L’altro giorno c’è stata un po’ d’agitazione a Milano per la proposta del sindaco Letizia Moratti di intitolare una via a Bettino Craxi.
Ora, so benissimo chi è Bettino Craxi; né ignoro quali siano le sue responsabilità nell’aver fatto della mia Mediolanum una “Milano da bere”.
Ma c’è qualcosa che non scordo, direbbe Lucio Battisti: ed è Sigonella.

E solo per quello, solo per aver regalato a questa serva Italia un sussulto benedetto di sovranità nazionale — evento inaudito e mai più ripetuto dal 1943 ad oggi —, io a Craxi non intitolerei soltanto una strada.
Io gli farei un monumento — uno di quei bei monumenti di una volta, magari equestre, con Bettino a spada sguainata contro gli F-14, Pollicino contro l’Orco, Davide contro Golia, cosacco bianco al galoppo sfrenato contro i carrarmati sovietici.

Perché quella volta di Sigonella, nel 1985, è stata anche l’ultima volta che mi sono sentita felicemente orgogliosa di essere italiana. (Neanche adesso, sia chiaro, sputerei sulla mia italianità; e la difendo ancora con le unghie e coi denti, ma con l’ostinazione dolente e le lacrime rabbiose di chi non vuole rassegnarsi e sogna un passato che non torna o un futuro troppo al di là da venire).

Di più: non me ne importa niente di certe rivelazioni che nulla tolgono a quel gesto — perché chi è servo senza aver coscienza del proprio presente di servaggio né memoria di un passato che l’ha visto libero, merita di non avere un futuro e di servire fino alla morte.

Ancora, vorrei ricordare a tutti i benpensanti d’accatto e d’occasione, che si stracciano vesti anzi gabbane rivoltate da troppo tempo, le parole che Bettino Craxi (sostenitore di un’euromediterraneità che fa paura ancora a troppi) pronunciò nel suo intervento alla Camera dei Deputati sulla questione palestinese, il 6 novembre 1985, a meno di un mese dai fatti di Sigonella:

«[…] contestare ad un movimento che voglia liberare il proprio paese da un’occupazione straniera la legittimità del ricorso alle armi significa andare contro alle leggi della storia […] Quando Giuseppe Mazzini, nella sua solitudine, nel suo esilio, si macerava nell’ideale dell’unità ed era nella disperazione per come affrontare il potere, lui, un uomo così nobile, così religioso, così idealista, concepiva e disegnava e progettava gli assassini politici. Questa è la verità della storia».

Alla faccia dei buonisti che son buoni perché pecore e non lupi.