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Il film di Verdone e Rosarno: due ritratti del degrado italiano

di Marcello Veneziani - 10/01/2010

 

La famiglia italiana è oggi davvero quello schifo descritto da Carlo Verdone nel suo ultimo film? Temo proprio di sì. Quella di Verdone, naturalmente, è una caricatura, e dunque concentra in un nucleo familiare vizi e brutture che si spalmano in modo più diffuso e contraddittorio su famiglie che hanno anche lati sani e ammirevoli, se non addirittura eroici. Però la situazione familiare e sociale è davvero vicina a quel punto-schifo. E rispetto al passato, non si tratta più nemmeno di un conflitto tra una gioventù nichilista e debosciata e le vecchie generazioni che resistono ancor in piedi, seppur tra pregiudizi e ipocrisie, al disfarsi della famiglia; no, qui siamo, e lo descrive bene Verdone, al degrado di tre generazioni, quella dei padri anziani, quella dei figli di mezza età e quella dei nipoti in crisi depressiva. Più contorno di spacciatori, puttane venute dal terzo mondo, mariuoli e marpioni. Tutto osservato con gli occhi di un prete missionario e ormai dubbioso della sua fede, tornato a Roma dove la miseria morale e spirituale gli fa rimpiangere la miseria nera africana.
Non capisco la polemica sul film di Verdone, tra chi - come Messori - esorta a nutrire più fede e più speranza e Verdone stesso che si professa cattolico e si giustifica dicendo che il suo film pecca semmai proprio di ottimismo nel suo lieto fine. No, il film non ha un lieto fine, ma finisce con una grottesca caricatura di una famiglia unita. Ma se la situazione è quella, non cerchiamo per favore conclusioni confortanti: la realtà è disperante, non rifugiamoci nelle belle speranze. Non è una disputa teologica, è la rappresentazione comica e veritiera della realtà; non un film nichilista, come si è scritto, ma un film sul nichilismo. Quel nichilismo che fino a cent’anni fa era intuizione tragica di filosofi e di spiriti profetici e oggi è vita comune, paesaggio di massa, versione domestica e orizzonte di epoca.
Ho visto il film di Verdone, poi ho visto in tv gli scontri di Rosarno e il tetto posto dal ministro Gelmini agli stranieri in classe. Mi è parso di vedere lo stesso film, o se preferite la stessa notizia. Tra realtà e fiction non c’è soluzione di continuità. La famiglia italiana si è sfasciata, non fa più figli e non dà più braccia lavoro; al suo posto cresce una popolazione avventizia e clandestina che occupa gli spazi disertati dagli italiani. Dal marciapiede alle campagne, dalle aule alle chiese, a volte in forma di moschee. Come le tre prostitute africane di Verdone. Come gli extracomunitari di Rosarno. Come i bambini stranieri che vanamente la Gelmini vuole regolamentare. Una società cinica e cattiva. Brutta, sì brutta. Come il nonno tutto viagra e parrucca rossa di Verdone, come il fratello cinico e sniffatore, come la nipote emo, tossica e depressa. Certo, l’immigrazione clandestina va arginata e scoraggiata, le prostitute di colore e soprattutto i loro papponi vanno cacciati, i bambini stranieri non vanno ammassati ma spalmati in classi e scuole diverse. Ma il punto debole è la famiglia italiana. Che non c’è, non produce modelli e valori di vita, consuma ma non educa, non figlia e non fornisce faticatori. Non argina il male ma lo alleva, o si arrende: esce a mani alzate da casa, quando non lo fa entrare in casa. Sulla famiglia sventola bandiera bianca. È quel buco nero al centro della nostra società che produce mostri. Domestici e remoti, familiari e stranieri. So che non ci può essere nessun rimedio teologico e pastorale che possa bastare, ma nemmeno politico o poliziesco. Perché l’ondata colpisce a ogni livello e i dispositivi di difesa - biologici, civici e culturali - sono ormai saltati. Hai voglia ad aumentare i controlli di sicurezza, a inveire contro gli immigrati, a collocare il Malessere fuori di noi, nel Tartaro. Qui il malessere è soprattutto dentro le case, dentro le nostre vite, dentro di noi. E allora le reazioni possono essere di quattro tipi: la prima, sterile, è quella di rimpiangere il tempo andato e vedere il bene solo nel passato che più non ritorna. La seconda è quella di accettare la visione catastrofica fino ad augurarsi di arrivare per cinismo, anoressia e denatalità al definitivo tramonto, vivendo la propria vita come ultima corsa prima del diluvio. La terza è quella di non considerare la situazione catastrofica ma semplicemente diversa, e adeguarsi a vivere bene in questo modo, sostenendo che ogni epoca abbia le sue forme e le sue cadute, i suoi vantaggi e le sue perdite. La quarta è cercare una via d’uscita, un superamento, dunque, non un ritorno indietro o un’accettazione supina o perfino divertita della realtà. Senza preclusioni ideologiche e pur consapevoli che la situazione ci sovrasta, ora salvando il salvabile, ora accogliendo e plasmando nuove opportunità e nuove forme di convivenza, ora cercando di ripristinare altre forme che ritenevamo sepolte nel passato. Insomma scommettendo sulla possibilità di rifondare la vita comunitaria senza stereotipi progressisti o reazionari. Quest’ultima soluzione è la più necessaria e la più proibitiva, la più vera e la più velleitaria al tempo stesso. La più faticosa e creativa. Vorrei dire la più umana, ma anche la più divina. Capire che nulla è definitivo sulla terra, nemmeno la dissoluzione; capire che ci può essere un futuro diverso non solo dal passato ma anche dal presente. Niente speranze né rassicuranti bugie, solo tentativi di soluzione partendo dalla realtà. Di più non so offrire, di meglio non riesco a dire.