Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Perché Mircea Eliade capiva gli hippy

Perché Mircea Eliade capiva gli hippy

di Luciano Lanna - 20/01/2010

 

Trent'anni fa, nel corso di una celebre intervista concessa al settimanale francese Le Monde (e pubblicata in Italia sull'inserto "Tuttolibri" del quotidiano La Stampa) Mircea Eliade, il più grande storico delle religioni allora vivente, riusciva a scardinare gli stereotipi con i quali da noi ci si approcciava alla sua opera e alle sue idee. Eliade in quel preciso momento veniva infatti percepito non solo come uno studioso e uno scrittore di grande autorevolezza internazionale ma anche come un referente della cosiddetta Nuova Destra francese, che lo annoverava nel "Comité de patronage" della sua rivista Nouvelle Ecole accanto a Konrad Lorenz, Arthur Koestler, Louis Pauwels, Julien Freund e altri noti uomini della cultura internazionale collocabile "a destra". Eppure, in quella intervista, Eliade spiegava di valutare più che positivamente il portato della contestazione giovanile e della cosiddetta controcultura degli anni '60 e '70. Anche grazie a quei fenomeni la civiltà illuministica, a suo dire, stava entrando in crisi e nel momento stesso in cui perdevano di senso le religioni secolarizzate dell'epoca delle rivoluzioni lui vedeva riemergere una riscoperta dello spirito proprio attraverso quei contestatori.
«La secolarizzazione dell'uomo moderno - sosteneva - sta arrivando fino al suo termine ultimo». E citava, come esempio dell'inversione di tendenza in atto, l'esempio degli studenti alternativi e hippies dell'università californiana di Santa Barbara: «Essi non lo riconoscono esplicitamente - diceva a Le Monde - ma sono sulla via di riscoprire la religiosità cosmica. Si potrà allora benissimo, domani, assistere a una risacralizzazione di certe dimensioni dell'esistenza umana». Eliade faceva emergere una sensibilità che contemporaneamente veniva espressa anche da altri studiosi nel tentativo di proporre una cultura spiritualista priva di opposizioni preconcette alla modernità e anzi derivante dalla stessa crisi della deriva illuministica e utilitaristica del moderno. Tra questi autori anche il tedesco Ernst Jünger, che nello stesso clima di fine Novecento descriveva con una certa benevolenza e simpatia «i figli dei fiori della California, i provos di Amsterdam, gli hippies multicolori accoccolati sulla scalinata di piazza di Spagna, o sui bordi della Barcaccia, gli indefinibili che emergono dappertutto e che parlano un nuovo gergo. Compagni simili - annotava - esplorano il sottosuolo: è una buona cosa poi se sono anche colti». Del resto, Jünger negli anni Venti aveva aderito ai Wandervögel, il movimento giovanile tedesco che per la passione ecologista, la ricerca di una nuova spiritualità anticonformista e la sensibilità comunitaria anticipava di qualche decennio i beatnik e il libertarismo della generazione "on the road".
Tutte queste considerazioni ci aiutano a inquadrare l'utilità della recente pubblicazione in Italia di Diario portoghese (Jaca Book, pp. 328, € 34,00), in cui scorrono le memorie e le impressioni quotidianamente annotate da Mircea Eliade negli anni in cui lo storico delle religioni romeno visse, tra il 1941 e il 1945, a Lisbona come addetto culturale dell'ambasciata di Bucarest. Al suo arrivo in Portogallo, Mircea Eliade (1907-1986) era un personaggio già molto noto nella scena culturale internazionale, amico e interlorcutore di intellettuali sparsi per il globo, dall'indiano Tagore sino al nostro Giovanni Papini, carico di letture e erudizione, già segnalatosi come scrittore, pubblicista e anche organizzatore di cultura. Ma Eliade arrivava in Portogallo dopo aver incrociato in patria l'esperienza del movimento legionario di Corneliu Codreanu, un'avventura in cui il giovane intellettuale aveva visto «la volontà di fare storia e non politica» e la possibilità di una riscoperta della spiritualità. Fatto sta, che a leggere bene i suoi scritti, Eliade accostava l'esperienza legionaria al contemporaneo movimento gandhiano dell'India e al movimento revivalista cristiano di Oxford: «Quale rivoluzione nazionale e sociale, eccettuata quella di Gandhi, attraversata dalla spirito cristiano e tolstoiano, ha osato farsi propaganda chiedendo agli uomini di avvicinarsi ai monaci?». Del resto, nella primavera del 1930, a Calcutta, lo stesso Eliade aveva assistito - come ricorda Roberto Scagno nella prefazione al Diario portoghese - con orrore ad alcuni episodi della brutale repressione britannica della campagna non violenta di disubbedienza civile e aveva mostrato ammirazione per il movimento e le battaglie indipendentiste del mahatma Gandhi. E in un suo articolo degli anni Trenta poneva l'accento soprattutto sulla volontà generazionale di porre in primo piano «il primato dello spirituale» da parte della gioventà legionaria che lui auspicava. Fatto sta che prima della loro pubblicazione - negli Stati Uniti nel 2001, in Romania nel 2006 - i contenuti di questa parte del suo diario sono stati a lungo evocati e strumentalizzati per costruire invece la leggenda nera dell'Eliade nazista, antisemita e collaborazionista. Una vulgata che in Italia è stata corroborata negli anni Settanta da studiosi vetero-marxisti come Alfonso M. Di Nola e Furio Jesi, i quali contribuirono a far mettere quasi al bando il suo nome dal dibattito politico-culturale. Il colpo di grazia è poi arrivato nel 2002 con la pubblicazione in Francia di un saggio firmato da Alexandra Laignel-Lavastine: Il fascismo rimosso: Cioran, Eliade, Ionesco (tradotto in italiano e pubblicato nel 2008 dalla Utet).
Una documentata e ragionata confutazione alle tesi di quest'ultimo libro è stata adesso pubblicata sull'ultimo numero della rivista Diorama letterario (n. 295), il mensile di attualità culturali e metapolitiche diretto da Marco Tarchi, con un saggio di Jean-Claude Maurin, in cui la lettura fornista dalla Laignel-Lavastine viene presentata come l'ennesimo e triste esempio di una caccia alle streghe intellettuali che, in realtà, dietro l'evidenziazione della "tentazione fascista" giovanile di alcuni uomini di cultura del Novecento nasconde un processo inquisitorio nei confronti di tutte le forme di pensiero non omologabili ai dogmi ideologici e agli steccati convenzionali dell'orizzonte utilitarista e illuminista dominante (e prospettato come il solo possibile). Si guardi, per tornare al nostro autore, a tutto l'itinerario intellettuale di Mircea Eliade. Il futuro grande storico delle religioni aveva già affettuato, a partire dal novembre del 1928, un lungo soggiorno di studio in India, che ebbe su di lui una influenza decisiva. Ma quesll'esperienza, ad esempio, non è mai interessata agli Jesi e alle Laignel-Lavastine. Rientrato poi in Romania nel 1931, si fa conoscere due anni dopo con un romanzo autobiografico intitolato Maitreyi. Solo qualche anno dopo arriva la notorietà scientifica internazionale con il suo libro sullo yoga e sulla origini della mistica indiana che sarà pubblicato in Francia nel 1936. A partire dall'autunno del 1933 e fino al 1938 Eliade terrà corsi all'università di Bucarest e, dal 1939 al 1942, dirigerà la rivista Zalmoxis... In tutto questo fermento, pubblicherà tra il 1937 e il febbraio 1938 alcuni articoli nei quali esprime interesse e simpatia per il movimento di Codreanu nei termini in cui abbiamo spiegato. Come si fa quindi a inchiodare il senso fondo di tutta la sua produzione a quegli scritti giovanili? D'altronde, come emerge in tutta evidenza da questo Diario portoghese, Eliade aveva cominciato a prendere le distanze dal movimento legionario sin dalla fine del 1938, due anni prima di lasciare la Rominia per Londra e poi per Lisbona. La sua storia personale parla chiaro: non aveva mai accettato né l'antisemitismo razziale né il razzismo biologico, così come non aveva mai indossato la camicia verde, aderito alla Guardia di Ferro o prestato giuramento a Codreanu.
Il diario lusitano dimostra semmai uno sguardo distaccato e di lungo periodo sulle stesse tempeste ideologiche del Novecento. «La mia mancanza d'interesse - scriveva in data 17 maggio 1942 - per la sociologia, il marxismo e tutto il resto è dovuta alla constatazione, fatta spesso, che queste discipline ci danno l'illusione di una spiegazione globale della storia, mentre tengono conto solo dell'uomo come massa. Non dubito che migliaia di uomini si comportino esclusivamente in base a leggi economiche, ma per la stessa ragione si può dire che si comportano biologicamente, o fisicamente, in quanto oggetti sottoposti alla legge di gravità». Per lui, invece, l'uomo in cui è infuso e agisce lo spirito «si muove su un altro livello». Nessuna forma di compiacimento o di esaltazione per la guerra mondiale in corso appare poi da queste pagine. «Stiamo vivendo una catastrofe cosmica: è questo il solo significato della guerra», annotava il 12 settembre 1942. E ancora: «Gli avvenimenti del Nord Africa mi hanno turbato enormemente tra il 6 e l'8 novembre: insonnie, incubi e depressione...».
Scorrono, nelle stesse pagine, le impressioni degli incontri avuti in questi anni con interlocutori con la sua stessa sensibilità, come Carl Schmitt, Ernst Jünger o Emil Cioran. «Per me - annota - come per un indiano, un uomo primitivo, un greco, un uomo del medioevo, la religione esiste. Constato questa presenza in ogni atto umano. Detto più chiaramente: la religione, per me, è la sete e l'intuizione del reale...».Ma anche di fronte alla tragedia collettiva che sta vivendo, Eliade non cede mai alla tentazione regressiva o antimoderna: «A differenza di tanti - scrive il 16 aprile 1945 - io non penso che la civiltà annichilisca, necessariamente, l'uomo. Se luomo moderno è meno sano, se è degenerato, nevrotico, sradicato, non è da imputarsi al fatto che vive in una società industriale, in una metropoli, che dispone di radio, cinema, ecc., ma semplicemente del fatti non essere ancora riuscito ad adattarsi alovo ambiente cosmico che gli hanno creato le sue stesse scoperte e mezzi di produzione».
Secondo Eliade, già nelle sue riflessioni degli anni Quaranta, un'altra modernità è possibile, la civiltà contemporanea può ridefinirsi innestandosi nella creatività dello spirito e nella religiosità: «Anche in una città di grattacieli l'uomo può restare in contatto coi ritmi cosmici, può realizzare il miracolo dell'alternarsi del giorno con la notte e quello delle fasi lunari. La vita e la coscienza, il divenire e l'esistenza: tutto è immediato in una fabbrica come nelle solitudini himalaiane». Non c'è già in questo il suo giudizio sugli hippy formulato nel 1980?
Ma c'è anche il suo sguardo sulle vicende storiche. Su tutto, ciò che Eliade annota il 16 maggio '45: «Ho visto le foto di piazza Loreto a Milano. Mussolini di profilo, accanto alla sua amante con la quale è stato fucilato; ho visto il duce appeso per i piedi...». Un'immagine che svela il caratterere tragico del '900: «L'ultima briciola di stima che nutrivo per il popolo italiano - scrive - è scomparsa. Popolo di servi, di traditori e di ruffiani. Hanno sfilato accanto al cadavere di Mussolini 5mila operai di Milano, e ognuno di loro ha dichiarato i suoi sentimenti antifascisti dando una pedata nel culo al duce. Ovviamente, hanno avuto questo coraggio perché colpivano un cadavere. Che hanno fatto quegli operai antifascisti per oltre vent'anni? Quante insurrezioni?». Ma, appunto, un altro orizzonte è possibile: «La mia passione per le religioni - concludeva Eliade - tradisce il mio interesse per un mondo di libertà che l'uomo ha perso da lungo tempo».