Tecnologie appropriate o relazioni appropriate?
di Filippo Schillaci - 06/01/2010
Una premessa relativa alla mia esperienza personale, svoltasi fino a oggi in una dimensione esclusivamente individuale: scrivo in un momento in cui più che mai le circostanze imposte da un mondo esterno invasivo, estraneo quando non ostile a tale esperienza, mi fanno percepire i limiti dell’isolamento e la necessità di passare dall’individuale al comunitario. Ho scritto altrove che rimanere confinati in una dimensione individuale è come essere su un’isoletta assediata dal mare in tempesta. Ho tenuto anche a precisare che ciò non deve essere mai motivo di ripensamento perché questa condizione è pur sempre preferibile all’essere sbattuti dalla furia delle onde, tuttavia l’isolamento è fragilità e, soprattutto, un’esperienza che non attecchisca nel mondo esterno è inevitabilmente non impregnata di futuro.
Alcuni anni fa dedicai molto tempo allo studio delle antiche tecniche artigianali. Da qualche tempo mi dedico a esse molto meno. Non perché io abbia cessato di considerarle importanti: in una società della Decrescita non c’è dubbio che esse siano parte integrante e insostituibile del saper fare. Il punto è che un altro elemento non meno fondamentale si è col tempo imposto alla mia attenzione: il saper essere, quel saper essere senza il quale non c’è altro saper fare che possa rendere altro il mondo. Hanno più o meno direttamente riproposto questi argomenti nelle ultime settimane due articoli apparsi sul sito web del Movimento che hanno proprio nell’appropriato modo di essere il loro tema centrale.
Il primo di essi è la più recente intervista a Luca Boccalatte, che in Sicilia sta cercando di realizzare un ecovillaggio avendo come guida criteri che considero del massimo interesse. Il tono di questa intervista è però meno entusiasta delle precedenti: Luca parla esplicitamente di difficoltà aggregative e individua in esse il principale ostacolo all’avanzamento dell’iniziativa. Il secondo articolo è una breve riflessione di Germano Caputo che sfocia nell’individuare nella divisione fra le persone la causa prima delle storture del presente. Una considerazione tanto giusta da meritare di essere ulteriormente approfondita. La divisione, ovvero l’incapacità di pensare e agire in termini di comunità, in termini di bene comune, in termini di collettività. L’isolamento dell’individuo, l’aver cancellato la percezione degli altri come parte di sé è sicuramente il più potente risultato del sistema delle merci. L’uomo è oggi solo, il tessuto di reciproche relazioni orizzontali con chi gli sta accanto è stato disgregato ed egli ha come unico collegamento col mondo esterno un filo di relazioni unidirezionali (dall’alto in basso) che lo tiene appeso al sistema, quel sistema che per lui è ormai tutto, è ormai l’universo; quel sistema che lo imbocca di ogni cosa, dal cibo preconfezionato alla stessa visione del mondo, anch’essa preconfezionata e sempre più insulsa, quel sistema che gli dice che cosa deve fare, che cosa deve dire e pensare, di cosa deve aver paura e in cosa deve rifugiarsi per scampare al pericolo. Miliardi di uomini soli in uno spazio saturato di frenetico vuoto: queste poche parole racchiudono il ritratto più compiuto delle società industrializzate. Ricordo che quando apparvero i primi articoli di Luca li segnalai a Piero Nigra, un mio corrispondente autore di quello che considero il più compiuto progetto di società alternativa che io conosca. Egli fu, come sempre, molto chiaro e lucido nel rispondermi. E’ certamente un bene che nascano tali iniziative, mi scrisse, ma esse sono destinate alla caducità se prima non si forma una organizzazione popolare che abbia come suo fondamento l’esercizio della solidarietà reciproca; ovvero il recupero del senso di comunità. Da una tale organizzazione poi si diramerebbero, non come isole sparse nell’oceano onnipresente del mercato ma come penisole da un continente, le esperienze di vita comunitaria autosufficiente come quella per la quale sta operando Luca. E io credo oggi che egli abbia ragione: la creazione di una comunità tipo ecovillaggio presuppone la preesistenza di una cultura della comunità, ovvero la disponibilità a pensare in termini di una aggregazione basata appunto sulla solidarietà, che oggi è stata disgregata e che bisogna prioritariamente ricostruire. Avevo a suo tempo ipotizzato a questo proposito l’evoluzione dei GAS in GAAS, Gruppi di Acquisto e Autoproduzione Solidali, una A in più che rappresenterebbe in realtà un salto di qualità notevole perché l’autoproduzione comunitaria implica un grado di relazione ben più intenso del semplice acquistare in comune. Soprattutto considerando che quando si parla di autoprodurre comunitariamente non ci si riferisce solo ai beni materiali bensì anche ai “servizi”, ma diciamolo meglio: ai beni immateriali costituiti dal mettere in relazione costruttiva con gli altri il tempo della propria vita. E’ questo oggi l’obiettivo primario: ripristinare quella rete di relazioni orizzontali dirette fra gli individui la quale forma su piccola scala la comunità, ovvero il nucleo fondamentale della società del bene comune. Ma non basta. Perché cos’è una società del bene comune? Un trust commerciale, una loggia massonica, un’alleanza militare sono società del bene comune? Ebbene sì, lo sono: i loro membri si aggregano senza dubbio per conseguire un bene comune, tuttavia non è certamente a simili esempi che noi pensiamo quando usiamo questo termine. Qual è dunque la differenza? La differenza è il confine. In ciascuno di tali casi c’è un interno e un esterno, un alleato che sta al di qua e con cui cooperare e un estraneo che sta al di là e che dunque si può ignorare, o usare, o distruggere a seconda dei casi. La società del bene comune positivamente intesa al contrario non conosce il concetto di confine bensì quello di rete di relazioni o, per usare un termine caro a Piero, di federazione. Un concetto che, aggiungo io, deve essere esteso alla totalità delle relazioni instaurate da ogni comunità o insieme di comunità umane, comprese quelle, indispensabili, di natura ecosistemica, ovvero con le forme di vita non umana che ci circondano e dalle appropriate relazioni con le quali dipende la nostra vita non meno che da quelle col nostro parente più stretto. Ecco quale preesistente modello culturale esigono iniziative quali quella di Luca: un’idea di solidarietà in cui svanisce la differenza fra interno ed esterno al gruppo essendo ogni gruppo nodo di una stessa rete, e in cui svanisce perfino la distinzione fra sociale ed ecosistemico essendo gli stessi ecosistemi null’altro che comunità viventi di cui noi stessi siamo parte. Costruito un tale modello culturale, costruita in base a esso una rete di relazioni appropriate - umane ed extraumane - potremo finalmente cominciare a progettare ecovillaggi.
Riferimenti
Andrea Bertaglio, Il grembo: Milano Palermo sola andata
http://www.decrescitafelice.it/?p=707
Germano Caputo, Ora più che mai.
http://www.decrescitafelice.it/?p=747
Piero Nigra, Il sistema federativo
http://www.gondrano.it/agric/lab/sistemafederativo.htm