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Gaza: crimini impuniti

di Eugenio Roscini Vitali - 07/01/2010

Ad un anno dalla fine dell’operazione Piombo Fuso e ad un mese dalla scadenza dell’ultimatum imposto dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Israele ed Hamas non hanno ancora punito i responsabili dei crimini commessi durante tre settimane di guerra nelle quali hanno perso la vita 1.417 palestinesi e 13 israeliani. La Risoluzione 64/10, approvata il 5 novembre scorso con 114 voti a favore, 18 contrari e 44 astenuti e bocciata da Gerusalemme, perché considerata completamente avulsa dalla realtà, concedeva ad entrambe le parti  90 giorni per avviare un’inchiesta credibile sulle denunce relative ai delitti commessi contro la popolazione civile tra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009.

Al contrario, nonostante la tregua stabilita a Sharm el Sheikh e il Rapporto Goldstone, che nel settembre scorso ha messo sul tavolo le prove di quanto accaduto in quel conflitto, i responsabili delle violazioni del diritto internazionale non sono ancora stati identificati e i razzi e l’assedio hanno continuato a minacciare la vita degli uni e degli altri. E, cosa più importante, le vittime non hanno ricevuto - e molto probabilmente non riceveranno mai - la giustizia dovuta.

Se Israele e Hamas non dovessero svolgere indagini serie, a febbraio il Consiglio di sicurezza potrebbe trasmettere al procuratore della Corte penale internazionale le conclusioni del rapporto stilato dalla missione di accertamento diretta dal giudice sud-africano Richard Goldstone. Sono 575 pagine che condannano entrambe le parti e parlano di palestinesi usati come scudi umani e di 22 giorni di sconsiderati attacchi militari, di gravi violazioni della IV Convenzione di Ginevra e di bombardamenti che hanno trasformato intere zone di Gaza in cumuli di macerie.

Descrizioni approfondite e circostanziate di quelli che possono essere considerati crimini contro l’umanità: uccisioni, torture e trattamenti inumani che non trovano giustificazione in alcuna operazioni di carattere militare. La relazione parla anche di esposizione della popolazione civile a rischi inutili e di violazione del principio di distinzione degli obiettivi con lancio di razzi e mortai contro insediamenti civili, località abitate che in alcun modo potevano essere considerati installazioni militari.

In realtà, secondo molti analisti, l’operazione Piombo Fuso non ha prodotto i risultati sperati. Ancora oggi, infatti, anche se con minore intensità, i Qassam continuano a cadere sullo Stato ebraico; incessanti, come incessanti sono i raid dell’aviazione israeliana. Fino ad ora l’intervento della comunità internazionale non ha neanche impedito il blocco dei valichi e gli egiziani non hanno nemmeno fermato l’arrivo di armi contrabbandate attraverso i tunnel scavati in prossimità del confine di Rafah.

Ad un anno dalla fine del conflitto, neanche i numeri sono una cosa certa, o perlomeno un argomento sul quale si riesca a trovare un punto di convergenza: le stime ufficiali diramate dall’organizzazione israeliana per i diritti umani “B’Tselem” parlano della morte di 765 civili estranei ai combattimenti: 762 arabi, di cui circa 300 bambini, e 3 ebrei. Completamente diverso il numero dichiarato dalle Forze di Difesa Israeliane, che si fermano a 295 vittime. Human Rights Watch documenta poi la violazione israeliana delle leggi di guerra e del diritto umanitario internazionale con la distruzione delle infrastrutture civili e sanitarie necessarie alla sopravvivenza e all’assistenza della popolazione, con l’uso di proiettili al fosforo bianco nelle aree densamente abitare (vietato tra l’altro dal Trattato di Ginevra del 1980).

Il rapporto prosegue con casi altrettanto significativi, come la morte dei 29 civili palestinesi, fra cui otto bambini, colpiti dai missili sparati dai droni utilizzati dalle truppe del Tsahal, o come gli 11 arabi disarmati, tra i quali cinque donne e quattro bambini, caduti sotto il fuoco dei militari israeliani mentre sventolavano bandiera bianca. Per quanto riguarda Hamas, l’organizzazione newyorkese per i diritti umani denuncia poi il lancio di razzi contro aree urbane e i numerosi casi di tortura nei riguardi dei rivali di Fatah catturati durante i giorni del conflitto.

Mentre il rapporto annuale dei servizi di sicurezza israeliani elogia, e non a torto dal punto di vista ebraico, gli effetti dell’operazione anti-Hamas come il risultato di un’azione efficace e fruttuosa, a Gaza la ricostruzione non é ancora partita. Secondo i numeri diramati da Gerusalemme, il 2009 è stato sicuramente l’anno più calmo dall’inizio della seconda Intifada, sia per quanto riguarda la Cisgiordania che la Striscia di Gaza; non vi è stato un solo attentato suicida e il lancio dei razzi sugli insediamenti è calato del 75%, con 15 israeliani rimasti uccisi contro i 36 del 2008.

Da parte palestinese invece le famiglie costrette a vivere sotto le tende fornite dalle Nazioni Unite sono ancora 162; 40 mila le persone senza corrente elettrica; più di 3.500 le case da ricostruire, 268 le piccole aziende distrutte, decine le scuole, i depositi e le infrastrutture ancora inutilizzabili. Tutto fermo, fin quando non verranno almeno rimosse le 600 mila tonnellate di detriti causati dai bombardamenti e non inizierà ad arrivare il materiale necessario alla ricostruzione. Facile a dirsi, ma non a farsi: per questo tipo di attività nel 2009 a Gaza sono stati fatti entrare 41 camion, contro i 7.400 veicoli al mese autorizzati prima del blocco imposto nel 2007.