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Iran. La tomba dei ‘colorati’

di Fabrizio Fiorini - 11/01/2010

 

Il fenomeno che recentemente è assurto agli onori delle cronache e delle analisi politiche con la denominazione di “rivoluzioni colorate” – terminologia amena che dietro una mano di policromia cela le più grigie manovre dell’imperialismo atlantico – è da inserirsi, ad un’accurata indagine, in quella prassi pluridecennale applicata dagli Stati Uniti d’America e dai loro accoliti che può sostanzialmente essere ricondotta alla tipologia del regime change, consistente nel sovvertimento delle legittime istituzioni di uno Stato o nel re-indirizzamento delle istituzioni preesistenti ai fini dell’adesione (o di un’adesione più marcata) della nuova o rinnovata classe dirigente alle linee di programma geopolitiche ed economiche dell’Occidente capitalista.

Se il termine non fosse storicamente abusato si potrebbe parlare senza fallo di “guerra fredda” (fatto salvo il calore di qualche molotov), una guerra senza cannoni che mira però a ottenere risultati ancor più radicali che non la guerra guerreggiata. Si obietterà che anche gli avvenimenti cileni del 1973 furono un regime change, e che in quell’occasione le armi furono usate eccome; cosa distingue allora quegli eventi da una “rivoluzione colorata”? La linea spartiacque è il 1991. Fino ad allora, anche in Europa, si mandavano i carri armati in piazza, se la polizia sparava nelle strade non ci si scandalizzava più di tanto, e le dinamiche della violenza politica erano differenti, comunque improntate a una connotazione più esplicita. Che cosa accadde dopo tale data? Di certo non siamo “diventati tutti più buoni”, anzi. O almeno non lo sono diventate le strutture repressive, informative, di sicurezza e di guerra occulta. Nei primi anni Novanta del secolo scorso, messe in naftalina molte giunte militari del cosiddetto “terzo mondo” e dismessi gli apparati dei regimi realsocialisti, la dimensione “estera” della politica delle superpotenze e delle potenze regionali dell’Occidente si è ammantata di una maschera dal nome tanto rassicurante quanto – per i più smaliziati – latrice di una ancor più infida e incisiva ingerenza imperialista: l’umanitarismo. Si continua quindi a bombardare, a occupare, a saccheggiare le nazioni, a ucciderne e a torturarne i patrioti, e gli attori di questa tragedia rimangono gli stessi: gli Stati Uniti, la serva Europa e l’entità sionista. Ma, diversamente da prima, con intenti umanitari.

Le metodologie operative quindi cambiano, e (escluse le campagne belliche di esplicita aggressione) si opta per un approccio più leggero alle politiche di ingerenza. Tutto ciò ovviamente bisogna relativizzarlo allo scenario in cui si opera: se in Africa centrale è ancora possibile bombardare un palazzo presidenziale o fomentare una guerra civile, non è più possibile – o è comunque sconsigliabile – farlo in America latina (esempio venezuelano), in Stati con istituzioni consolidate e popolari (il caso dell’Iran) e men che meno nel ‘piano nobile’ del potere coloniale, quell’Europa a sovranità limitata in cui viviamo. Si istituiscono quindi vere e proprie centrali del terrore, incorporate nelle strutture di intelligence e che si articolano all’interno delle diramazioni del potere a stelle e strisce, quali i partiti-fotocopia democratico e repubblicano. Prendono i nomi di “fondazioni”, “istituti”, “commissioni”, godono del lauto finanziamento di filantropi-sanguisughe (uno per tutti: il signor Soros) e sono in grado di esercitare una smisurata pressione mediatica, di organizzare e sobillare la piazza, di mettere in atto un sistematico boicottaggio economico avverso ai governi che si desidera rovesciare. Insomma, di mettere in piedi una “rivoluzione colorata”[1].

La tipologia e le connotazioni di questi interventi (ça va sans dire: umanitari) sono catalogabili in un complesso organigramma relativo a decine di variabili, tra cui il periodo, il luogo, l’uso della forza, le finalità. Ma ragionando per sommi capi, e volendo delineare una classificazione più larga di queste azioni eversive del capitalismo, possiamo suddividerle in due grandi gruppi: quelle riuscite e quelle fallite. Il successo delle rivoluzioni colorate ha potuto contare essenzialmente su due ‘corollari’ che ne hanno determinato l’effettiva riuscita: il preventivo logoramento bellico del teatro delle operazioni (esempio della Jugoslavia, nel 2000), ovvero il pregresso logoramento e asservimento in chiave filo-occidentale del locale governo (Georgia nel 2003, Ucraina nel 2004). Dove queste due condizioni sono venute a mancare, invece, i ‘colorati’ sono dovuti tornare, buonini buonini e con le pive nel sacco, da dove erano venuti, per lo più dagli esili dorati delle capitali occidentali. Accadde nella – pur (social)imperialista – Cina, con Tien An Men e con la rivolta tibetana di quasi vent’anni dopo; accadde nel Venezuela bolivariano e socialista, nel 2002  e ancora cinque anni più tardi; accadde nell’altalenante Bielorussia, che fa della sua vicinanza a Mosca caposaldo della sua sovranità nazionale; accade oggi, naturalmente, nell’indomabile Iran islamico. Ecco quindi delinearsi i bastioni contro cui si rompono le ossa i burattini multicolore di Washington: la sovranità nazionale e (contestualmente) la forza militare che la tutela.

La lettura delle cronache da Tehran sulla grande (e piccola) stampa nazionale di queste ultime settimane suscitano un caleidoscopio di sensazioni, che vanno dall’irritazione allo sconcerto, dalla nausea all’amara e acida ilarità. Stucchevoli, diabetici, i piagnistei de La Repubblica e de L’Unità, una litania senza fine sui “diritti umani” che camuffa da singhiozzi e da pianto le più selvagge grida di guerra; dolciastri, saccenti e puntigliosi i corsivi de Il Corriere della Sera; più amena, e sconclusionata fino a provocare il riso, la lettura de Il Giornale[2]. Ci regala il meglio di sé Renato Farina, che, nei suoi appassionati resoconti sulle vicissitudini dei rivoltosi ‘verdi’[3], si chiede come mai, per “quei ragazzi” di Tehran l’Europa resti immobile; un disincanto che richiama alla mente – mutatis mutandis – le lacrime da coccodrillo datate di mezzo secolo sull’immobilismo dell’Occidente di fronte al sangue versato a Budapest e a Praga. Già, chissà perché l’Europa non fa nulla? L’idea che l’opinione pubblica di questa Europa non possa fare nulla perché stritolata dalle fitte maglie di una propaganda che costringe anche la più radicale dissidenza nel vicolo cieco del “né – né” (ne con gli Usa, né con Ahmadinejad) deve essere un concetto troppo alto per la ‘spicciola’ cronaca del suo quotidiano. O che forse va troppo oltre anche per il “politicamente scorretto” d’avanspettacolo di cui si fa portatore. Quando però c’è da attaccare il governo iraniano Il Giornale dimentica questi toni dimessi, abbatte l’ ‘alzo’ e fa fuoco a volontà: bisogna proibirgli la ricerca nucleare, sono dei pazzi con l’atomica, costringono Israele (che detiene un centinaio di testate atomiche non dichiarate e che rapisce e segrega in carcere per decenni uno scienziato reo di averne parlato con la stampa) a vivere “nell’incubo nucleare”. Vanno oltre: la polizia iraniana spara su inermi manifestanti[4], e i raduni dell’opposizione diventano moltitudini di milioni di persone. Le manifestazioni di sostegno al legittimo governo, ad Ahmadinejad e all’ayatollah Khamenei (davvero enormi: lì la folla è stata fotografata dall’alto, nella sua interezza, e non con i provvidenziali e falsificanti primi piani dei free-lance addomesticati) vengono descritte come adunate di pochi esaltati prezzolati.

Smontare la loro propaganda diventa fin troppo facile, e lasciare che questa ennesima ingerenza, questo ennesimo tentativo di destabilizzazione dell’Iran  transiti dalla sonora sconfitta al vergognoso oblio è solo questione di tempo. Ci basti citare le parole proferite dall’ayatollah Jannati in appendice alla preghiera di venerdì 1 gennaio all’Università di Tehran: «gli iraniani hanno dimostrato pazienza e autocontrollo grazie al rispetto delle linee guida offerte dal Leader Supremo, e vogliono mantenere la calma nella società, altrimenti avrebbero potuto facilmente mettere in ginocchio i rivoltosi. (…) Gli Stati Uniti hanno già fallito nei loro tentativi trentennali di rovesciare la Rivoluzione islamica con intenti di rivincita nei confronti della nazione iraniana, e sicuramente non vi riusciranno neanche nel futuro. (…) I complotti statunitensi sono già falliti e i rivoltosi non potranno più alzare le loro mani»[5].

La sovranità, la legittima forza, la ricerca della pace e la determinazione di un popolo possono ricacciare indietro anche le più oscure delle manovre. Ci permettono di pronunziare candidamente e col sorriso una abusata locuzione: l’ordine regna a Tehran.

 

 

 

 

 


[1] Ricordiamone alcune: l’Usaid (United States Agency for International Development);il Cipe (Center for International Private Enterprise); l’Ndi (National Democratic Institute for International Affairs, patrocinato dal partito democratico statunitense); l’Iri (International Republican Institute, patrocinato dai repubblicani).

 

[2] Occorre dare atto al giornale diretto da Vittorio Feltri che la sua lettura, per via dell’impostazione tagliente, delle argomentazioni (a loro comodo) efficaci e di uno sbandierato “politicamente scorretto” di quart’ordine, risulta più gradevole, se raffrontata al torpore sulfureo degli altri quotidiani nazionali. Inoltre la sua ‘pirotecnica’ schizofrenia tipografica (nell’arco di tre pagine si può trovare una campagna informativa sul signoraggio e un editoriale di Fiamma Nierenstein) ci permette non poche amare risate di compassione.

[3] E il popolo democratico sa soltanto guardare, Il Giornale, 28-12-2009.

[4] Al di là delle constatazioni riguardo le montature propagandistiche volte a screditare l’operato della polizia iraniana (in passato stessa cosa fu fatta col Venezuela), il fatto che la polizia spari, in presenza di una manifestazione di piazza che si prefigge di abbattere con la violenza le istituzioni, è una cosa vecchia come il mondo, o quanto meno come la polvere pirica. Non l’hanno certo inventata a Tehran o a Caracas. In Italia, fino a trent’anni or sono (e tuttora, pur se in misura ridotta) era la prassi.

[5] Irna, 1 gennaio 2010.

 

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