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Verrà il tempo in cui capiremo tutto: allora perdoneremo e saremo perdonati

di Francesco Lamendola - 07/01/2010

È paradossale, ma fa parte dello statuto ontologico dell’essere umano il fatto che egli trovi delusione e senso di vuoto proprio nelle cose che aveva maggiormente desiderato, una volta che le abbia raggiunte e strette in pugno.
Con la sua caratteristica superficialità, la moderna scienza materialista ha dichiarato guerra a un tale dato di fatto, mobilitando la medicina e la psicologia per tentare di costringere l’uomo ad essere felice o, almeno, a non essere troppo infelice: sia con farmaci di vario genere, sia con terapie mentali che, sovente, somigliano a delle cerimonie di bassa magia nera, specialmente quelle che si ispirano alla sinistra chiesa freudiana.
Invece, niente da fare: gli esseri umani non reagiscono positivamente a tanta sollecitudine, mostrandosi alquanto ingrati nei confronti dei loro volonterosi soccorritori.
Si badi: non stiamo parlando della scontentezza cronica dell’individuo inconsapevole e viziato dal consumismo, che non trova appagamento in alcunché a causa della funesta spirale narcisistica che gli offusca la mente e il cuore e gli impedisce di godere la bellezza del mondo. No: stiamo parlando dell’inquietudine e della malinconia che accompagnano l’esistenza degli individui spiritualmente evoluti e consapevoli, e che procurano loro un bruciante senso di vuoto anche nei momenti che dovrebbero essere più appaganti.
Il senso comune giudica con facilità che il porsi in maniera troppo seria di fronte alla vita impedisca di apprezzare le cose di ogni giorno; ma si tratta, appunto, di un giudizio frettoloso e che coglie solo una faccia del problema: perché le persone realmente evolute hanno superato lo stadio in cui la maggiore consapevolezza acutizza una sensibilità morbosa, causando disagio e tensione di fronte all’evidente irrazionalità e ingiustizia di molte situazioni umane.
La realtà è che la persona spiritualmente evoluta sa apprezzare più degli altri le piccole cose d’ogni giorno e non si lascia schiacciare dallo spettacolo della disarmonia di cui è permeata la società, anche perché la giudica per quello che è: un incidente locale nel contesto di un universo infinitamente armonioso.
Da che cosa derivano, allora, quella inquietudine e quella malinconia che offuscano il suo sguardo e ottundono la sua gioia di vivere, specialmente quand’egli si avvicina al raggiungimento dei suoi sogni più cari e dei suoi più profondi desideri? Lo abbiamo detto: è il marchio del suo statuto ontologico.
Questo non significa affatto che noi siamo destinati all’infelicità; al contrario, siamo stati fatti per essere felici; e la felicità è la nostra vocazione, il nostro destino e la nostra ragion d’essere. Se non si ammette questo, non si comprende perché noi siamo qui: bisogna solo dedurne che ci siamo capitati per sbaglio, non invitati da alcuno e senza il nostro assenso, destinati a consumarci lentamente in un amaro struggimento.
Al contrario, ci sembra per lo meno ragionevole supporre che questa inquietudine e questa malinconia non ci siano state date per beffa - una beffa tanto più ironica, in quanto colpisce più duramente proprio le persone che hanno lottato per espandere la propria consapevolezza -, ma come una garanzia e una caparra che esse si placheranno e faranno luogo alla pace, alla gioia e alla pienezza di tutto il nostro essere.

Scriveva, verso il 1587, San Robert Southwell in una lettera a Philip Howard, rinchiuso nella Torre di Londra e in attesa del suo tragico destino (in: «Consigli per l’anima», a cura di John Cumming, 1996; titolo originale: «Letters from Saintes to Sinners»; traduzione italiana di Claudia Galli, Casale Monferrato, Edizioni Piemme, 1997, pp.328-29):

«Nella visione di Dio avremo la pienezza della felicità, che né occhio ha visto, né orecchio ha udito, né cuore di uomo ha sperimentato. La comprensione sarà senza errore, la memoria senza oblio, la volontà senza desideri malvagi, i pensieri puri e sereni, l’affetto ordinato e discreto, tutte le passioni governate  dalla ragione e composte in perfetta serenità. Nessun timore ci spaventerà, nessuna presunzione ci gonfierà, nessun amore ci inquieterà, nessuna collera ci infiammerà, nessuna invidia ci morderà, nessuna vigliaccheria ci abbatterà, ma coraggio, costanza, carità, pace e sicurezza riempiranno e renderanno stabili i nostri cuori. Sarà legittimo amare qualunque cosa vorremo, e qualunque  cosa ameremo la godremo perfettamente; e non solo ameremo, ma saremo anche amati quanto desideriamo. La nostra conoscenza comprenderà qualsiasi cosa possa esserci di conforto, non solo una cosa alla volta ma tutte insieme: così che la moltitudine degli oggetti ci riempirà di gioia anziché confonderci; sazierà la nostra ansia di conoscenza e non ostacolerà la perfetta intelligenza di ogni cosa…»

È stato osservato che anche in altre tradizioni religiose e filosofiche esiste una concezione analoga, sia per quanto riguarda il percorso dell’anima nel suo ritorno alla dimora dell’Essere, sia per quanto riguarda la condizione definitiva del non-manifestato, vale a dire dell’Assoluto.
Si prendano, ad esempio, questi versetti della parte finale della «Bhagavadgita», ove il Signore Supremo, Krishna, rivela al nobile Arjuna, nell’imminenza della grande battaglia di Kuruksetra, le più riposte e sublimi verità spirituali (XVIII, 51-63; traduzione di A. C. Bhaktivedanta Swami Prabhupāda):

«Ascolta Me brevemente, o figlio di Kunti, come, agendo nel modo in cui ti esporrò, si può raggiungere  la perfezione suprema, il livello del brahman.
Completamente purificato dall’intelligenza, controllando la mente con determinazione, rinunciando agli oggetti dei piaceri dei sensi, libero dal’attaccamento e dall’avversione, l’uomo che vive in un luogo solitario, che mangia poco e controlla il corpo e la lingua, che dimora sempre in contemplazione, distaccato, senza falso ego, senza falsa potenza o vanagloria, senza cupidigia né collera, che si chiude alle cose materiali, libero da ogni senso di possesso, sereno, quest’uomo si trova certamente elevato al livello della realizzazione spirituale.
Colui che raggiunge i livello spirituale realizza subito il Brahman Supremo e vi trova una gioia infinita. Non si affligge mai e non aspira mai a niente; si mostra uguale verso tutti gli esseri. Egli può allora servirMi con un amore e una devozione pura. Soltanto attraverso il servizio di devozione si può conoscerMi così come sono. E colui che, con tale devozione,diventa pienamente cosciente della Mia Persona, entra nel Mio Regno assoluto. Sebbene impegnato in ogni tipo di attività, il Mio devoto, sotto la mia protezione, raggiunge, per la Mia grazia, l’eterna e imperitura  Dimora. In tutti i tuoi atti dipendi solo da Me e poniti sempre sotto la Mia protezione. Questo servizio di devozione, compilo in piena coscienza della Mia Persona. Se diventi cosciente di Me supererai, per la Mia grazia,tutti gli ostacoli del’esistenza condizionata. Se invece non agisci animato da una tale coscienza, ma dal falso ego, non ascoltandoMi, sarai perduto. Se non agisci secondo le mie direzioni, se ti rifiuti di combattere, allora sarai fuorviato. E, spinto dalla tua natura, dovrai combattere lo stesso. Nella morsa del’illusione, ti rifiuti di agire secondo le Mie istruzioni. Ma, costretto dalla tua stessa natura, dovrai agire ugualmente, o figlio di Kunti. Il Signore Supremo è situato nel cuore di ognuno, o Arjuna, e dirige l’errare di tutti gli esseri, che si trovano, ciascuno, come in una macchina, costituita di energia materiale. Abbandonati completamente a Lui, o discendente di Bharata. Per la Sua grazia, conoscerai la pace assoluta e raggiungerai l’eterna e suprema Dimora. Ti ho svelato così il più segreto dei saperi. Rifletti profondamente, poi agisci come credi.»

Questa potente visione del nostro destino finale, che presenta alcune significative analogie con il pensiero cristiano, se ne discosta - tuttavia - per l’accento posto sulla accettazione integrale della realtà presente, per quanto illusoria, considerata come il banco di prova per superare ogni forma di attaccamento e, quindi, come via d’accesso alle dimensioni spirituali superiori.
Ma entrambe le tradizioni convergono nel sostenere che già qui ed ora è possibile, a prezzo di un impegno totale e disinteressato, realizzare una condizione che prefigura la pace definitiva cui tutti gli esseri sono chiamati, nel grembo dell’Essere, al termine della prova stabilita per ciascuno di essi. Anche se la concezione cristiana tradizionale ritiene che quanti non avranno saputo realizzare la propria elevazione spirituale, saranno rigettati per sempre; mentre quella induista sostiene che tutti gli esseri, prima o poi - e sia pure a prezzo di innumerevoli cadute ed errori - giungeranno alla liberazione finale.
A sua volta, la visione cristiana ricalca in gran parte quella di un grande sapiente dell’antichità, Platone, secondo il quale - come ci racconta, fra l’altro, nel mito della caverna - noi ora vediamo in modo incerto e confuso, come in un riflesso, ciò che un giorno ci apparirà in tutto il suo incomparabile fulgore.
Abbiamo parlato al futuro, e ciò fa scattare l’immancabile reazione della moderna cultura materialista: perché domani? Perché non oggi? Queste speculazioni, essa dice, somigliano alle promesse degli imbonitori da fiera: evitano il confronto con la realtà, non prendono impegni precisi per il presente.
Già: il presente. L’obiezione della cultura materialista nasce da una confusione tra il piano del presente immediato, rinchiuso nella prigione della temporalità, e la radicale assenza di tempo, ossia con l’eterno presente, proprio della dimensione dell’assoluto. Le due cose non si somigliano affatto: il presente immediato non è che un continuo, inarrestabile autodissolvimento: nessuno ha mai potuto dire, né lo potrà: «Eccoti, ti ho preso!»; non più di quanto si possa stringere forte tra le dita un pugno di sabbia. Viceversa, il presente dell’assoluto costituisce una totale abolizione delle differenze temporali, come quando cadono le scene di un teatro.
Ma non solo vedremo tutto, udiremo tutto e capiremo tutto: non vi sarà solo una espansione illimitata della nostra sfera sensoriale e intellettiva.
Perfino più importate di questa, vi sarà una comprensione profonda del nostro agire e dell’altrui, di tutto ciò che ora si agita confusamente in fondo al nostro cuore. Per questo cadranno il desiderio e l’attaccamento, come vestiti inutili, che non servono più; come pesanti indumenti polari, allorché i ghiacci si sciolgono e sopraggiunge il calore dell’estate.
La comprensione profonda del cuore porterà con sé la capacità di perdonare coloro che ci hanno fatto del male, ora così difficile, e, al tempo stesso, l’attitudine a perdonarci da parte di coloro che abbiamo fatto soffrire a nostra volta. Infatti, solo allora ci renderemo conto di quanto fragili, incoerenti e inadeguati sono i criteri e le motivazioni che, presentemente, ci spingono ad agire in una maniera piuttosto che in un’altra.
È questo, senza dubbio, nella nostra attuale condizione di esistenza, il principale ostacolo sulla via della pace e, di conseguenza, della realizzazione della felicità, per noi e per coloro che ci stanno intorno: l’incapacità di perdonare. Se noi vi riuscissimo, già qui ed ora, probabilmente il mondo diventerebbe una specie di paradiso, che potremmo lasciare in eredità ai nostri figli con animo assolutamente sereno e tranquillo.
Invece noi ci accingiamo a lasciarlo nelle loro mani con un senso di pena e di angoscia, perché sappiamo molto bene di avervi creato un tale inestricabile groviglio di antagonismi e di contese, dal livello individuale più modesto fino alla politica internazionale, che molti indizi lasciano pensare sarà qualche cosa di simile all’inferno per quanti dovranno viverci.
Non foss’altro che per questo, noi abbiamo il preciso dovere di tendere alla realizzazione spirituale: è un impegno che abbiamo contratto con le generazioni a venire, e dobbiamo sforzarci di rispettarlo.