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Da Brunetta a D'Annunzio: il Carnaro della libertà

di Alessio Mannino - 17/01/2010

    



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Noi non ci scandalizziamo punto della sortita anti-costituzionale del vulcanico ministro Brunetta ("Stabilire che l'Italia e' una Repubblica democratica fondata sul lavoro non significa assolutamente nulla", Libero, 2 gennaio 2010). Naturalmente, sappiamo dove vuole andare a parare lo schiavista dei tornelli:  nel vicolo obbligato di una riscrittura della Carta in chiave liberista, prospettiva che ci ripugna. Ma ci ripugna ugualmente l'idolatria cattocomunista del lavoro, feticcio sul quale i padri costituenti avevano individuato il punto d'incontro delle loro ideologie vincitrici su quella nazi-fascista.
Anche per chi scrive la Costituzione va cambiata fin dalla sua prima parte. E proprio a partire dal suo primo articolo. Una repubblica fondata sul lavoro equivale ad uno Stato basato sulla schiavitù salariata, tanto cara sia alla vulgata liberale e capitalista, sia a quella, ormai sempre più diafana e perciò ancor più ipocrita, marxista-sindacalista. Il lavoro, parafrasando un noto lager moderno, non rende liberi.
Quest'anno ricorrerà invece il novantesimo di un'altra e ben più illuminata Carta, quella del Carnaro. Fu il testo, promulgato l'8 settembre 1920, con cui Gabriele D'Annunzio diede forma scritta ai suoi ideali di palingenesi sociale durante la breve esperienza della Reggenza di Fiume, occupata dai suoi legionari all'indomani della "vittoria mutilata" sull'Austria nella I Guerra Mondiale. Materialmente redatta da Alceste De Ambris, con Filippo Corridoni uno dei massimi esponenti del sindacalismo rivoluzionario, la costituzione fiumana è forse la miglior magna charta del ventesimo secolo. Senz'altro molto più attuale oggi di allora, quando precorreva troppo i tempi - e infatti venne sepolta nell'oblio dal fascismo normalizzatore e liberticida.
"La Repubblica del Carnaro è una democrazia diretta, che ha per base il lavoro produttivo e come criterio organico le più larghe autonomie funzionali e locali. Essa conferma perciò la sovranità collettiva di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di classe e di religione; ma riconosce maggiori diritti ai produttori e decentra, per quanto è possibile, i poteri dello Stato, onde assicurare l'armonica convivenza degli elementi che la compongono" (art. II). Qui c'è tutta la filosofia di fondo del sovversivismo dannunziano: il governo è del popolo che lo esercita direttamente (attraverso l'introduzione del sistema referendario, sia in chiave propositiva che abrogativa: art.LVI e LVII). Il criterio organizzativo di fondo è il decentramento, ma non per una malintesa concezione funzionalistica fine a sè stessa: per garantire l'armonia sociale. Per tutti i comuni era previsto il pieno diritto d'autonomia (art XXII) così come la facoltà di formare un corpo unitario di leggi municipali (art.XXIII), purché in linea coi fondamenti costituzionali. Gli enti locali godevano quindi di ampie libertà nel trattare temi quali la sicurezza, l'istruzione ed il fisco.
La visione estetico-idealistica che animava la composita truppa del Vate-demiurgo non ammetteva nè l'individualismo consumista e auto-distruttivo nè l'oppressione classista e razzista del singolo uomo libero. Il crocevia è spirituale: "La vita è bella, e degna che severamente e magnificamente la viva l'uomo rifatto intiero dalla libertà; l'uomo intiero è colui che sa ogni giorno inventare la sua propria virtù per ogni giorno offrire ai suoi fratelli un nuovo dono" (art XIV). Si affaccia, tuttavia, il tema della "produzione": "Lo Stato è la volontà comune e lo sforzo comune del popolo verso un sempre più alto grado di materiale e spirituale vigore. Soltanto i produttori assidui della ricchezza comune e i creatori assidui della potenza comune sono nella Reggenza i compiuti cittadini" (art. XVIII).
Dalla produzione al lavoro il passo è breve. Farina del sacco di un sindacalista, per quanto libertario, la Carta di Fiume issa il lavoro sul piedistallo. Non è, però, quello alienato e disumano dell'industrialismo. Inoltre è inquadrato in una serie di diritti di più ampia libertà (anche di genere, per quei tempi un fatto sensazionale): "La Costituzione garantisce inoltre a tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, l'istruzione primaria, il lavoro compensato con un minimo di salario sufficiente alla vita, l'assistenza in caso di malattia o d'involontaria disoccupazione, la pensione per la vecchiaia, l'uso dei beni legittimamente acquistati, l'inviolabilità del domicilio, l'habeas corpus, il risarcimento dei danni in caso di errore giudiziario o di abuso di potere" (art. V). Non c'è ombra di soggezione all'idolo privatistico: "Lo Stato non riconosce la proprietà come il dominio assoluto della persona sopra la cosa, ma lo considera come la più utile delle funzioni sociali. Nessuna proprietà può essere riservata alla persona quasi fosse una sua parte; né può essere lecito che tal proprietaro infingardo la lasci inerte...Solo il lavoro è padrone della sostanza resa massimamente fruttuosa e massimamente profittevole all'economia generale" (art. IX). Si noti che il fine ultimo del travail (che giustamente in francese conserva il significato originario di "travaglio", dolore, fatica) non è l'arricchimento personale, ma il bene collettivo. E tale bene generale è subordinato al massimo bene, alla "coltura del popolo" (intesa, dannunzianamente, come "patrimonio della grande coltura latina": art. L). Ancora e sempre, un'aspirazione prettamente ideale alla sommità di tutto.
Una cultura, per altro, nient'affatto chiusa. E rispettosa delle specificità locali: "Nelle scuole medie è obbligatorio l'insegnamento dei diversi idiomi parlati in tutta la Reggenza italiana del Carnaro. L'insegnamento primario è dato nella lingua parlata dalla maggioranza degli abitanti di ciascun Comune e nella lingua parlata dalla minoranza in corsi paralleli" (art. LII). Una cultura, infine, laica: "Ogni culto religioso è ammesso, è rispettato, e può edificare il suo tempio; ma nessun cittadino invochi la sua credenza e i suoi riti per sottrarsi all'adempimento dei doveri prescritti dalla legge viva", (art.VII); e più in là: "...Le scuole pubbliche accolgono i seguaci di tutte le confessioni religiose, i credenti di tutte le fedi, e quelli che possono vivere senza altare e senza Dio. Perfettamente rispettata è la libertà di coscienza" (art. LIV).
Da un punto di vista strettamente istituzionale, la democrazia diretta è contemperata da organi rappresentativi. Il potere legislativo spettava a tre camere con competenze diverse: il Consiglio degli Ottimi, non meno di trenta membri in carica per tre anni che si radunavano una volta l'anno ad ottobre; il Consiglio dei Provvisori, sessanta membri in carica per due anni eletti proporzionalmente dalle corporazioni, che si radunavano due volte l'anno a maggio e novembre ed infine il Consiglio nazionale, detto Arengo del Carnaro, formato dai membri dei precedenti consigli riuniti in seduta plenaria una volta l'anno.  Per quanto riguarda il potere giudiziario vi erano varie magistature: i Buoni Uomini, eletti a suffragio popolare e giudicanti in questioni minori; i Giudici del Lavoro, eletti dalle Corporazioni; i Giudici togati, scelti per concorso pubblico; il Tribunale del Maleficio, giudicante per i delitti politici ed infine la Corte della Ragione, avente funzioni di corte costituzionale. L'ordinamento politico prevedeva anche il ricorso al Comandante, imitazione del Dictator romano, eletto dall'Arengo solo in caso di estremo pericolo e per un breve periodo. Pilastro della rivoluzione fiumana era il corporativismo: era previsto l'obbligo per ogni lavoratore d'iscriversi ad una delle dieci corporazioni (art. XIX). Ognuna di queste svolgeva il diritto di una compiuta persona giuridica riconosciuta dallo Stato (art. XX); la partecipazione individuale alla vita politica si traduceva quindi nell'elezione di un rappresentante al Consiglio provvisorio. La vita dei lavoratori si realizzava totalmente all'interno di questi organismi, ognuno dei quali decideva su tutte le questioni lavorative ed aveva i propri distintivi, canti, riti, eroi, ecc.
Come si vede, una proposta di società che oggi, a quasi cent'anni di distanza, pur coi dovuti adattamenti, si potrebbe far propria come modello alternativo a quella attuale, che schiaccia il singolo e polverizza ogni sentimento di comunità. D'Annunzio, liberato dagli orpelli degli "alalà" e dei saluti romani, aveva trovato la quadra.