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Teheran, omicidi preventivi?

di Michele Paris - 17/01/2010

La mattina di martedì 12 gennaio, un esplosivo azionato a distanza e collocato su una motocicletta parcheggiata nel quartiere di Qeytariyeh, a nord di Teheran, ha ucciso il professor Massoud Ali Mohammadi mentre usciva di casa per recarsi al lavoro. L’assassinio di quello che viene descritto come uno dei più importanti scienziati nucleari del paese, rimane ancora avvolto nel mistero e si inserisce nel contesto delle crescenti pressioni e minacce occidentali intorno al programma nucleare della Repubblica Islamica.

Il professor Mohammadi era un contestatore del regime o, come sostengono fonti governative, un fedelissimo della linea dura? E le responsabilità per la sua morte vanno ricercate all’interno del paese o nelle attività di sabotaggio condotte sotto copertura dai servizi segreti americani e israeliani? I resoconti della vicenda sulla stampa iraniana e internazionale appaiono contraddittori e si legano indissolubilmente alle ragioni sostenute dalle parti in causa. Anche se, a ben vedere, un filo rosso sembra collegare sparizioni, assassini e defezioni di numerosi scienziati iraniani negli ultimi anni.

Secondo le testimonianze di alcuni studenti del professor Mohammadi riportate dai giornali europei e americani, non risultava impegnato politicamente. Per altri, invece, negli ultimi mesi sarebbe stato un sostenitore convinto delle dimostrazioni anti-governative degli studenti della Teheran University. Il nome di Mohammadi, inoltre, apparirebbe su una petizione firmata con altri 200 accademici che appoggiavano il candidato riformista moderato Mousavi nella contestazione dei risultati delle elezioni presidenziali del 12 giugno 2009, che hanno consegnato un secondo mandato ad Ahmadinejad.

Diametralmente opposta è stata la caratterizzazione del fisico ucciso fatta dai media ufficiali e dalle fonti governative iraniane, che hanno subito escluso ogni connessione tra l’assassinio e i fatti successivi alle elezioni presidenziali. La stazione televisiva di Stato, Press TV, ha definito Mohammadi un “fedele sostenitore” della rivoluzione del 1979, mentre l’università nella quale insegnava fisica nucleare è stata additata come uno dei centri più importanti in Iran per la ricerca in quest’ambito.

Altri media locali, ancora, hanno parlato di una sua militanza in passato tra i Guardiani della Rivoluzione - impegno abbandonato da alcuni anni, secondo alcune ricostruzioni riportate in Occidente - o addirittura della presenza del suo nome su una lista di nomi di cittadini iraniani soggetti a sanzioni internazionali a causa del loro coinvolgimento nel programma nucleare di questo paese.

Quest’ultimo sarebbe proprio il motivo indicato dal governo di Teheran per l’omicidio di Ali Mohammadi e le responsabilità, a detta del Ministero degli Esteri e del magistrato incaricato delle indagini, sarebbero precisamente da attribuire ai servizi segreti di quelle potenze occidentali maggiormente preoccupate per la possibile realizzazione di armi nucleari da parte dell’Iran: CIA e Mossad.

Alla luce dei parecchi episodi sospetti avvenuti negli ultimi tempi, l’ipotesi avanzata dagli ambienti governativi iraniani in merito alla morte di Mohammadi non può essere scartata a priori, nonostante la secca smentita del Dipartimento di Stato USA. A sollevare più di un dubbio sul coinvolgimento statunitense e israeliano in una di queste vicende era stato già tre anni fa un autorevole think tank americano che si occupa di intelligence, STRATFOR.

In un rapporto pubblico veniva indicato come dietro alla morte misteriosa dello scienziato iraniano, Ardeshir Hosseinpour, ci fossero proprio i servizi di intelligence israeliani. Hosseinpour, morto presumibilmente per avvelenamento, era sulla lista nera del Mossad, in quanto aveva partecipato al programma nucleare del suo paese nella città di Isfahan, dove sarebbe situato un reattore sperimentale. Sempre secondo STRATFOR d’altra parte, l’eliminazione fisica di scienziati di spicco legati al programma nucleare di un paese ostile in previsione di un intervento militare è pratica consolidata da parte di Israele. Alla vigilia dell’attacco a sorpresa al reattore di Osirak, in Iraq, nel 1981 (“Operazione Opera”) sembra che almeno tre tecnici nucleari iracheno morirono in circostanze poco chiare.

Alla scomparsa di Hosseinpour agli inizi del 2007, vanno poi aggiunte almeno quelle di altri due docenti iraniani legati al nucleare. Il primo, Ardeshir Asgari, morì sempre nel 2007, ufficialmente a causa di soffocamento; il secondo, Shahram Amiri, tra maggio e giugno dello scorso anno sparì durante un pellegrinaggio alla Mecca. Fatta passare come una defezione da gran parte della stampa occidentale, la sparizione del professor Amiri è stata sempre attribuita dagli iraniani ad un vero e proprio sequestro orchestrato dagli Stati Uniti con la complicità saudita.

A sequestri, rapimenti e morti sospette, vanno poi aggiunti i toni sempre più bellicosi di Washington nei confronti di un regime percepito sempre più in affanno dopo le continue manifestazioni di piazza degli ultimi mesi. Il riuscito attentato di Teheran di questa settimana, ad esempio, è giunto a poche ore di distanza da una preoccupante presa di posizione in diretta televisiva del numero uno del Comando Centrale Americano in Medio Oriente (CENTCOM), generale David Petraeus.

Alla CNN l’ex comandante delle forze armate USA in Iraq ha infatti dichiarato che il suo Comando sarebbe da considerare “irresponsabile” se non stesse prevedendo dei piani relativi ad una potenziale aggressione militare dell’Iran. In risposta a precedenti indicazioni della stampa, che rivelavano come Teheran avesse cercato di proteggere i suoi siti nucleari in una serie di tunnel sotterranei, Petraeus ha poi affermato senza riserve come tali installazioni potrebbero essere comunque bombardate efficacemente.

In previsione di un possibile attacco, il Pentagono sta accelerando la produzione di nuove bombe “bunker buster”, ordigni da oltre 13 tonnellate in grado di colpire obiettivi ad oltre 60 metri sotto terra. Parallelamente, l’amministrazione Obama sta spingendo sia il Congresso che il cosiddetto gruppo P5+1 (USA, Cina, Russia, Gran Bretagna, Francia e Germania) ad adottare sanzioni economiche più severe nei confronti dell’Iran, mentre a inizio anno ha dato istruzioni ad una flotta di navi da guerra, guidata dalla USS Eisenhower, di posizionarsi nel Golfo Persico per i prossimi sei mesi.

Israele, da parte sua, minaccia da tempo di colpire militarmente le installazioni nucleari iraniane, se il governo di Teheran non accetterà di sospendere senza condizioni il suo programma di arricchimento dell’uranio. Nell’autunno scorso i sei paesi negoziatori sembravano aver trovato un accordo per l’invio dell’uranio iraniano in Francia o in Russia per essere poi restituito sotto forma di combustibile per un reattore da impiegare a scopi medici. L’intesa però è tuttora bloccata a causa del caos politico in Iran e dei continui disaccordi sui dettagli logistici della sua implementazione.

L’omicidio di Ali Mohammadi e le continue tensioni alimentate da Washington e Tel Aviv non fanno altro che complicare ulteriormente le trattative tra l’Occidente e l’Iran sull’annosa questione del nucleare. La risoluzione pacifica della controversia non appare d’altronde la preoccupazione principale di USA e Israele, i quali da un inasprirsi del conflitto potrebbero piuttosto raggiungere i loro reali obiettivi nei confronti dell’Iran: un attacco militare, per quanto gravi risulterebbero le conseguenze nell’intera area mediorientale, e il cambio di regime a Teheran.

Anche sul fronte diplomatico, insomma, il primo anno della presidenza Obama si sta configurando come un pressoché totale voltafaccia rispetto agli impegni presi in campagna elettorale. La promessa ricerca di un confronto pacifico senza condizioni preliminari con l’Iran, sembra aver lasciato spazio ormai ad una escalation di minacce e operazioni destabilizzanti che ricordano tristemente le manovre che condussero all’invasione irachena del 2003, orchestrata ad arte dall’amministrazione Bush.