icastico, di un sintetismo solenne, che si vorrebbe quasi definire sironiano (associazione, del resto, già avanzata, seppure in differenti contesti, da Giorgio Segato), calato in una temperie incandescente: esso costituisce, a mio avviso, uno dei più significativi approdi della mostra.

La forza e la ieratica staticità della scenografia di un dramma possiede, sullo sfondo di incandescenti bagliori (la predilezione per le tinte rosse e blu – aveva già notato Segato – accende i dipinti di Gorlato di riflessi surreali), il dipinto che questi ha dedicato al proverbiale verso: “galeotto fu il libro e chi lo scrisse”. Mentre una risoluzione onirica e fiabesca, tra il volitare delle anime nel cielo incendiato e corrusco, il pittore attribuisce all”altrettanto proverbiale conclusione del canto.

Con Leda Guerra, il registro delle tecniche e dei linguaggi presenti nelle mostre promosse dalla Casa di Dante in Abruzzo si amplia in modo inatteso e significativo. Finora, ad esempio, i linguaggi astratti non sono stati accolti dalla direzione della Fondazione, nel timore (non del tutto infondato, a dire il vero) che l’assenza di un evidente riscontro figurale avrebbe potuto significare il ricorso a soluzioni pittoriche estranee al tema dantesco, ovvero una riconnessione forzata o meramente intellettualistica al contesto letterario. Beninteso, non si intende affatto qui affermare che il lavoro – quanto meno quello attuale – di Leda Guerra abbia carattere aniconico, anche se le sue origini affondano in un quel contesto linguistico. La novità di cui si fa interprete l’artista patavina consiste in una singolare forma di sculto-pittura (sulla quale si dovrà tornare in seguito), che si apre all’installazione e perfino all’operatività di marca concettuale. E un’installazione è appunto l’opera con cui Guerra si presenta a questa mostra dedicata al quinto canto dell’Inferno, articolata in quattro elementi, due grandi tele ispirate a Minosse e a Paolo e Francesca, nonché due stele raffiguranti rispettivamente Dante e la sua guida ultraterrena, Virgilio. I quattro elementi, in dialogo reciproco e con lo spettatore, hanno dimensioni ragguardevoli, così che le figure effigiate abbiano grandezza naturale.

Guerra non esita a parlare della sua, come di un’arte citazionista, nel senso – come lei stessa tiene a precisare – che tutte le sue opere sono citazioni dell’arte classica. Citano – ha precisato opportunamente Carlo Fumian – ma non dimenticano di ricordare quanti secoli passano tra i pepli del museo e le pieghe di Leda Guerra.  Già perché la nostra artista delinea le varie figure non con colori o disegni, ma con le pieghe, le grinze, le increspature di stoffe le più disparate, dalle garze, di cui utilizza sapientemente le trasparenze, a tessuti spessi e operati. Conseguiti gli effetti desiderati, Guerra, con procedimenti manuali lenti e complessi, li fissa, cucendo a macchina le stoffe piegate, fino ad ottenere dei dipinti, o meglio dei veri e propri bassorilievi tessili: telai e supporti metallici e lignei sono studiati dall’artista in modo da costituire parte integrante dell’opera.

Si tratta di una espressività rarefatta, che, come si è già accennato, affonda nel retaggio linguistico proprio della formazione astratta dell’artista; fatto sta che le immagini di Leda Guerra chiedono di essere osservate con attenzione; domandano rispetto. Non a caso, esse riescono più nitidamente percepibili dalla riproduzione fotografica, che non da una prima, magari distratta osservazione del vero.

Si diceva pure dell’inclinazione propria dell’artista veneta a ispirarsi ad illustri esponenti della storia e del museo; in questo caso, il riferimento – davvero molto pertinente – è quello delle celeberrime illustrazioni xilografiche di Gustave Doré (anche se, per restituire i lineamenti della coppia degli amanti, Guerra ha fatto ricorso ad una diversa scena dantesca dell’incisore francese).

Un’ulteriore opera, realizzata in velo di poliestere su telaio in legno, è dedicata a Cleopatràs lussuriosa: il referente visivo consiste, in questo caso, in un disegno di Gustav Klimt, maestro proverbiale di raffinato erotismo.

Nel gruppo dei sei artisti, Nader Khaleghpour introduce un elemento di marcata specificità, consistente nella sua nascita e formazione, avvenute in Iran. Vale a dire, una impronta orientale, comunque sopravvissuta nel suo immaginario e nel suo lavoro, nonostante il soggiorno ultratrentennale in Italia, impronta che si manifesta – come bene notò a suo tempo Antonello Trombadori – in una “innata propensione al garbo immaginifico e alla incisività miniaturistica persiana”.

Nader – così egli ci consentirà di chiamarlo semplicemente d’ora in avanti – si è accostato alla Commedia, come egli stesso riconosce, con la consapevolezza che il poema dantesco non appartiene alla sua formazione culturale, sull’onda fascinosa della poesia, della grande poesia, portatrice di valori universali, e quindi capace di trascendere le distanze geografiche, temporali, culturali. Essa è, insomma, sempre attuale: ne è ben consapevole il nostro pittore che, per approfondirne pienamente il dettato, ha voluto accostare il quinto canto dell’Inferno sia nella lingua originale che, in parallelo, nella traduzione persiana.

Tanto più che la celebre vicenda d’amore, che del canto costituisce il fulcro lirico ed emozionale, non è di esito edulcorante, ma in contrasto con le regole morali e perfino di conflitto tra il sentimento e il giudizio stessi del poeta: perché Dante, che pure è coinvolto dalla tragica vicenda al punto da svenirne per l’emozione, non può tuttavia esimersi da collocare Paolo e Francesca all’Inferno, tra le anime condannate senza scampo.

Nader ha voluto offrirci del quinto canto una lettura approfondita e puntuale, mediante dodici opere, equamente suddivise tra elaborazioni pittoriche (acrilici e pastelli) e grafiche, ovvero disegni a china, che traggono – questi ultimi – ulteriore significato dall’essere Nader pure un affermato incisore, vale a dire un virtuoso del segno, della composizione al tratto. Lo stesso Nader tiene a precisare come le due tecniche impiegate assecondino diverse attitudini linguistiche: così, al disegno è affidato il compito di “sottolineare gli elementi sensuali, la leggerezza e le movenze dei corpi in contrasto con le strutture della composizione”. Mentre nei dipinti – grazie anche all’impiego “di colori caldi e pastellati che aiutano a rendere con tenerezza il sentimento amoroso” –      vengono accentuate “le atmosfere sospese e favorita la fusione dei personaggi con l’ambiente, le forme sensuali con il volo delle anime”.

Non è certo un caso che, tranne la composizione più esplicitamente dedicata all’incontro d’amore di Paolo e Francesca, i dipinti di Nader siano affidati ad un registro aniconico. Al contrario, i disegni sono risolti in un lessico figurale, che oltretutto interpreta la più tipica cadenza narrativa dell’artista iraniano, mediante l”evocazione di lemuri di immagini, di misteriose presenze, di crittografie, di lacerti memoriali, che levitano e migrano all’interno della composizione. Una cadenza narrativa che, a ben vedere, si configura al contempo pure quale omaggio alla Commedia, intesa – come ad esempio da Michael Mazur, pittore e incisore statunitense, autore di un vasto e ben noto ciclo ispirato all’Inferno – alla stregua di “una allegoria proteiforme, orrificante e sublime, particolare e universale” (2). Rossana Bossaglia ha parlato a questo riguardo di “vibrazioni musicali della pennellata o della matita” (3); con molta efficacia, Giorgio Segato, che segue da lungo tempo il lavoro dell’artista, ne ha sottolineato la forte capacità evocativa (4). Con considerazioni che ben si attagliano a queste immagini dantesche, egli ha rilevato come Nader “contempli l’attraversamento di spazio e tempo liberando i sensi interni ed esterni in sinestesie che cantano nel colore, raccontano nei frammenti di sonorità che vagano in atmosfere liquide che fasciano il corpo, scivolano, carezzano, eccitano, irritano, acquietano l’epidermide e svegliano risonanze profonde, intime, memorie personali e genetiche, di esperienze dell’anima individuale e dell’anima collettiva” (5).

Da parte sua, a concludere la fugace presentazione della pattuglia dei nostri artisti, Gabrie Pittarello ci propone due interpretazioni del testo dantesco, altrettanti oli su tavola, entrambi dedicati alla vicenda di Paolo e Francesca. Per l’esattezza, ad essere presi in esame sono i versi 106-107 (“Amor condusse noi…”) e 137-138 (“Galeotto fu il libro…”). Ma il vero protagonista di entrambi i dipinti è la passione erotica, percepita da Pittarello come un filo rosso che spacca verticalmente la scena, il metaforico fil rouge del sangue destinato a suggellare la celebre vicenda in tragedia. Dal punto di vista compositivo, quel filo rosso concorre a realizzare una scansione regolare del dipinto in quadranti, scansione secondo cui si organizza la narrazione.

Assai interessante è anche la ricerca del pittore volta ad offrire una contestualizzazione storica della vicenda. Ciò risulta evidente nel dipinto del libro, con la bifora in alto a destra, le grandi pagine pergamenacee miniate, il fantasma di Lancillotto che galoppa sul suo corsiero incontro alla regina Ginevra: e qui il filo rosso vale come una premonizione del sangue. Ancora più evidente tale inserimento cronologico risulta nell’altro olio, quello dedicato all’uccisione dei due amanti, con una rocca che è istintivo ricondurre al Montefeltro, delineata sulla sinistra, quasi con il tratto di matita a sanguigna; al centro i due amanti mortalmente trafitti, e sulla destra il marito tradito, Gianciotto Malatesta signore di Rimini, che si allontana, con ancora in mano la spada della crudele vendetta: quasi risucchiato dalla Caina di Cocito, che ormai l”attende.

Quest”ultima immagine mi sembra possa essere assunta a cruento contrassegno non soltanto dell’interpretazione che Pittarello ha offerto del quinto canto, ma di questa intera proposta del Dante figurato, di cui – come già ricordavo doverosamente in esordio – dobbiamo essere grati alle sapienti scelte di Giorgio Segato.

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(1)   – Rosanna Warren, Una stamperia in Inferno, in: AA. VV., Michael Mazur. L”Inferno di Dante, Electa, Milano 2000, p. 29.

(2)   – Michael Mazur, Illustrando l”Inferno di Dante, in: AA. VV., op. cit., p. 20.

(3)   – Rossana Bossaglia, Nader Khaleghpour, Galleria d”Arte Ciovasso, Milano 2004, p. 7.

(4)   – Giorgio Segato, Nader Khaleghpour. Risonanze, Galleria d”Arte Ciovasso, Milano 2007, p. 3.

(5)   – Giorgio Segato, ibidem, p. 4.