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Sigfrido Bartolini. Le favole del paesaggio

di Carlo Fabrizio Carli - 19/01/2010

Per Sigfrido Bartolini [nella foto], scomparso il ventitre aprile 2007  settantacinquenne, era stato fondamentale – in gioventù, ovvero agli esordi degli anni Cinquanta – l’incontro con un antico protagonista dell”Avanguardia novecentesca come Ardengo Soffici. Soffici a quel tempo era tornato, da più di un trentennio, nel solco della grande tradizione toscana, dal Quattrocento ai Macchiaioli, facendosi critico intransigente delle sperimentazioni linguistiche di una modernità che proprio lui, forse più di ogni altro, aveva operato per introdurre in Italia, nel primo quindicennio del Novecento. Ma c”erano, poi, stati di mezzo la prima guerra mondiale e il ritorno all”ordine, che aveva coinciso con l”affermazione storica del fascismo, che per l”artista toscano aveva significato tanto il laticlavio dell’Accademia d’Italia che, alla fine, il campo di concentramento di Coltano.

L”insegnamento di Soffici era stato per Bartolini a tutto campo: non aveva riguardato soltanto la cultura pittorica, ma altresì la moralità intellettuale ed esistenziale, la scelta di campo politica, la versatilità operativa. Anzi, la stessa scelta tematica dell’artista aveva prediletto i motivi cari ai prediletti autori del 900 toscano e lombardo: Soffici appunto, Achille Lega, Rosai, Carrà: ecco le case, i casolari della campagna versiliese; le inquadrature marine del Forte dei Marmi e del Cinquale, le ambientazioni invernali di San Vigilio di Marebbe.

Ma soprattutto le case, erette a presenza esemplare di un’antica civiltà – la civiltà della Toscana contadina, che aveva modellato in una sorta di giardino un’intera regione – vennero assurte ad una sorta di cifra personale. Ricondotte ad una presenza denudata, essenzializzata, ad una sorta di parallelepipedi austeri e silenti – Bartolini evitava di introdurre nelle sue composizioni la figura umana, in quanto riteneva che essa avrebbe introdotto l’elemento aneddotico in una dimensione che aspirava invece ad una trasfigurazione mitica – le case dell’artista costituiscono altrettante testimonianze a futura memoria, prima che processi di omologazione e l’abbandono delle campagne, lo stesso fisico declino di tetti, infissi, intonachi, finiscano per cancellare queste presenze un tempo così familiari al nostro sguardo. Così familiari, da considerarne scontata la presenza: cosa che purtroppo non è affatto vera.

Schivo e riservato, al punto di rinunciare a prendere parte a premi e mostre collettive, anzi al punto di firmare a lungo oli, acquerelli, monotipi e incisioni con il solo nome proprio e non con il cognome, che avrebbe potuto accreditare l”impressione di volersi giovare dell’omonimia con il più celebre incisore Luigi Bartolini, l’artista pistoiese aveva nondimeno tenuto molte rassegne personali in gallerie e ambientazioni prestigiose. La più importante fu quella, veramente esaustiva e affiancata da un ponderoso catalogo Mazzotta, allestita nel 2000 presso la Triennale milanese e curata dal sottoscritto.

Uno degli ultimi impegni assolti da Bartolini, le vetrate ideate per una chiesa pistoiese – di chiara leggibilità, estranee alla ricerca di ermetismi e molto gradite alla committenza ecclesiastica e alla sensibilità dei fedeli – avevano registrato un ulteriore ampliamento del già vasto spettro delle tecniche impiegate dall’artista.

Accanto alla pittura, Bartolini ha infatti praticato, fin quando le mani indebolite dall”artrosi glielo hanno consentito, l’incisione, e in particolare la xilografia, conseguendo risultati di autentico virtuosismo, specialmente nell”uso di matrici a più colori. Ma anche l”acquaforte e la litografia (assai proficua la collaborazione con il notissimo stampatore milanese Giorgio Upiglio), lo hanno visto coinvolto con passione. Con la serigrafia, invece, rifiutò sempre di confrontarsi, ritenendola un ambito ormai meramente commerciale, in cui lo spazio di operatività dell”artista risultava soverchiato dai procedimenti tecnici, poco più di una riproduzione fotomeccanica..

Sicuramente, come attestato da illustri storici dell”incisione quali Paolo Bellini, a Bartolini spetta un posto assai personale nella storia della grafica italiana del “900. Tanto più che le prove incisorie, specificatamente xilografiche del Nostro non restavano consegnate a cartelle (tra le quali converrà citare almeno quella approntata per una delle più vivaci riviste degli anni 60, Totalità, diretta dall”amico Barna Occhini), ma approdava al registro dell”illustrazione. Tra le numerose opere letterarie di cui il Nostro offrì interpretazioni figurali, spicca in particolare l‘opus magnum del Pinocchio, promosso dalla Fondazione Collodi e illustrato con oltre 300 xilografie; ma occorre citare anche Il mio paese di Policarpo Petrocchi, cui Bartolini affidò alcune delle sue più felici ideazioni grafiche; L’ Astrologo distratto, singolarissimo almanacco realizzato a quattro mani con Orsola Nemi; e il De laude novae militiae di San Bernardo di Clairvaux.

Ma – ecco un ulteriore motivo di filiazione sofficiana – Bartolini affiancò sempre un”attività letteraria a quella pittorica e incisoria. Lo fece sia dal punto di vista della scrittura d”invenzione (Chiesa di Cristo e altri generi, Lettere di San Bernardino a un quotidiano, libri intrisi di sapida arguzia toscana), che della produzione saggistica, campo in cui Bartolini lasciò testi di importanza fondamentale per la conoscenza del secondo Ottocento e del primo Novecento italiani. Si tratta di monografie imprescindibili per accostare l”opera incisa di Soffici, Sironi, Rosai, Giulio Innocenti, Achille Lega, Italo Cremona; ma anche di testi documentatissimi sull’attività macchiaiolesca di Boldini, su Arturo Stanghellini, scrittore e disegnatore, su Piero Bugiani, sul prediletto ambiente intellettuale di Pistoia del primo Novecento.

A tanta attività, va pure affiancato l”impegno di critico militante, svolto per anni sulle pagine de Il Borghese, de Il Giornale e di Libero. Gli articoli più interessanti, Bartolini li aveva riuniti alcuni anni fa in un fortunato libro La grande impostura (giunto alla seconda edizione), di inflessibile rifiuto degli indirizzi affermatisi nell’ultimo mezzo secolo nel campo dell’arte. In particolare, il pittore e critico pistoiese combatteva l’abbandono della pratica virtuosa delle tecniche e dei materiali tradizionali a favore di un linguaggio oggettuale di matrice dadaista.

C’è infine un aspetto della personalità e dell’opera di Sigfrido Bartolini che è necessario ricordare; vale a dire il coerente impegno in un ambito ideologico non conformista, tanto più significativo in un’epoca come quella degli anni Settanta di dure contrapposizioni e di pressoché indisturbata egemonia degli ambienti politici di sinistra in campo culturale. Bartolini aveva partecipato ai convegni indetti a Torino dal Cidas e, successivamente, a quelli romani della Fondazione Volpe, offrendo generosamente la sua collaborazione alla casa editrice fondata da Giovanni Volpe e stringendo solidi sodalizi con personaggi come Vintila Horia, Augusto Del Noce, Piero Buscaroli, Fausto Gianfranceschi, Orsola Nemi.