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Informazione? L'artificio di una simulazione

di Eduardo Zarelli - 19/01/2010

 
  
 

I media sono al servizio del modello economico che domina l’Occidente. Ma i singoli contenuti c’entrano solo in parte. La chiave di volta è nel modo in cui allontanano dalla realtà, in una apoteosi di desideri puerili ed egoistici
Non è facile parlare di informazione senza scadere nella più scontata banalità. Partiamo però dal constatare l’ovvio: la comunicazione negli ultimi decenni ha raggiunto uno sviluppo tecnologico e quantitativo senza precedenti. Cablaggio digitale, satellitare, televisione ad alta definizione collegata in rete telematica, Internet, facebook, iPhone, palmari a console, ecc. Con queste nuove tecnologie – che sempre più si diffonderanno e affineranno - viviamo nell’era della globalità istantanea – per dirla con Paul Virilio - vale a dire della possibilità non solo di una diffusione o di una ritrasmissione, ma anche di un’interazione immediata di qualsivoglia accadimento.
I mezzi di informazione possono veicolare con rapidità sincopata quali idee bisogna accettare e quali respingere, quali prodotti acquistare, quali spettacoli bisogna andare a vedere. Non è esagerato dire che tali strumenti e un simile potere vanno largamente al di là delle capacità di propaganda di cui hanno potuto disporre in passato i regimi totalitari.
La potenza insita nella comunicazione contemporanea va surrogando la stessa legittimità statuale. La relazione fra la politica e la medialità non può quindi essere ridotta all’emancipazione della seconda dalla prima. L’autorità ha semplicemente cambiato senso. Ci si accorge di ciò constatando quanto ha in sé di anacronistico l’espressione "quarto potere", spesso utilizzata per definire la stampa. Così come l’economia si è prima affermata come un contropotere nei confronti della politica e poi si è issata in posizione di egemonia, i mezzi di comunicazione hanno smesso da un pezzo di essere un contropotere. Il "quarto potere" è diventato il primo e non esiste più nessun contropotere che riesca a contenerlo.
La televisione e le sue tentacolari  protesi digitali spingono ad isolarsi  e nel contempo soddisfano un  bisogno di evasione stimolato  dal crescente isolamento.
Esistono vari modi di esaminare il sistema massmediale. Il primo livello consiste nello studiarlo come uno strumento di propaganda o di disinformazione. Gli esempi sono tali e così palmari che nell’imbarazzo della scelta, evitiamo di disperderci nel copioso elenco a disposizione.
Un secondo modo di analizzare il sistema dei media consiste nel considerarli uno strumento di controllo sociale. La tecnica, in effetti, non è mai neutra. Le caratteristiche tecniche degli organi di comunicazione ne definiscono non solo lo stile e il contenuto, ma anche le condizioni di esercizio dell’egemonia. Qui il discorso si fa molto ampio, ma anche in questo caso l’evidenza di una società passiva, solitaria e anonima a discapito di relazioni e partecipazione comunitaria è di drammatica evidenza.
La televisione e le sue tentacolari protesi digitali spingono ad isolarsi e nel contempo soddisfano un bisogno di evasione stimolato dal crescente isolamento. In questa cultura di evasione, si consuma a mo’ di spettacolo ciò che la vita reale rifiuta: il sesso, il lusso, l’avventura, il viaggio ecc. Ma per acquisire questa distrazione bisogna pagare il prezzo di una sorta di anestesia, che nasce dall’impressione di avere il mondo in casa, di poter andare dappertutto senza muovere un dito, di poter essere al corrente di tutto senza aver bisogno di un’esperienza vissuta.
Vi è infine un terzo modo di descrivere i media oggi dominanti, che consiste nel trattare del sistema mediale in quanto sistema in sé, indipendentemente dall’uso che ne fanno i detentori.
È senza dubbio quello più emblematico – a nostra opinione – per cogliere la condizione di fatto. Infatti, in altri tempi, si poteva identificare un gruppo sociale che esercitava l’egemonia sulla vita pubblica controllando i mezzi di comunicazione. Ciò può ancora accadere, beninteso; ma ormai la sostanza del problema è altrove. La novità radicale dell’oggi è che il medium dominante non è più un mezzo ma tende a porsi come fine di se stesso. In altri termini, i media – a dispetto del nome che si continua a dar loro – non sono più, fondamentalmente, intermediari fra gli autori di un messaggio e i suoi destinatari. Come aveva genialmente notato Marshall McLuhan, sono essi stessi il messaggio. I media non sono più istanze mediatrici, che permettono di passare da un livello all’altro, da uno stato del sociale ad un altro. Sono essi stessi il proprio contenuto: la notizia non è altro che il portatore di notizie.
L’avvento di Internet modifica questa situazione? Il giudizio non può che essere controverso. L’esplosione dei punti di informazione e opinione disponibili tramite il rizoma della rete moltiplica il pluralismo fino alla sua irrilevanza nella coscienza critica e, soprattutto, nella formazione reale dell’opinione pubblica generale. Così come la ridondanza industriale dei mezzi si rivela nella mancanza di fini, la quantità di informazioni e messaggi che transitano in rete tendono all’irrilevanza catatonica, in primis per mancanza di differenziazione e di gerarchia fra di essi.
L’influenza più notevole dei media non proviene da ciò che trasmettono, ma dalla loro stessa esistenza. Non incitano a pensare qualcosa: essi incitano a pensare attraverso i media.
È vero che i media contribuiscono a modellare le opinioni, i sentimenti e i gusti, e che da questo punto di vista sono uno straordinario strumento di influenza. Ma l’influenza più notevole che esercitano proviene non da quello che trasmettono, bensì dalla loro stessa esistenza. I mezzi di informazione non incitano a pensare qualcosa, incitano a pensare attraverso i media. Dice lucidamente a tal proposito Jean Baudrillard, «i media non stanno dalla parte di nessun potere perché sono una gigantesca forza di neutralizzazione, di annullamento del senso, e non una forza di informazione positiva, di accrescimento del senso. Neutralizzano sia le forze storiche sia le forze del potere, che diventa di conseguenza trasparente e fluttuante».
Per questo sarebbe ingenuo e nel contempo anacronistico analizzare l’influenza massmediale in termini di "complotto", cercando di identificarne i "veri padroni" o i "direttori d’orchestra clandestini".
I mezzi di informazione sono padroni di se stessi, e coloro che credono di dirigerli sono di fatto diretti da essi. La "mano invisibile" dei media sono i media. L’unanimismo massmediale non deriva da una deliberata volontà di applicare ovunque le stesse direttive, ma dalla natura sistemica, autoreferenziale, intrinsecamente omogeneizzante, del potere massmediale.
I mezzi di comunicazione funzionano nei fatti come se ricevessero istruzioni da una qualche centrale, ma non esiste un centro dei media. Come nel caso della materializzazione dell’economia, dei mercati finanziari, delle reti planetarie, la loro circonferenza è dappertutto e il centro da nessuna parte. Il discorso massmediale è prima di tutto un discorso anonimo, perché non ha un’origine reperibile. Il sistema dei media è un operatore circolare perfetto. Il mezzo essendo già in sé il messaggio è nichilistico per essenza, non ci si può dunque limitare a criticare le idee che veicola o che si suppone veicoli. Questa critica deve estendersi agli organi di trasmissione, vale a dire al sistema che essi costituiscono. Tale sistema ha nome e cognome: mercificazione finanziaria; e in quanto tale diffonde universalmente l’ideologia economicista che sottende l’intera modernità.
Il successo commerciale è l’obiettivo che prevale su tutti gli altri e che determina  la qualità. Non è quel che è buono a vendersi meglio, ma è quel che si vende bene a essere considerato buono.
L’universo della comunicazione mobilita, lo sappiamo, somme di denaro sempre più iperboliche. Se ci si riflette un istante, ci si rende conto che in ciò vi è qualcosa di molto naturale. In quanto equivalente astratto universale, il denaro è, infatti, l’agente di comunicazione per eccellenza. In altre parole, l’informazione è diventata una merce come le altre. E come tutte le merci vale unicamente nella misura in cui si può vendere e acquistare. Ancora mezzo secolo fa, il successo commerciale immediato era sospetto, tanto più sospetto in quanto le elevate creazioni culturali facevano sempre fatica ad imporsi, e ci riuscivano solo opponendosi alla logica del mercato.
Oggi accade il contrario. Il successo commerciale immediato è l’obiettivo che prevale su tutti gli altri e che determina la qualità. Non è quel che è buono a vendersi meglio, ma è quel che si vende bene ad essere considerato buono, e tanto migliore quanto meglio si vende.
La concorrenza obbliga ciascun medium  a fare come tutti gli altri, a trattare gli  stessi temi o a parlare degli stessi libri.  Il presunto “pluralismo” si riduce alla  moltiplicazione di un unico modello.
I teorici liberali hanno sempre affermato che la concorrenza favorisce la qualità e la diversità. Ma vediamo tutti i giorni che essa ha effetti diametralmente opposti. La concorrenza non solo provoca la concentrazione del mercato, che ricrea monopoli e oligopoli, e all’abbassamento di livello che è reso obbligatorio dalla corsa all’ascolto; comporta anche l’uniformità dell’offerta a causa del generalizzarsi della rivalità imitativa. Il principio stesso di concorrenza obbliga ciascun medium a fare come tutti gli altri media, a trattare gli stessi temi o parlare degli stessi libri di cui gli altri parlano. Il presunto “pluralismo” si riduce perciò alla moltiplicazione di un unico modello.
L’omogeneizzazione del discorso massmediale è ulteriormente rafforzata, al livello degli uomini, dalla straordinaria connivenza fra i giornalisti, i direttori di giornali, i commentatori televisivi e gli uomini di potere, connivenza che favorisce l’autocensura, fa sì che gli interlocutori non si affrontino più in maniera significativa e rafforza una complicità oggettiva fondata su una comune appartenenza alla Nuova Classe cosmopolita e, soprattutto, su interessi comuni.
I giornalisti selezionano, consapevolmente o inconsapevolmente, le informazioni a seconda del fatto che corrispondano oppure no alla loro deformazione professionale, cioè alla visione del mondo che è loro imposta dai media. Ciò spiega l’assoluta mancanza di curiosità e senso critico che dimostrano nei confronti di tutto quello che considerano "fuori campo". Allo stesso modo, in televisione, il telespettatore non assiste mai ad un evento, contrariamente a ciò che crede, bensì a una rappresentazione di un evento, a una trasposizione in immagini, in altre parole a una messinscena, che implica sempre una selezione e un montaggio. L’informazione, si potrebbe dire, si è esaurita nella messinscena dell’evento, ovvero, in definitiva, nell’artificio della simulazione.

[Tratto da La voce del ribelle n. 11/12 - agosto/settembre 2009]