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È la delusione il grande setaccio che fa la differenza tra gli esseri umani

di Francesco Lamendola - 21/01/2010

 

Gli antichi Romani non avevano la parola, e quindi neanche il concetto, corrispondente a “delusione”. Per indicare l’inganno, parlavano di “fallacia”, oppure di “ludificatio”, ma quest’ultimo vocabolo nel senso di “beffa”; altrimenti dicevano, semplicemente: “spes decepta”, “speranza delusa”.
La delusione, come l’intendiamo noi moderni, non è, tuttavia, solamente una speranza delusa. I Romani erano un popolo molto pratico, molto concreto: una speranza delusa è una cosa, la delusione è tutta un’altra cosa. L’idea di delusione non si riferisce ad una singola esperienza negativa, o a due, o a tre; ma rimanda a una categoria più vasta, che può abbracciare tutto un certo atteggiamento nei confronti della vita e dell’esistente.
Un antico Romano si poneva un certo fine, un certo obiettivo; e, se non lo raggiungeva, parlava di “spes decepta”. Certo, esisteva anche il concetto di “taedium”, ma meno generico di quel che non si creda: non tanto “taedium vitae”, quanto piuttosto “taedium laboris”, per esempio (avversione al lavoro: Quintiliano); oppure “taedium belli” (disgusto per la guerra: Livio); o, anche, “taedium movere sui” (rendersi odioso: Tacito).
Insomma, la delusione, così come noi la concepiamo oggi, è una cosa tutta moderna: è il vuoto esistenziale, il disincanto del mondo; che deriva, sì, da singole esperienze negative, ma che poi le generalizza e ne fa un vero e proprio atteggiamento filosofico.
La delusione sta dilagando e sta diventando alla moda nei salotti buoni dell’intellighenzia, specialmente dall’Esistenzialismo in avanti. Non parliamo poi della generazione post sessantottesca, che ha visto crollare uno dopo l’altro, e nella maniera più deludente, tutti i propri miti; e che si è adattata alla nuova situazione, dominata da un consumismo becero e da un ritorno al privato in chiave ultra egoistica, con molti rimpianti e con segreta cattiva coscienza.
Sì: la professione del deluso dalla vita è una attività che rende, e oseremmo dire che è quasi divenuta d’obbligo, fra gli intellettuali i quali, oggi, svolgono la funzione che fu già di Petronio alla corte neroniana: quella di «arbiter elegantiae». Alla generazione dei disperati alla Sartre e a quella dei ribelli alla Cohn-Bendit, è succeduta ora una generazione di delusi, di stanchi, di nauseati dalle cose di questo basso mondo; il che non impedisce loro, il più delle volte, di ritagliarvisi una nicchia più che confortevole, sfruttando appunto la loro filosofia della delusione.
Per fortuna ci sono anche delle voci fuori dal coro, talvolta di personalità autorevoli, che non seguono questo comodo andazzo.
Bei tempi, quelli in cui un settimanale popolare senza pretese culturali, come «Gente», pubblicava le riflessioni di un filosofo della statura di Nicola Abbagnano; solo pochi decenni sono passati, ma sembra che sia trascorso un secolo. Bei tempi, quelli in cui un editore serio e intelligente, che pubblicava sia libri sia riviste periodiche, sapeva trovare spazio in queste ultime per le migliori penne che scrivessero all’epoca (ed era passato già qualche anno da quando, su «Il Corriere della Sera», scriveva un certo Pier Paolo Pasolini). Oggi, sulla stampa periodica popolare, si trovano quasi solo volgarità e sciocchezze.
In uno dei suoi articoli, semplici nella scrittura, ma profondi nel contenuto, e quindi “popolari” nel senso migliore della parola, intitolato «Dove ci porta il nuovo pessimismo», Abbagnano svolgeva una acuta riflessione sul fenomeno del pessimismo cronico e alla moda ostentato da tanti, troppi intellettuali, sia italiani che stranieri (in: N. Abbagnano, «La saggezza della vita», Milano, Rusconi, 1985, 30-31):

«Tutte le strade sembrano portare ad un pessimismo facile e comodo che dà l’apparenza, a chi lo sostiene, di essere accorto e alla moda.  È facile infatti giudicare il mondo umano, nella sua totalità,  sulla scorta dei fatti di cronaca, dell’incertezza e dei conflitti politici, delle difficoltà economiche e dell’immoralismo dominante. Ed è comodo trarre da questi fatti la linea di condotta della rinuncia e del conformismo. Perché preoccuparsi, lottare difendere i valori della vita quando tutto va male?  Meglio acconciarsi alla realtà, fare come fanno tutti, occuparsi soltanto dei propri interessi egoistici e vivere giorno per giorno nella ricerca del massimo piacere.  E così i mali in base ai quali si condanna il mondo pessimisticamente, diventano i beni che orientano e dominano la vita dei singoli e delle comunità. Se il vecchio pessimismo, quello difeso dalle religioni e dalle filosofie tradizionali, invitava gli uomini all’ascetismo, cioè alla rinuncia dei “beni mondani”, il nuovo pessimismo non fa che invitare ala ricerca  disordinata e squallida di tali i beni.
È questo il vicolo cieco in cui vanno a finire certi indirizzi della vitae della cultura contemporanee. Ma finire in questo vicolo cieco significa per l’uomo chiudersi le porte dell’avvenire.  La lotta per la vita, che l’uomo ha ingaggiato da che è venuto al mondo,  è retta dalla speranza, e dal coraggio che la speranza alimenta. Si lotta per l’integrità fisica e morale di se stessi e dei propri cari, per ottenere e difendere il proprio lavoro, per mantenere in vita la comunità sociale e politica cui si appartiene. Si lotta contro il sopruso e la violenza, contro l’invidia e la gelosia, per acquistare un minimo di pace e di serenità e per la possibilità di godere delle cose belle che si preferiscono.
La lotta per la vita non contente tregue e abbandono perché anche ciò che si è conquistato si può perdere da un momento all’altro. Ma appunto per questo la speranza è la sua forza maggiore, la condizione essenziale della sua riuscita. Ciò che l’intelligenza calcolatrice prospetta come una possibilità per l’avvenire diventa la meta effettiva dello sforzo umano solo perché mette in opera la speranza attiva e fattiva del’uomo. Nella sua forma radicale, la rinuncia alla speranza, la disperazione, porta solo alla distruzione di sé, con il suicidio o con la droga.  Ed anche nelle peggiori condizioni possibili, l’uomo si aggrappa alla vita se un barlume di speranza gli si prospetta per l’avvenire.
La personalità forte, l’uomo coraggioso non è quello che si limita soltanto a vedere il pericolo o la difficoltà. È quello che conta sulla sua forza per vincerli e spera, appunto, che la sua forza abbia la meglio.»

Certo, la delusione non è solo un gioco, e magari un gioco redditizio per pseudo-intellettuali che scimmiottano, fuori tempo, Humphrey Bogart in «Casablanca», occhio spento e piega della bocca all’ingiù, ovviamente con l’immancabile sigaretta fra  le labbra.
È anche qualcosa di tremendamente serio per milioni di persone che non si divertono a giocare con essa, o che, quanto meno, non lo fanno consapevolmente; ma che in essa trovano il loro tormento e perfino la loro più amara e segreta soddisfazione. Una soddisfazione sterile e proibita, certo; ma che farci: qualcosa è sempre meglio di niente.
Vivere nella delusione è angosciante e conduce ad una sorta di tranquilla disperazione, che spoglia il mondo della sua bellezza e lo consegna al grigiore e alla monotonia di ciò che non desta più meraviglia, di ciò che non fa mai battere il cuore.
Ci deludono le persone; ci deludono le situazioni; ci deludono i luoghi, le professioni e perfino il tempo libero. Le cose non sono come ce l’eravamo immaginate, come le avevamo a lungo desiderate; insomma, è tutta una frana.
Eppure, a ben guardare, bisogna pur avere l’onestà intellettuale di riconoscere che, in moltissimi casi, la nostra delusione è la conseguenza inevitabile di un errore di valutazione da parte nostra, di una aspettativa esagerata e, in gran parte, ingiustificata. Si rimane delusi perché ci aspettava qualcosa che non esiste, qualcosa che non era assolutamente realistico attendersi.
Che cosa c’è di male a sognare una realtà più bella, più poetica, più seducente di quella d’ogni giorno? Nulla; purché si sia ben consapevoli che la cosa comporta dei rischi. Noi possiamo puntare all’ideale per quanto riguarda noi stessi, nel senso che possiamo sforzarci di lavorare su di noi allo scopo di trascendere la nostra condizione presente ed accedere a un livello superiore di esistenza; ma non abbiamo alcun motivo di aspettarci la stessa cosa dagli altri.
Troppo spesso tendiamo a scambiare la realtà per i nostri desideri; troppo spesso crediamo di essere in perfetta sintonia con l’altro, di pensare e sentire alla stessa maniera, di volere gli stessi obiettivi, mentre le cose stanno altrimenti. Quando, poi, sopraggiunge l’inevitabile delusione, ci sentiamo feriti, ingannati, traditi; ma, a voler essere veramente onesti, non sono poi molti i casi in cui quel senso di inganno e di tradimento è davvero giustificato. La verità è che, molto più spesso di quel che non si creda, abbiamo fatto tutto da soli.
D’altra parte, la delusione può diventare un comodo atteggiamento mentale per giustificare la nostra rassegnazione, il nostro essere rinunciatari e la nostra diffidenza sistematica nei confronti della vita. Agendo così, però, non facciamo altro che castigare ulteriormente noi stessi: perché ogni porta che chiudiamo davanti a noi, per amarezza o per paura di subire una nuova delusione, è una occasione di apertura e  una possibilità di essere felici cui volontariamente rinunciamo, e senza nemmeno aver provato a lottare.
Certo, aprire delle porte è sempre un rischio; e bisogna imparare a farlo con qualche cautela, con qualche accortezza; spalancarle e gettarsi oltre di esse, senza sapere minimamente che cosa vi sia al di là, non è una forma di coraggio, ma di follia. E tuttavia, rimane il fatto che solo correndo qualche rischio noi possiamo esperire delle ulteriori possibilità di evoluzione spirituale, di arricchimento della nostra anima. Nulla di ciò che ha valore, nella vita, ci viene regalato; ma sempre deve essere il risultato di un impegno, di uno sforzo, di un sacrificio.
In questo senso crediamo si possa dire che la delusione è un grande setaccio che separa il grano dalla pula e fa la vera differenza tra gli esseri umani. Tutti gli esseri umani, infatti, devono fare i conti con essa, o prima o dopo; ma quello che importa è che ne sappiano uscire ancora integri nel proprio equilibrio spirituale, nel rispetto di se stessi e nella capacità di guardare al mondo con stupore, ammirazione e gratitudine.
Quelli che si piegano sotto il suo peso, che imprecano e maledicono il mondo, che vanno in cerca dei “colpevoli” cui addossare la propria delusione, magari per vendicarsi, non hanno superato la prova e accumulano scoraggiamento e amarezza, forse rancore, che condizionano negativamente tutta la loro vicenda terrena. Essi sono gli sconfitti della vita, un esercito sterminato che non  raccoglie chi non abbia avuto successo esteriore, ma chi ha mancato l’occasione di trasformare le proprie delusioni in fattori di crescita e di consapevolezza spirituale.
Questo esercito di sconfitti ammorba l’aria con le vibrazioni negative che promanano dalle delusioni in esso accumulate: vibrazioni a bassa frequenza che tendono a riprodurre, in una incessante spirale distruttiva, emozioni e sentimenti negativi quali frustrazione, senso di impotenza, rabbia, desiderio di vendetta.
Noi tutti, per vivere bene, avremmo bisogno di essere avvolti e carezzati da vibrazioni ad alta frequenza, che solo le energie positive sono in grado di mettere in circolo, attraverso l’apertura, l’entusiasmo, lo stupore, la gioia, la contemplazione della bellezza. Una sala da concerti ove una folla rapita in estasi ascolta un brano organistico di Bach, è una vera e propria sorgente di energie positive e, quindi, di vibrazioni ad alta frequenza.
Una folla abbrutita dalla noia, dall’ansia, dalle preoccupazioni, dalla delusione, come lo è quella che si muove nello squallore di una grande città congestionata dal traffico e resa invivibile da rumori e da odori sgradevoli, rilascia ondate di energia negativa e, perciò, di vibrazioni a bassa frequenza, che tendono ad autoalimentarsi incessantemente.
Il segreto è comprendere che la scelta di vivere all’Inferno o in Paradiso dipende sostanzialmente da noi stessi. Possiamo coltivare la speranza e la gioia anche in un contesto sfavorevole; e, viceversa, potremmo lasciarci sopraffare dalla delusione e dalla negatività anche in una situazione di per sé favorevole. Abbiamo più potere di quel che non crediamo e, quindi, anche più responsabilità.