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La lotta fra le diverse anime dell'Iran

di Roberto Zavaglia - 10/01/2010

 

Le proteste in Iran, cominciate dopo l’annuncio della vittoria di Ahmadinejad nelle elezioni del  giugno scorso, non solo non si stanno esaurendo, ma, nelle ultime settimane, si sono intensificate, sfruttando l’occasione offerta dalle solennità religiose e dal cordoglio pubblico per la morte dell’ayatollah dissidente Montazeri. Il movimento verde sembra non essere effimero come altri che lo hanno preceduto invocando una svolta “riformista”. I contestatori sfidano apertamente una repressione che si è fatta più dura man mano che la protesta cresceva di intensità ed aggressività.
  I caduti durante le manifestazioni si contano ormai a decine, anche se non è in atto quel massacro generalizzato che molti media occidentali denunciano senza prendersi la briga di controllare le fonti. Non è paradossale constatare che le centinaia di migliaia di dimostranti nelle strade dimostrano che l’Iran non è lo Stato dispotico dipinto da molti. Altrove, la crescita di un simile movimento di opposizione non sarebbe stata possibile perché le forze di sicurezza avrebbero colpito preventivamente. Per rimanere al mondo islamico, è assolutamente impensabile che in Paesi come l’Arabia Saudita o l’Egitto, dove pure non mancano gli oppositori ai regimi al potere, imponenti cortei di protesta percorrano le vie delle città: la polizia provvede molto in anticipo. Eppure, nella nostra stampa non si levano voci indignate contro la repressione in quegli Stati che, guarda caso, sono fedeli alleati di Washington.
  Non è, comunque, nostra intenzione minimizzare il tributo di sangue che i manifestanti in Iran stanno pagando. Vorremmo solo che non si facesse confusione tra un regime, come quello iraniano, che reagisce talvolta in modo brutale contro manifestanti non sempre pacifici e le varie dittature sparse per il mondo che non tollerano, a prescindere, alcun dissenso. In Occidente, tutto ciò che non è  democrazia liberale viene definito dispotismo, dittatura, Stato di polizia e via esecrando. La Repubblica Islamica, però, non appartiene a nessuna delle due categorie con cui ci si accontenta di classificare il mondo intero. Il velayat-e faqih, ovvero la tutela dell’autorità religiosa sulla vita pubblica, è il principio posto alla base della sua Costituzione che, promulgata nel 1979, è anche il risultato del compromesso fra la visone teocratica di Khomeini e il “repubblicanesimo” dell’allora primo ministro Bazargan.
  L’inedita forma di governo e di divisione dei poteri prodotte dalla Rivoluzione islamica mettono insieme la sovranità popolare, espressa con il voto, e il controllo e l’indirizzo politici esercitati dall’alto clero in nome della sharia. I cittadini eleggono il Parlamento, il presidente e l’Assemblea degli Esperti la quale può, almeno in teoria, destituire la Guida suprema se, manifestatamene, non si dimostra capace. La stessa Guida, oggi impersonata dall’ayatollah Khamenei, e istituzioni come il Consiglio dei Guardiani sorvegliano che l’attività politica sia consona ai principi islamici e possono   respingere i disegni di legge ritenuti ad essa contrari, nonché bocciare la candidatura al Parlamento e alla presidenza di persone ritenute non idonee. Si tratta di un regime democratico con un forte condizionamento “clericale” che, però, non manca di una sua dialettica, come è dimostrato, tra l’altro, dalla creazione di un Consiglio delle opportunità, chiamato a mediare nelle controversie tra il “laico” Parlamento e il religioso Consiglio dei Guardiani.  
  Questo sistema misto ha finora sostanzialmente funzionato e trova la sua legittimità nel clima di fervore religioso dei tempi della Rivoluzione che, non va dimenticato, era riuscita a disarcionare lo Scià anche a causa della sua politica giudicata troppo laica. La società è, però, molto cambiata dai tempi dell’ascesa al potere di Khomeini: le città si sono ulteriormente ingrandite, si è formata una nuova borghesia delle professioni e delle attività private, l’accesso alla scuola è garantito a tutti e moltissimi giovani frequentano le università. Quando, nel 2005, Ahmadinejad ottenne a sorpresa il suo primo mandato presidenziale,  la stratificazione sociale del Paese aveva già, in buona misura, scompaginato le correnti politiche che in Occidente, crediamo, con approssimazione, si fronteggino compattamente: i riformisti e i conservatori. Mentre i primi attraversavano una forte crisi, i loro avversari si erano divisi tra fondamentalisti fedeli ai principi di Khomeini, pragmatici come l’ex presidente Rafsanjani e radicali populisti guidati dal candidato vincente.
  Nelle elezioni dello scorso anno, poi, l’opposizione “conservatrice” ad Ahmadinejad si è espressa con la candidatura di Rezai, ex comandante dei pasdaran  e con la presa di posizione, contraria alla rielezione del presidente, di 19 dei più prestigiosi ayatollah di Qom. Come si vede, la rappresentazione di un Paese diviso tra un pugno di conservatori, disposti a tutto pur di mantenere il potere, e la grande maggioranza della popolazione intenzionata a rovesciare il regime è non solo semplicistica, ma del tutto falsa. Il consenso del presidente, al di là dei presunti brogli mai veramente dimostrati, affonda soprattutto nelle campagne, grazie alle politiche di aiuto alla popolazione contadina e fra gli strati medio-bassi della popolazione che sono più interessati alle politiche sociali rispetto ai diritti individuali.
 E’ ben possibile che Ahmadinejad abbia realmente conquistato la maggioranza dei voti (l’unico sondaggio indipendente lo dava largamente in vantaggio) anche se gli osservatori occidentali hanno occhi solo per il malcontento degli universitari e della borghesia cittadina. Il sistema politico è però in  crisi: la protesta, che comunque coinvolge una parte vasta del Paese, non è più limitata al solo risultato elettorale, ma mette apertamente in discussione il principio della tutela religiosa sullo Stato. Il governo accusa le potenze straniere, in particolare gli Usa, di sobillare e finanziare i manifestanti, non senza ragioni dal momento che la Cia ha una consolidata tradizione di destabilizzazione in Iran e la stessa Amministrazione di Washington ammette tranquillamente i  finanziamenti destinati al “regime change”. Le trame occidentali contro il governo iraniano  produrrebbero, però, pochi effetti se l’opposizione non fosse radicata, come invece è, in larghi strati della popolazione.
  Il regime, anche se davvero dispone del consenso della maggioranza dei cittadini, non può ignorare le istanze di alcune delle classi più dinamiche del Paese. L’alternativa è la chiusura a ogni  cambiamento necessario e una repressione sempre più spietata, con le quali non si va da altra parte che verso una fine ingloriosa. La sopravvivenza dell’ “anomalia iraniana”, intesa come indipendenza nazionale e autonoma via allo sviluppo, può essere salvaguardata solo con un difficilissimo compromesso politico che sappia integrare la pluralità di culture e aspirazioni  di tutta la popolazione.