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Se il processo corto rischia di diventare una prescrizione corta

di Massimo Fini - 12/01/2010

 

La prima riunione operativa dell’anno il convalescente Berlusconi l’ha tenuta a Villa S. Martino col ministro della Giustizia Angiolino Alfano, rientrato in anticipo dalle ferie, e col suo avvocato e deputato, Nicolò Ghedini. Tema: il ddl sul "processo breve" ora ribattezzato "processo corto per renderlo, riferiscono le cronache, "meno indigesto alla Lega". A tutti piacerebbe un processo "breve" o "corto" che sia, perché significherebbe: certezza della pena per i colpevoli, assoluzione in tempi ragionevoli degli innocenti, minore durata delle carcerazioni preventive e, qualora si decidesse di ripristinarlo nella sua interezza, possibilità di garantire il segreto istruttorio e tutelare l’onorabilità delle persone coinvolte a qualsiasi titolo in un procedimento penale. Ma il "processo corto", senza una preventiva e radicale modifica dell’intero impianto giuridico, si risolverebbe in "prescrizione corta". Certo non sarebbe il processo, certa sarebbe l’assoluzione per tutti e non solo per i procedimenti in corso ma anche per quelli futuri (ben di più e ben di peggio quindi di un’"amnistia mascherata" ma un’"amnistia permanente".

Ciò che occorre fare è ripulire e smagrire drasticamente la nostra procedura penale. Il vizio di base del nostro Codice è che, a differenza di quelli anglosassoni che prendono dal diritto romano, è impiantato sul sistema bizantino. Il diritto romano, contadino, pragmatico, privilegiava la velocità delle procedure sulla certezza assoluta della giustizia dei verdetti.

Il diritto di Gaio e Giustiniano è invece una stupenda cattedrale gotica, fatta di pesi e contrappesi, di misure e contromisure, che pretende di eliminare l’errore. In realtà oltre ad allungare in modo abnorme le procedure non ottiene nemmeno il suo scopo: perché a distanza di anni i testimoni non ricordano o ricordano male o sono morti, le carte sono ingiallite, illeggibili o sono andate perdute, eccetera.

Il nostro Codice presenta quindi possibilità pressoché infinite di ricorsi, di controricorsi, di impugnazioni, di eccezioni di incompetenza (per territorio, materia, funzione), di ricusazioni, di revisioni, il tutto spalmato su tre gradi di giudizio dove anche l’ultimo, quello della Cassazione, attraverso il grimaldello della coerenza della motivazione col dispositivo è diventato, caso unico al mondo, un giudizio di merito. A questo impianto farraginoso che ha sempre posto dei gravi problemi di funzionalità fin dagli anni Cinquanta (ma allora, perlomeno, il numero dei reati era minore) si sono aggiunte, dopo Mani Pulite, una serie di norme cosiddette "garantiste" per trarre di impaccio tangentisti, politici, lorsignori vari (lo stesso Berlusconi è stato salvato sei volte dalla prescrizione) che hanno inzeppato ulteriormente il Codice di procedura penale rendendolo, soprattutto per i reati finanziari e contro la Pubblica Amministrazione, pressoché inservibile.

Arrivare al "processo corto" comporta quindi un lungo, e pensato, lavoro di repulisti e il problema non può essere certo risolto con un decreto legge varato in tutta fretta per sottrarre Berlusconi ai suoi processi, soprattutto da quello Mills in cui, se si sta alle motivazioni della sentenza di primo grado di condanna dell’avvocato inglese, difficilmente il cavaliere salverebbe la ghirba. Decretare per legge il "processo corto" significa di fatto rendere inutili, ma pur sempre costosi, i procedimenti per una lunga serie di reati, anche gravi e gravissimi. Farlo perché c’è un signore che, credendosi evidentemente "più uguale" degli altri, si rifiuta di sottoporsi alle regole del Paese di cui è premier mi pare oltre che devastante un insulto all’intera cittadinanza.