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Obama perde pezzi

di Michele Paris - 21/01/2010

Esattamente in anno fa, nel giorno dell’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca, in pochi avrebbero immaginato una trasformazione del clima politico americano in soli dodici mesi. Né, d’altra parte, nessun elettore democratico avrebbe mai pensato alla perdita di un seggio al Senato - che il partito dell’attuale presidente occupava da ben 58 anni consecutivi - in uno degli stati più progressisti di tutto il paese. Eppure, qualche errore di valutazione degli organi locali del Partito Democratico, la rabbia diffusa per la tuttora difficile situazione economica e, soprattutto, una serie di passi falsi dell’amministrazione Obama, hanno finito per consegnare la vittoria ai repubblicani nell’elezione suppletiva in Massachusetts per lo scranno appartenuto al defunto Ted Kennedy, compromettendo seriamente, tra l’altro, il futuro dell’imminente riforma sanitaria.

Per spiegare la gravità della sconfitta, basta ricordare che i democratici occupano attualmente la carica di governatore e vantano un’ampia maggioranza in entrambe le camere del parlamento locale. Allo stesso modo, tutta la rappresentanza del Massachusetts al Congresso di Washington è democratica, mentre l’ultima elezione di un repubblicano al Senato risale al 1972. Nelle ultime tre elezioni presidenziali poi, i candidati democratici hanno ottenuto vittorie con margini superiori al 60%. Gli elettori democratici registrati, infine, risultano il triplo rispetto a quelli repubblicani.

Capitalizzando lo sconforto diffuso verso un’amministrazione ritenuta troppo compiacente nei confronti delle grandi banche di Wall Street e poco interessata ai problemi della classe media, il candidato repubblicano, l’oscuro membro del Senato statale Scott Brown, è riuscito nell’impresa di imporre la sua campagna elettorale basata su una retorica populista che ha fatto breccia soprattutto tra gli elettori indipendenti. Con il 52% dei consensi, Brown ha così inflitto una pesantissima sconfitta al procuratore generale dello stato, Martha Coakley (47%), ritenuta universalmente la favorita solo fino a qualche settimana fa.

Con i sondaggi che negli ultimi giorni cominciavano a segnalare un pericoloso ribaltamento dei valori in campo, i pesi massimi del Partito Democratico - Obama compreso - si erano presentati nello scorso fine settimana al capezzale di una candidata che pure risultava molto popolare nel suo Stato ed aveva manifestato posizioni apprezzabili sui temi economici, della sicurezza nazionale e dei diritti civili. L’ondata di malcontento ha finito però col travolgere le certezze democratiche, mettendo a nudo la crisi crescente del presidente e del suo partito.

La fiducia nell’eredità dei Kennedy e la tradizionale vocazione liberal del Massachusetts avevano d’altronde convinto la candidata democratica a condurre una campagna elettorale sottotono, permettendo così al suo rivale di definire la dinamica dello scontro. Scott Brown ha poi beneficiato del sostegno, non solo economico, degli attivisti conservatori che, già a fine 2009, avevano contribuito alle vittorie repubblicane per il posto di governatore in Virginia e New Jersey.

Se gli errori e qualche gaffe di troppo di Martha Coakley hanno indubbiamente avuto una peso nella disfatta democratica, le responsabilità principali vanno però ricercate a Washington. Già dai primi mesi dello scorso anno, l’amministrazione Obama, infatti, è apparsa fin troppo cauta e disposta al compromesso con i grandi interessi economici e finanziari del paese, dissipando rapidamente quel capitale politico che il primo presidente di colore della storia americana si era conquistato in campagna elettorale con una promettente speranza di cambiamento.

Mentre la maggior parte dei media e dei commentatori statunitensi continua ad attribuire la responsabilità del crollo dei consensi per il presidente e la maggioranza democratica al Congresso ad un programma troppo ambizioso e ad uno sconfinamento delle prerogative del governo federale, la realtà sembra ben diversa. La scarsa decisione dimostrata nell’affrontare i temi della sanità, della riforma finanziaria, della lotta al riscaldamento globale o dell’immigrazione, ha provocato piuttosto lo sconforto di una vasta fetta di quell’elettorato democratico che era risultato decisivo per la vittoria nelle presidenziali del novembre 2008.

Obama, oltretutto, ha consentito da subito ad un’agguerrita e compatta opposizione repubblicana (al Congresso e nella società civile) di definire i contorni del dibattito sulle principali questioni della sua agenda. Un piano di stimolo anti-crisi troppo cauto - ad esempio - si è allora trasformato, nella retorica conservatrice, in una colossale invasione di campo del settore pubblico nell’economia; una riforma sanitaria senza l’ombra di un piano pubblico, e che produrrà nuovi enormi profitti per le assicurazioni private, è stato fatto passare come un progetto destinato a mettere sotto il controllo governativo l’intero settore.

E proprio l’ambiziosa riforma del sistema sanitario americano potrebbe diventare ora la prima vittima dell’imminente perdita dei democratici al Senato della supermaggioranza (60-40) necessaria a prevenire l’ostruzionismo dell’opposizione (filibuster). Dopo l’approvazione delle due Camere del Congresso alla fine dello scorso anno, le due versioni del controverso progetto di legge dovranno ora sfociare in un unico testo, che necessiterà di un nuovo voto sia alla Camera dei Rappresentanti che al Senato, dove i repubblicani avranno però ora la possibilità di bloccarne il passaggio.

Le soluzioni per consentire ai democratici di licenziare comunque una legge definitiva da sottoporre alla firma presidenziale, sono ora essenzialmente tre, tutte complicate da vari fattori. L’espediente più probabile alla vigilia della batosta in Massachusetts sembrava essere un voto della Camera sul testo uscito dal Senato. Ciò consentirebbe un unico voto finale su una versione già esistente da inviare poi a Obama per la promulgazione. In un secondo tempo potrebbero poi essere apportate modifiche nell’ambito della prossima discussione sul bilancio federale. Le resistenze mostrate da molti deputati democratici ad alcuni articoli approvati dal Senato rendono però difficile questa scorciatoia.

Un’altra possibilità sarebbe il ricorso al Senato ad un regolamento che permette di aggirare l’ostacolo della maggioranza qualificata. Eliminando qualche passaggio chiave della riforma, la nuova legge potrebbe essere fatta passare con una maggioranza semplice di 51 senatori. Ciò è possibile facendo appello ad una norma detta “reconciliation”, la quale si applica però alle sole questioni riguardanti il budget del governo. Ricorrere a questa tattica esporrebbe però i democratici al fuoco delle critiche repubblicane.

Da ultimo, i leader di maggioranza potrebbero accelerare il lavoro sulla versione definitiva della riforma forzando i tempi del voto nella camera alta del Congresso prima dell’insediamento del nuovo senatore Scott Brown. Anche in questo caso, tuttavia, si andrebbe incontro ad un mare di contestazioni, per non parlare di possibili azioni legali, sulla legittimità del voto del senatore ad interim del Massachusetts, il kennediano Paul Kirk.

Dopo il voto di martedì, in ogni caso, Obama dovrà affrontare un percorso complicato nel secondo anno del suo mandato. Da un lato, si ritroverà verosimilmente costretto a ridimensionare le sue ambizioni riguardo ai numerosi punti di un programma ancora ampiamente disatteso, per cercare un necessario compromesso con i repubblicani. Dall’altro, invece, sarà chiamato ad un sempre più difficile scatto in avanti per rianimare quella parte di elettori democratici che lo sostennero oltre un anno fa e la cui disillusione potrebbe decretare una nuova pesante sconfitta nelle elezioni di medio termine il prossimo novembre.