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L'Europa necessaria che non c'é

di Roberto Zavaglia - 17/01/2010

 

Varato da poco il G20, con la conseguente perdita di autorevolezza del G8 come forum di decisioni mondiali, il rischio è che, nei prossimi anni, sarà un G2 non ufficiale, ma provvisto di autorità effettiva, a reggere i destini del pianeta. Stati Uniti e Cina, in questa fase, potrebbero convincersi che una sorta di patto di consultazione permanente sulle più importanti questioni mondiali, di carattere politico ed economico, conviene ad entrambi. Con Washington impegnata a gestire con il minor danno possibile il processo di esaurimento del dominio unipolare e Pechino che continua la sua ascesa economica solo minimamente intaccata dalla crisi economica, l’ipotesi non pare peregrina.
  Non si tratterebbe certo di un matrimonio d’amore e forse nemmeno di convenienza, dal momento che i due Paesi sono destinati, nel lungo periodo, ad entrare in collisione in aree, come quella  dell’Asia orientale e dell’Oceania bagnate dal Pacifico, in cui è più difficile trovare una mediazione  tra i rispettivi “interessi imperiali”. Quella che forse sta per sorgere è, piuttosto, una “relazione obbligata” tra due potenze in transizione che, essendo in questo momento le più forti, accettano, più o meno a malincuore, di sostenersi reciprocamente. Ovviamente, questo rapporto privilegiato non esclude dissapori e crisi temporanee su questioni circoscritte, ma dovrebbe sopravvivere a eventuali tensioni soprattutto, ma non solo, per la condizione di debitore e creditore che, rispettivamente, “imprigiona” Washington e Pechino.
  Che non si tratti di teorie del tutto astratte lo ha recentemente dimostrato l’esito del vertice di Copenaghen sul clima. In quella sede, le delegazioni di Usa e Cina ( i maggiori inquinatori del mondo con il 41% delle emissioni globali) hanno occupato tutta la scena, lasciando agli altri solo qualche dichiarazione di circostanza. Essendo ben determinate a difendere gli interessi delle proprie economie, le due potenze hanno provocato il sostanziale fallimento del vertice che si è concluso senza alcun impegno concreto. L’Europa, che a torto o a ragione si ritiene in prima fila nella battaglia contro l’inquinamento e aveva annunziato, con toni altisonanti, la proposta più ambiziosa,  si è dovuta limitare a prendere atto delle (non) decisioni altrui.
   Ancora una volta, l’Unione Europea ha palesato la sua inadeguatezza politica. Ora, le speranze degli europeisti sono appuntate sugli effetti del Trattato di Lisbona, che è finalmente entrato in vigore. Anche chi, come noi, non ha mai ceduto al disfattismo sul processo di integrazione, non può, però, nutrire grandi attese. Le nuove regole comportano, sulla carta, importanti, anche se non sufficienti, miglioramenti politici, ma riguardo alla loro applicazione concreta domina ancora l’incertezza, per non dire la confusione. Come è noto, il Trattato rafforza il ruolo dell’Alto Rappresentante dell’Unione per la politica Estera e di Sicurezza (ogni volta che tocca scrivere una definizione tanto burocraticamente magniloquente ci si imbarazza) che potrà disporre di un autonomo servizio diplomatico e diverrà pure vicepresidente della Commissione. La politica estera continuerà però a essere decisa all’unanimità (!) dal Consiglio (organismo intergovernativo), mentre la non irrilevante, dal punto di vista diplomatico, cooperazione allo sviluppo rimane di pertinenza della Commissione (organismo parzialmente sopranazionale).
  Il “ministro degli Esteri” europeo si trova così a tenere il piede in due scarpe, con il rischio, molto vicino alla certezza, di essere un semplice esecutore e non il decisore di cui ci sarebbe bisogno, complice anche la figura, per ora sbiadita, di Catherine Ashton che è stata scelta per questo ruolo. Sempre a proposito di sovrapposizioni e incongruenze, si segnala la sopravvivenza della presidenza semestrale dell’Unione, pur essendo stato introdotto il ruolo di presidente permanente del Consiglio Europeo -che avrebbe dovuto costituire, nelle speranze dei più entusiasti, il “capo” dell’Europa-  il quale è stato pure affidato a una personalità non particolarmente scintillante come Herman Van Rompuy.   
  Non proseguiamo oltre nell’analisi delle labirintiche istituzioni comunitarie perché si tratta di un argomento che insieme ai lettori - i quali di solito, non per colpa loro, non riescono a venire a capo dell’oscura materia- annoia anche chi le deve descrivere. In sostanza, il succo è che, se rafforzamento politico ci sarà, si tratterà di un miglioramento molto limitato e inadeguato ai compiti che l’Unione dovrebbe affrontare. L’Europa avrebbe potuto sfruttare la fase più calda della crisi finanziaria per prendere coraggio e dotarsi di un governo comunitario dell’economia, con importanti conseguenze anche sul piano politico. Anche allora, però, gli Stati, pur di non rinunciare alla propria quota di sovranità, comunque già ristretta dalla globalizzazione finanziaria, preferirono rendere meno efficaci le proprie manovre rispetto a quelle che si sarebbero potute decidere con un’economia di scala a livello comunitario. Ci fu sì un “coordinamento” per rendere omogenei i piani dei diversi Stati, ma sul totale degli investimenti la quota fornita dal bilancio comunitario fu solo dello 0,3%.
  Eppure, affiancare al controllo comunitario della moneta anche il governo dell’economia sarebbe non solo un passo necessario per dare maggiore legittimità all’Unione (oggi la Banca Europea è un organismo irresponsabile delle sue decisioni nei confronti dei cittadini) ma rappresenterebbe anche uno degli strumenti per evitare la totale irrilevanza del Vecchio Continente negli equilibri mondiali. Prendiamo, per esempio, la spesa militare. Attualmente, gli Stati della Ue vi investono circa la metà degli Usa, cercando ognuno di dotarsi di uno strumento militare “completo”, ma ottengono solo il  10% di quanto si raggiunge sull’altra sponda dell’Atlantico. Lo stesso discorso potrebbe valere per la ricerca e per infrastrutture come strade, telecomunicazioni, reti ferroviarie, tecnologie informatiche ed altro. Se si “facesse insieme”, si farebbe di più e si potrebbe raggiungere una massa critica utile a competere con le potenze mondiali vecchie e nuove. Di fronte a un nascente duopolio Usa-Cina, un’Europa coesa sul piano politico ed economico potrebbe, inoltre, attrarre tutti quei Paesi che si ribellano al nuovo bipolarismo spurio.
 I critici di destra e di sinistra dell’integrazione continentale hanno talvolta ragione su singole questioni. Non sono però in grado di proporre un’alternativa per scongiurare lo scenario di un’Europa non solo ormai lontana dall’essere il centro del mondo, ma in procinto di diventarne una periferia, in cui anche la sua attuale prosperità potrebbe essere messa a rischio da decisioni altrui. Per cambiare la situazione non basta l’ingegneria istituzionale, ma servirebbe una presa di coscienza, prima di tutto del mondo della cultura, di cui, al momento, non si scorgono avvisaglie.