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Schiavo, operaio, immigrato

di Matteo Pistilli - 21/01/2010

 

Tre forme dello sfruttamento dall'età del colonialismo all'odierna società globalizzata

 

L’odierna società industrializzata, figlia del libero commercio e del capitalismo, è regolarmente pensata come un percorso unidirezionale verso lo “sviluppo”; una storia ben delineata, quasi inevitabile, verso determinate realizzazioni. Ed è quindi ovvio che a questa inevitabile storia, che in realtà è invece solo la storia di un modello di sviluppo quello globale e capitalista, corrisponda una lineare, parallela forma di sfruttamento destinata ad alimentare la voracità del sistema stesso. Voracità non solo materiale, o per meglio dire materialista cioè legata alla massiccia produzione di merce (inutile e mal distribuita, quindi doppiamente inservibile) o comunque al dominio dell’economia (finanziaria più che reale) sulla politica; ma anche voracità ideale, spirituale in quanto si nutre di globalizzazione culturale, cosmopolitismo, distruzione delle diversità culturali.

 

Si può delineare quindi una sorta di “curva” dello sfruttamento, in cui questo col tempo si approfondisce, si migliora e diventa sempre più forte sia sul piano materiale che spirituale man mano che avanza il modello di sviluppo fondato sul mercato mondiale; possiamo visualizzare questa linea con tre figure che la impersonano nella storia della società moderna: lo schiavo, l’operaio, l’immigrato. Questi messi non solo in successione temporale, ma spesso con i successivi comprensivi delle caratteristiche dei precedenti.

 

Per quanto riguarda la schiavitù moderna, diversa da quella antica propria di società più o meno “gerarchiche” di certo troppo diverse da quelle post-industrializzazione, possiamo prendere in considerazione quella indirizzata alle nuove scoperte geografiche dell’Europa, soprattutto nelle Americhe. Se in Europa la schiavitù era messa al bando non valeva lo stesso per il commercio degli schiavi, vero e proprio mercato globale, in cui primeggiavano gli ebrei (essendo proibita ai cristiani) attraverso le grandi compagnie inglesi, francesi e olandesi soprattutto. L’utilizzo degli schiavi neri (o mulatti) nelle indie però non era un semplice atto di sottomissione, bensì era, come lo stesso colonialismo che serviva ad alimentare, non solo giustificato, ma proprio generato da diversi concetti sinceramente diffusi dalla cultura “cattolica” (ma è riduttivo) dell’Europa dell’epoca: la superiorità razziale, la missione civilizzatrice, il mandato religioso.

 

Ma oltre ad essere il tutto (colonialismo e schiavismo) interpretato (per esempio dai protestanti) attraverso le parole di Giosuè che, rivolto agli ebrei, li considera il popolo eletto destinato ad espandersi a detrimento di altri (le future basi del sionismo), e quindi vedendo nell’America la terra promessa da conquistare, c’è un altro aspetto (oltre anche al “diabolico selvaggio” da redimere) che collega lo schiavismo allo “sviluppo”: cioè il mercato. Infatti la problematicità della conversione (ossia se battezzare neri e mulatti avrebbe comportato un loro salto di diritti o nel caso ciò non fosse vero la missione di civiltà non avrebbe avuto più giustificazione), veniva in qualche modo superata dalla considerazione dell’utilità degli schiavi per la stessa missione di civiltà: quindi schiavi da liberare spiritualmente tramite il battesimo, ma parte integrante della colonizzazione quindi non materialmente liberi; protagonisti del nascente mercato globalizzato, da rendere eguali culturalmente, ma dalla vita civile immutata. D’altronde lo stesso vescovo Las Casas, “protettore degli indios” sapeva benissimo come la loro accondiscendente presenza era necessaria per la prosperità delle colonie e che senza di essi non ci sarebbe mai stato profitto, oppure il suo confratello De la Cruz spiegava come la schiavitù servisse per insegnare a vivere in una società politica strutturata quelli che erano considerati niente di più che bambini.

 

Da lì all’idea che il primato sugli schiavi sia giustificato dalla maggiore tecnica il passo sarà breve. Relativamente in un breve lasso di tempo, le costruzioni religiose si fondono e trasformano in laiche ed il mercato (nuova religione?) diviene la giustificazione della schiavitù. Lo stesso Adam Smith nel suo “La ricchezza delle nazioni” (1776) considererà le colonie come moltiplicatori economici della madrepatria inglese. L’illuminista Condorcet sempre alla fine del settecento, sottolineava l’importanza del libero commercio grazie al quale “un giorno tutte le nazioni si avvicineranno allo stadio di civiltà a cui sono pervenuti i popoli più illuminati […] quali il francese e l’angloamericano”.

 

Siamo nel periodo in cui si sviluppa l’industrializzazione ed è qui che avviene il primo passaggio fondamentale. E’ possibile mettere a fuoco la questione citando una precisa data, ovviamente semplificando, e cioè il 1865 anno in cui viene abolita la schiavitù negli Stati Uniti d’America ad opera del Presidente Abramo Lincoln. Questo avvenne non per motivi ideali, ovviamente, ma perché nella guerra di secessione americana il Nord di Lincoln voleva avvantaggiarsi della liberazione degli schiavi nel Sud confederale (1863). “Se potessi salvare l'Unione senza liberare nessuno schiavo, io lo farei” dice Lincoln e non lascia adito a dubbi.

 

Dopodichè appunto nel 1865 abolisce la schiavitù in tutti gli Stati Uniti e questa volta perché gli schiavi a quel punto non sono più redditizi. In tempi di industrializzazione non c’era più bisogno di avere lavoratori con uno status riconosciuto ai quali veniva garantito assistenza, vitto ed alloggio. Diventava inutile e non economico mantenere gli schiavi, che divenivano in larga parte inutilizzabili. Se n’era accorto il già citato filosofo liberale, attivo nella rivoluzione francese Condorcet, che nel 1781 scrive nelle sue “Riflessioni sulla schiavitù dei neri” che nella nuova forma economica capitalista gli schiavi non sono più redditizi. Era proprio nella seconda metà del settecento infatti, cioè in concomitanza dell’inizio della rivoluzione industriale, che nasceva il movimento antischiavista in Inghilterra; passaggio sottolineato dalle parole di Adam Smith per cui dopo la rivoluzione industriale la mano d’opera più redditizia era il salariato e non lo schiavo. Sommiamoci, per esempio, che alla fine del XVIII secolo lo zucchero che gli inglesi producevano nelle colonie orientali veniva prodotto senza gli schiavi e quindi costava di meno di quello dei Carabi e si capisce bene cosa stava succedendo.

 

Stava nascendo un nuovo tipo di sfruttato: l’operaio.

 

Questo, sebbene non facile a definirsi, è colui che cede la propria forza lavoro in cambio di un salario. Esegue lavori manuali o tecnici, tipicamente nelle fabbriche. E sono le fabbriche che nascono con l’industrializzazione e che si diffondono nel mondo. C’è poco da riportare sulla lotta del proletariato per la propria liberazione, la storia dei movimenti operai, proletari, li conosciamo bene tutti. Addirittura il sogno della fine dello sfruttamento dei lavoratori, attuato secondo il marxismo attraverso il plus valore e il capitale, ha dato vita ad ideologie capaci di creare interi imperi come l’Unione Sovietica o la Cina. Non ci importa ora capire derive e basi di quelle ideologie, ma basta sottolineare come la dittatura dello sfruttamento dell’industria sia alla base di una mole incredibile di riflessioni, pensieri, rivoluzioni del 1800 e del 1900.

 

La catena di montaggio diverrà il triste simbolo dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Il tutto giustificato ovviamente dalla logica del profitto. Dalla logica del mercato sempre più globale, frenato soltanto da esperienze socialiste, che si svilupperanno in diversi tipi (fascismo, comunismo, nazionalsocialismo) ma che alla fine conosceranno solo la sconfitta.

 

Sin dal momento della costruzione dei mercati globali, attraverso le rotte marittime dei colonizzatori, la mentalità mercantile sarà ciò che giustificherà lo sfruttamento dell’uomo. Gli schiavi e poi gli operai servono per mantenere alti gli utili finanziari ed economici di chi conquista mercati in ogni area del pianeta. Le conquiste verranno alimentate con l’utilizzo di uomini mantenuti in posizione inferiore e giustificata come sempre dall’idea di progresso, di civiltà globale. Chateubriand, uno fra i tanti, nell’ottocento ricordava come l’Islam fosse una cultura oscurantista e brutale, non aperta, secondo il suo punto di vista, alla modernità. Questo giustificava l’ingerenza (nel tempo divenuta pure umanitaria) in altre aree del pianeta.

 

Per la borghesia imperante “i tenui prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con cui essa costringe a capitolare il più testardo odio dei barbari per lo straniero” dicono Marx ed Engels nel Manifesto del Partito Comunista; c’è poco da aggiungere: il mercato globale è evidentemente basato sullo sfruttamento.

 

Negli anni i lavoratori, con il miglioramento del livello di vita materiale della società avanzata, sono riusciti a strappare qualche concessione, ma l’ideale di giustizia per cui il lavoro dovrebbe essere decente per tutti e tutelato è stata solo una pia utopia, più fallimentare ancora se si pensa che è sempre stata internazionalista, ponendosi quindi nello stesso campo del mercato globale. Che la situazione sia in continuo peggioramento è comunque evidente guardando al mondo lavorativo da molti anni a questa parte. Neanche più la certezza dello sfruttamento lavorativo è garantita ai lavoratori: è tempo di contratti a tempo determinato, a progetto, è il mondo della precarietà. Una sorta di perdita della cittadinanza in quanto in una società post-industrializzata senza la garanzia del lavoro si perdono di fatto anche i diritti civili del cittadino.

 

Ed infatti è proprio questo il periodo in cui vi è un ulteriore passaggio: un giro di vite dello sfruttamento ormai totalmente mondiale, in mano a multinazionali globali. Pian piano al proletario sfruttato che già era più “solo” dello schiavo, abbandonato a se stesso in una società individualista e tecnologica, ora si affianca e sostituisce un’altra figura: l’immigrato. (Immigrato è ovviamente una definizione deficitaria, ma di certo migliore di “migrante” denominazione che vuol far passare l’aspetto “naturalistico” dei movimenti di grandi masse di uomini, come se si trattasse di rondini o tonni).

 

Come per il passaggio fra schiavi ed operai, cristallizzato in questo pezzo dall’abolizione della schiavitù del presidente Lincoln, stesso tipo di logica interessata può essere rintracciata nel salto dall’utilizzo massiccio di operai nella società industriale a quello dello sfruttamento dell’immigrazione di massa. Ovviamente non è possibile segnalare un momento preciso in cui questo avviene, è un processo in atto; al lavoro degli operai, sempre più a progetto, a contratto ecc..., alla delocalizzazione delle fabbriche che vanno a cercare posti in cui la manodopera costa di meno, si somma da diversi anni in misura massiccia rispetto al passato, il movimento di grandi masse che vanno a loro volta incontro a lavori, che è antieconomico o impossibile delocalizzare, come può essere l’agricoltura. Questa è evidentemente una forte forma di sfruttamento. Per abbassare all’infinito i costi della produzione agricola, non c’è nient’altro da fare ormai che abbassare diritti e salari di chi lavora sui campi; e la questione è tutta culturale: dopo aver raggiunto standard di vita di un certo livello è difficile per gli italiani (e non solo) riscoprire la miseria di inizio secolo. Ecco allora l’importanza fondamentale dell’immigrato: questo magari clandestino, non chiede diritti, chiede pochi soldi, è culturalmente diverso dagli italiani e tramite la sua “fame” si riesce a far fare soldi, e qui si rasenta l’assurdo, non tanto ai proprietari della terra (a meno che non siano grandissimi proprietari) bensì a chi vende, smercia, pubblicizza quei prodotti che vedono accrescere il proprio prezzo dalla pianta alla tavola di più del 450 percento! Certo anche per i piccoli proprietari c’è un guadagno, ma è minimo in confronto a quello di cui possono fregiarsi i vari imprenditori del mercato. 

 

Ovviamente questo non sarà l’ultimo stadio dello sfruttamento ed è inutile pensare che la soluzione sia la regolarizzazione. Verrà sempre qualcuno che per i bassi standard di vita riuscirà a lavorare per ancora meno, anche a regola. Ma sempre di sfruttamento si tratterebbe. Discorso vecchio, già Engels a fine ottocento scriveva “l’inondazione dell’America, dell’Europa e dell’Asia da parte degli odiati cinesi e la loro concorrenza con la manodopera americana, australiana ed europea sulla base del concetto cinese di un livello di vita tollerabile che è notoriamente il più basso del mondo” agiranno creando ripercussioni nel sistema capitalistico. Engels, che come sappiamo considerava il capitalismo indispensabile, si rendeva conto che l’immigrazione avrebbe influito sul futuro dell’economia, ma soprattutto sulla società tutta. Si può fare un esempio prendendo spunto dagli scontri avvenuti nel sud Italia, a Rosarno per la precisione, dove immigrati africani hanno creato scompiglio e scontri, attaccando anche la gente del luogo, esasperati per la situazione in cui vivono e dopo esser stati aggrediti a colpi di fucile da qualcuno. Quel qualcuno probabilmente è la mafia locale, le famose ‘ndrine, le cosche. Ma non necessariamente.

 

Questi immigrati, per la maggior parte africani, vengono da anni utilizzati come raccoglitori stagionali e pagati pochi euro per giornate intere di lavoro.

 

Ma oggi addirittura, per la convergenza di diversi fattori, a volte non è neanche più utile il loro sfruttamento: tanto per cominciare sappiamo bene di vivere in una società dove il prezzo dei beni essenziali diminuisce costantemente ed anzi sembra essere diventato un peso per i membri della nostra società doverli pagare. E’ ovviamente uno spregevole effetto della cultura globalizzata moderna, per cui pagare pochi spiccioli l’utilizzo dell’acqua corrente che arriva fino a casa, o comprare buste intere di arance per pochi centesimi, è sommamente più sgradevole che non pagare centinaia di euro per una cinta per i pantaloni. C’è poco da fare se non rendersi conto della situazione.

 

Ma un altro fattore, e questo sarebbe possibile evitarlo con “poco” sforzo, è la mancanza di una vera Politica, soprattutto a livello europeo; è infatti l’Unione Europea (una finta UE serva dei poteri forti, massonici, finanziari) che ha concesso finanziamenti a pioggia ai grandi produttori agricoli (per esempio a Rosarno) per cui oggi è più redditizio non raccogliere i frutti e lasciarli marcire che non commerciarli (infatti i finanziamenti vengono concessi in base all’estensione della terra e non del prodotto raccolto). Inoltre finanziamenti innaturali utili solo alle multinazionali della distribuzione creano momenti in cui possono essere sfruttati molti immigrati e momenti in cui il loro alto numero è di impiccio e crea degrado.

Se sommiamo a questo l’arrivo costante di nuovi sfruttati, che come cyborg cinematografici forniscono sempre ulteriori vantaggi per i caporali, vuoi perchè sono comunitari, vuoi perché sono più disperati e via dicendo, si capisce come le parole di pietà e carità diffuse dalle organizzazioni di assistenza (cattoliche e non) ricordano molto da vicino quelle dei primi colonizzatori, capaci di giustificare le loro distruzioni fatte in onore del mercato con l’esportazione della civiltà illuminata.

 

Oggi quella civiltà illuminata è la stessa che distrugge la società e l’economia per esempio dell’Africa, che all’inizio del 1900 era autosufficiente riguardo l’alimentazione e che oggi, dopo la cura imposta dal libero mercato mondiale, vive nella fame che costringe gli abitanti a partire. Abitanti che avendo perso le proprie radici, vivono in un disagio permanente fra guerre, povertà mentale, mentre le multinazionali, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale imperano sulle loro terre, donando aiuti. Lo stesso aiuto che i colonizzatori inglesi hanno portato agli indiani d’america, sterminandoli tutti. Lo stesso aiuto che l’industria mondiale porta agli operai di tutto il globo, concedendogli di lavorare senza diritti per un tozzo di pane nelle sue fabbriche.

 

C’è bisogno del ritorno della Politica. Chi dice che nulla si può fare per combattere la povertà, le “migrazioni”, lo sfruttamento nel mondo farebbe bene a farsi da parte perché in questo modo conferma la propria totale incompetenza. O peggio ancora conferma di lavorare per i poteri interessati a mondializzare costantemente la cultura, delocalizzando lo sfruttamento, promuovendo migrazioni bibliche che creano soltanto sradicati e sfruttati. C’è bisogno di multipolarismo e cooperazione fra aree sovrane del pianeta, perché la famosa globalizzazione è fondata sul libero mercato difeso da chi crede di avere il diritto di governare il mondo.