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Uscire dalla logica del nucleare, oltre la destra e la sinistra

di Giancarlo Terzano - 18/01/2010

 

20 anni fa, con i referendum del novembre 1987, gli italiani decisero a grande maggioranza di rinunciare all’energia prodotta da centrali nucleari. Oggi, l’esito di quel referendum è messo in discussione, per far fronte alla sempre crescente richiesta di energia. Invece di puntare sull’efficienza energetica e sulla riduzione dei consumi, si insegue una tecnologia pericolosa, rinviando la soluzione dei problemi alle generazioni future.
Era l’8 ed il 9 novembre 1987, quando gli italiani furono chiamati a votare nei 3 referendum sul nucleare.
Le firme erano state raccolte da forze ambientaliste e politiche (WWF, Legambiente, Lipu, Italia Nostra, Amici della Terra, Democrazia Proletaria, Partito Radicale, Verdi, FGCI), all’indomani della tragedia di Chernobyl. Da tempo il movimento ambientalista, allora nascente anche in Italia sull’esempio dei Grunen tedeschi, sollevava la questione nucleare: erano i tempi del “sole che ride” (non ancora appannaggio di partiti) e del “nucleare? No grazie”, che univa gli ambientalisti di tutt’Europa in quella che può essere considerata la prima grande mobilitazione su temi ambientali.
In Italia avevamo 4 centrali nucleari: a Trino (Vercelli), Caorso (Piacenza), Montalto di Castro (Viterbo), Latina, che fornivano, invero, un’esigua quantità di energia: nel 1986, anno di massima produzione, si erano ottenuti solo 8.758 GWh, pari ad appena il 5% dell’energia complessivamente prodotta in Italia; nel 1987, ancora prima quindi della moratoria, furono prodotti solo 174 GWh, (per un irrisorio 0,086 della produzione nazionale).
Chernobyl, purtroppo, offrì la prova che gli scenari paventati erano tutt’altro che fantasiosi, e diffuse anche nell’opinione pubblica la consapevolezza dei rischi di un incidente atomico. Il divieto di consumare verdure e di bere latte fresco, per bambini e donne in gravidanza, fece provare l’”ebbrezza” del vivere in contesti contaminati. Fu così possibile raccogliere le firme sui tre quesiti referendari, per l’abrogazione di norme che rendevano sostanzialmente più facile la costruzione di nuovi impianti nucleari: la possibilità, per il CIPE, di determinare le aree dove far sorgere gli impianti, nel caso non lo facessero le Regioni (quesito 1); i contributi statali per Regioni e Comuni che ospitassero centrali atomiche (quesito 2); l’autorizzazione all’ENEL a partecipare alla costruzione e alla gestione di centrali eletronucleari all’estero (quesito 3).
La pressione popolare portò su posizioni antinucleariste forze politiche che fino ad allora erano state decisamente a favore. In effetti, a parte pochissime eccezioni, la classe politica era stata tutta a favore dell’energia nucleare. Pro nucleare erano i due maggiori partiti politici, la DC ed il PCI. E con loro anche il PSI, le frattaglie del cosiddetto pentapartito (PSDI, PRI, PLI) e l’opposizione di destra (MSI). Il PCI, in particolare, si opponeva al nucleare militare – erano i tempi della contrapposizione USA-URSS – ma appoggiava pienamente l’atomo civile, ed annoverava anzi nelle sue schiere importanti scienziati nucleari come Felice Ippolito, il padre del progetto nucleare italiano, e Tullio Regge, entrambi europarlamentari a Strasburgo.
Ai referendum, per evitare di essere scavalcati dal voto popolare, tutti i partiti si schierarono per il SI, ad eccezione del Partito Repubblicano e del Partito Liberale. Ma, in molti casi, in maniera fiacca e con qualche riserva, in particolare sul 3° referendum (quello sulla partecipazione ENEL alla costruzione di centrali all’estero). Fondamentale, nella “conversione” al SI, fu spesso il ruolo delle associazioni giovanili, come la FGCI per il PCI e, sul versante opposto, il Fronte della Gioventù per il MSI, che partecipò alle varie mobilitazioni contro il nucleare, insieme alla nascente Fare Verde.
I quesiti
DC
PCI
PSI
MSI
PRI
PSDI
PLI
PR
Verdi
DP
1 - Localizzazione delle centrali
SI
SI
SI
SI
NO
SI
NO
SI
SI
SI
2 - Contributi agli enti locali
SI
SI
SI
SI
NO
SI
NO
SI
SI
SI
3 - Centrali Enel all'estero
NO
SI
SI
No
NO
SI
NO
SI
SI
SI
L’esito dei referendum fu nettissimo. Circa l’80% dei voti validi andò ai SI (il 72% per il terzo quesito): era la prima volta che in un referendum vincevano i SI, e con percentuali che non davano adito a dubbi. Una risposta emotiva, accusano oggi i sostenitori del nucleare. Una risposta consapevole, pensiamo noi, da parte di chi aveva verificato, dopo quel tragico 26 aprile 1986, i disastrosi effetti che un incidente nucleare poteva produrre, anche a migliaia di chilometri di distanza.
Preso atto del voto, il Governo, nel 1988, in sede di approvazione del Piano Energetico Nazionale, dispose una moratoria sull’utilizzo del nucleare da fissione come fonte energetica, e dispose la chiusura/sospensione degli impianti esistenti. L’Italia usciva così dal tunnel del nucleare.
Risultati dei 3 referendum (in %)
I QUESITI
SI
NO
Bianche
Nulle
1) Abrogazione norme che attribuivano al CIPE il potere di determinare le aree dove insediare le centrali elettronucleari, nel caso non lo facessero le Regioni
70,4
16,9
8,5
4,2
2) Abrogazione norme che autorizzavano l'ENEL a versare contributi a Regioni e comuni in proporzione all'energia prodotta sul loro territorio con centrali nucleari o a carbone
69,1
17,6
8,9
4,4
3) Abrogazione norme che consentivano all'ENEL di "promuovere la costruzione" di impianti elettronucleari "con società o enti stranieri" o anche "assumere partecipazioni che abbiano come oggetto la realizzazione e l'esercizio di impianti elettronucleari" all'estero
63
24,7
8
4,3
E oggi? Il partito del nucleare sembra aver trovato nuova linfa. In concomitanza con la continua crescita del costo del petrolio e con l’avvicinarsi del “picco di Hubbert”, con l’incessante aumento della richiesta di energia a livello mondiale, c’è chi rilancia l’opzione nucleare. Magari vestendola di “verde”, con la giustificazione che si tratterebbe dell’unico modo per ridurre le emissioni di CO2 e salvare il pianeta dal disastro del riscaldamento globale. E’ la tesi, del resto, di un ambientalista doc, l’inglese James Lovelock, il padre dell’”ipotesi Gaia”. E così Lovelock, profeta inascoltato quando avverte sull’incapacità del pianeta di sopportare il crescente peso della civiltà industriale, è diventato il guru di tanti irriducibili del produttivismo nostrano, che dopo aver negato – finché possibile – l’esistenza stessa del riscaldamento globale, trovano ora un appiglio “verde” per continuare ad andare avanti irresponsabilmente sulla strada di questa civiltà divora-energia.
La questione nucleare, allora come oggi, attraversa trasversalmente gli schieramenti di destra e sinistra (ad ennesima conferma di come tali categorie politiche mal si adattino alle tematiche ambientali). Con la benedizione scontata del mondo della produzione, che pur esigendo soluzioni immediate alla fame di energia, non disdegna per il futuro il ricorso a centrali atomiche.
I maggiori pruriti si registrano comunque nel centro destra, che negli ultimi mesi ha lanciato una vera offensiva a favore del nucleare con convegni, interviste, raccolte firme ed anche una proposta di legge (di AN, primi firmatari Fini, Urso e La Russa) per la realizzazione di nuove centrali nucleari in Italia. Iniziative che trovano sponda in particolare nel Partito Democratico, di cui autorevoli esponenti (Letta, Bersani, D’Alema, lo stesso Prodi) da sempre si dichiarano favorevoli all’atomo civile, anche se, assicurano dal Governo, allo stato non esiste alcun programma per la ripresa del nucleare in Italia.
In effetti, il programma elettorale dell’Unione affermava espressamente la improponibilità di una ripresa del programma nucleare, pur facendo salva la ricerca in campo internazionale. Riserva ormai superata, in quanto non solo partecipiamo alla ricerca sul nucleare all’estero, ma gestiamo direttamente, tramite l’ENEL, centrali atomiche nell’Est Europa (per inciso, tecnologie antiquate, altro che nucleare di “quarta generazione”!). In aperto contrasto – è il caso di sottolinearlo - con quanto stabilito dall’esito del 3° dei referendum del 1987.
Insomma, la lobby del nucleare è partita alla carica. Forte del suo peso politico, e degli agganci di cui gode nel mondo massmediale e produttivo, cerca di convincere gli italiani sull’ineluttabilità di un ritorno al nucleare. In nome delle solite parole d’ordine: competitività, sviluppo, crescita. Semmai supportate da rassicurazioni sulla sicurezza degli impianti e da immancabili rinvii al nucleare “di quarta generazione”.
Un tam tam mediatico che rischia di apparire convincente (i sondaggi registrano un aumento dei favorevoli al nucleare), anche perché aggira scientemente tutti i nodi irrisolti del nucleare.
Editoriali, convegni, numeri unici di riviste, interviste a favore del nucleare, ripropongono le sole  ragioni economiche di tale opzione, ma non affrontano minimamente i problemi conseguenti.
Nessun cenno sul problema delle scorie radioattive, con l’Italia che non è stata ancora capace di trovare un deposito per i rifiuti atomici del passato (e la vicenda di Scanzano dovrebbe far riflettere il mondo politico). O sul problema della limitata disponibilità d’uranio,  su quello degli alti costi (che dovrebbero considerare anche lo smantellamento e la messa in sicurezza degli impianti, senza fermarsi alla sola fase iniziale), su quello della sicurezza degli impianti da possibili incidenti e da attacchi “terroristici”.
Non basta accusare gli ambientalisti di eco-catastrofismo e di pregiudizi ideologici (le stesse obiezioni strumentali che qualcuno avanza per negare la causa antropica del riscaldamento globale). Proprio un approccio realistico, e non ideologico, richiederebbe che vengano date risposte anche ai nodi spinosi. Risposte serie, e non furbeschi pastrocchi, come il frequente richiamo alla sicurezza del nucleare “di quarta generazione” (al momento tutto da venire e con previsioni non inferiori a 15-20 anni), difficilmente conciliabile con la volontà di realizzare subito impianti che sarebbero, inevitabilmente, a “tecnologia corrente” (la versione aggiornata dei continui richiami al nucleare “pulito”, che ancora nessuno ha realizzato).
Altrimenti si finisce per scaricare sulle generazioni future il peso delle nostre scelte. E’ il cosiddetto effetto Nimg, not in my generation, che curiosamente qualcuno richiama per giustificare il nucleare, senza rendersi conto che alle generazioni future dobbiamo assicurare non le scorie e i rischi di una tecnologia che tra 60 anni sarà superata, ma fonti sostenibili di energia e, soprattutto, una cultura della sostenibilità, fondata sull’efficienza e sulla riduzione dei consumi.
Il futuro non è nella crescita illimitata. Questa appartiene all’oggi e al recente passato, e sta portando al collasso il nostro pianeta. Il futuro richiede la capacità di selezionare, di utilizzare la tecnologia per migliorare l’efficienza e ridurre i consumi, di fare un uso responsabile delle risorse, che sono limitate, e non infinite.
Il nucleare non è soltanto una tecnologia pericolosa, costosa, non durevole. E’ anche una risposta inadeguata perché “antiquata” ai problemi dell’oggi e del domani. E’ la solita scorciatoia: assillati dalla fame di energia, ci si affida alla tecnologia a portata di mano, rinviando al domani la soluzione dei problemi. Una scorciatoia che conduce, però, ad un vicolo cieco.