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Google e la Cina: chi contro chi?

di Claudio Moffa - 24/01/2010

Fonte: claudiomoffa

    
Google e la Cina: chi contro chi?

 

L’Impero del male contro una verginella liberal preoccupata per le sorti del libero pensiero nel mondo. Così è stato presentato lo scontro su Internet fra la Cina e Google di cui alle cronache di questi giorni: da una parte il cattivo regime di Pechino che dopo vent’anni continua sulla strada della repressione di Tien an Men, e dall’altra il buon Google, il colosso dei motori di ricerca sceso in campo per difendere i diritti di libera espressione e comunicazione dei suoi utenti cinesi, spiati e vessati da investigatori governativi. Ma è proprio così? E soprattutto cosa può insegnare in Europa e in Italia il conflitto fra Pechino e i patrons del più grande motore di ricerca, Larry Page e Sergey Brin, visto che si è parlato di trattative per risolvere il contenzioso?

E Google? Ovviamente quella di un motore di ricerca animato da aneliti di libertà è una balla per i gonzi. Google facilita e dunque democratizza la ricerca di dati, notizie, documenti, etc. ma allo stesso tempo è uno strumento di veicolazione di una weltanschaung precisa, che è quella dei suoi fondatori e della sua leadership. In effetti, come Facebook è un formidabile forum interpersonale e multipersonale, ma anche una intelligente autoschedatura di massa ad uso dei veri poteri totalitari della nostra epoca [1];come Twitter oltre a fungere da propagatore rapido di notizie e eventi importanti, è anche un formidabile centro di eversione planetaria capace di creare opposizioni prima virtuali e poi potenzialmente effettive proprio grazie all’aggressione e “invenzione” mediatica (vedi il caso iraniano, con gli sparuti fuochi accesi sulle strade di Teheran da elementi antigovernativi, che si vuole rappresentino un’inesistente oceanica opposizione a Ahmedinejad); come Fastweb permette una comunicazione postale e pubblicitaria in tempo reale a beneficio di tutti, ma impedisce anche di spedire un link di un sito a lui sgradito, che l’attenzionato di turno deve scomporre separando le sue componenti (www e poi punto e poi il nome etc.) per cercare di sfuggire alla occulta censura subita: come insomma tutto quel che comanda la rete attraverso l’offerta di spazi informatici in libertà vigilata, così anche Google produce meccanismi e persegue pratiche totalitarie proprio attraverso filtri consimili a quelli di cui accusa il governo di Pechino.  Nessuna neutralità e nessun pluralismo reale dunque, almeno su certi temi caldi e veramente alternativi. Come è scritto nella stessa Wikipedia, i consulenti del motore di ricerca di Page & Brin promuovono “un’attività chiamata ottimizzazione per i motori di ricerca” (dall’acronimo statunitense SEO: Search Engine Optimization) che si propone di creare pagine e siti che rispettino le regole (i “gusti”) dei motori di ricerca riuscendo a migliorare la propria posizione nei risultati delle ricerche”. Quali? E’ noto che Larry Page e Sergej Brin, come pressoché tutta la élite dei grandi motori di ricerca, servers e providers di ricerca, sono ebrei [2] ma il problema non è questo, il problema è che a conti fatti e a pratiche censorie verificate Google rappresenta le forme più oltranziste del sionismo, quelle che non ammettono critiche nei confronti dei plateali crimini internazionali compiuti da Israele (tali in sé, e soprattutto in confronto alle accuse consimili fatte a Saddam Hussein e a Milosevic), o che pretendono l’imbavagliamento totalitario della libertà di opinione e della ricerca storica, in difesa di un antirevisionismo dogmatico e rozzo che si spinge fino alla esaltazione delle sanzioni penali e della galera per i dissidenti. Come nella Germania nazista. Inaudito e inaccettabile.

Dunque, ricercatori, studiosi, giornalisti intellettuali anticonformisti, attenti: se non si rispettano i “gusti” ultrasionisti e totalitari dei signori Page e Brin ecco le vessazioni, discriminazioni, censure per l’ingenuo di turno, che pensa di trovarsi di fronte a uno strumento asettico e neutrale, o quanto meno plurale, e che tale – su certi specifici argomenti – non è.  Gli esempi? Google è un motore di ricerca “automatico” nei casi di informazione di bassa o normale rilevanza – esattamente come la Giustizia può funzionare se in contenzioso sono due cittadini “normali” in lite per una questione “normale” – ma non ha proprio nulla di automatico quando si toccano temi per lui caldi e pericolosi, attinenti a certi poter forti internazionali che pensano di poter imporre la loro politica e la loro ideologia a tutto il pianeta: in questi casi scatta il meccanismo censorio del sopraccitato SOE. Google è una macchina di diffamazione permanente – molto più incisiva di quella su cartaceo – nel caso di utenti politically not correct, che vengono insultati, lavorati ai fianchi, sminuiti oculatamente e sistematicamente da ignoti teppisti nascosti nell’anonimato, un anonimato garantito da Google e dai suoi sub-affini. Google è capace di ridurre di migliaia di unità il numero delle cliccate riferite a un nome o a un tema nel giro di pochi minuti, declassando l’attenzionato di turno con una diminutio costruita ad arte. Google seleziona le news in modo assolutamente mirato e calcolato: uno puo’ aver attraversato a nuoto il Mediterraneo in un giorno, può aver scritto articoli che hanno fatto il giro di decine di siti, ma se quanto detto o fatto non corrisponde alla weltanschauung – ai “gusti”, secondo il linguaggio “buonista” di Wikipedia del connazionale James Wales – di Google, allora la sua azione censoria entra in azione, privilegiando notizie vecchie di due o tre anni, lesive o poco positive per l’attenzionato di turno, e contemporaneamente tacendo e occultando sistematicamente le altre, quale che sia la loro rilevanza oggettiva e diffusione sulla stessa rete [3]. Mi fermo qui. E’ possibile che questo linguaggio sia troppo tecnico per alcuni utenti di internet.

Sicuramente non lo capisce chi usa internet per parlare di farfalle e mazzi di fiori, o magari per rivolgere minacce di morte a Berlusconi, un Presidente del Consiglio diventato evidentemente, fra un articolo sul signoraggio de Il Giornale e un accordo con la Libia di Gheddafi, anch’egli un potenziale politically not correct del mondo politico italiano e internazionale. Non lo capiscono bundo-marxisti, figura nuova di “rivoluzionari” nata ai margini di una conferenza dell’ignaro Ilan Pappe a Roma circa un anno fa [4]; non lo capiscono i politologi, giornalisti della sinistra radicale doc, o i militanti “rivoluzionari” che deliberatamente occultano gli evidentissimi e corposi indizi di una presenza israeliana nelle guerre e nel terrorismo internazionale postbipolare, financo “islamico”, tutto celando dietro un antiamericanismo tanto becero quanto utile strumento per guadagnarsi e mantenere, “a sinistra”, spazi mediatici di rilievo; non lo capiscono quegli intellettuali e pseudostorici furbi che usano una battuta sbagliata di Faurisson per prendere le distanze da tutto quello che lo studioso francese ha argomentato, con buona dose di credibilità, su aspetti cruciali dell’ “Olocausto”.

Tutti costoro, non avendo subito sulla pelle la vera censura dei poteri forti di internet, non capiranno probabilmente quanto qui detto. Ma sicuramente capiscono altri, quelli che affrontano questioni veramente scomode e appunto per questo si scontrano con i padroni planetari di internet, un mondo tanto vivace e variegato quanto privo di pluralismo vero perché guidato nella stragrande maggioranza dei casi, un po’ come i mass media italiani almeno fino al cambio di direzione del TG5 e del Corriere della sera, da personaggi assolutamente e ossessivamente monocordi: chi tocca il Signoraggio e/o Israele, la paga: ed ecco dunque la gogna, la censura, e i “filtri” sopra elencati, per chi scrive in libertà di sovranità nazionale della moneta, di Olocausto, di camere a gas, di Israele, di Palestina, del diritto dell’Iran a sviluppare la propria industria nucleare, dell’inesistenza del “genocidio” del Darfur …

Tutti costoro diventano le vittime del signor Google, il buon motore di ricerca che si batte per il libero pensiero in Cina, contro i filtri censori del governo cinese ma che qui da noi, nel libero Occidente, si comporta assai peggio del peggiore dei funzionari del ministero degli interni di Pechino. E attenzione, il meccanismo utilizzato da Google – in assenza di qualsiasi regolazione della rete – può produrre un effetto domino anche al di fuori di campi “ideologici” sopradelineati: se uno – parlo di un caso che conosco – si scontra o si è scontrato con una persona legata al giro VIP della Rete per vicende assolutamente personali, può finire vessato e perseguitato da un meccanismo diabolico di diffamazione come fosse un webwriter “negazionista”: un po’ come il partigiano o il repubblichino guasti, che ammazzavano il vicino di casa perché aveva corteggiato la loro moglie e giustificavano la loro azione – in una congiuntura geografica-cronologica assolutamente senza regole: questo è il prezzo noto di ogni situazione più o meno “rivoluzionaria” – come motivata dalla vera o inventata collocazione politica del “giustiziato”. Insomma il virus della mala gestione di internet che permette ai grandi server e provider di spadroneggiare e vessare gli utenti può diffondersi in tutte le direzioni.

Ma allora non c’è nulla da fare e dal caso cinese – ben letto – viene soltanto una lezione di pessimismo?

E’ ovvio che no: non solo in ragione del fatto che, come già detto, internet resta uno straordinario strumento di libertà di espressione, ma anche perché dal caso del contenzioso Cina-Google viene alla luce la percorribilità di una strada per affrontare quello che appare l’ostacolo principale per un processo di liberazione più avanzato.

Mi spiego: le misure liberticide prodotte all’interno di un paese da governi e magistrature faziosi e illiberali, hanno nella battaglia politica contro i reati di opinione e per la riforma del codice penale la loro strada maestra di superamento, abbattimento, soluzione. In Europa, questo discorso riguarda paesi come la Germania, la Francia, la Polonia [5].

Le misure liberticide di Google e affini – assai più pericolose, non fosse altro perché sono privatistiche, ad effetto immediato, e senza possibilità di appello – sembrano invece di impossibile superamento e abbattimento: senonché, proprio la vicenda cinese indica la strada da seguire.

Se il transnazionale Google ha discusso con lo Stato cinese dei filtri impostigli dagli agenti informatici di Pechino con il fine di ostacolare la libera circolazione dei contenuti che viaggiano in rete, sul suo motore di ricerca; se questo problema è stato l’oggetto della trattativa fra le due parti, perché allora non dovrebbe essere possibile il percorso inverso, e cioè l’imposizione da parte dei governi nazionali ai motori di ricerca, ai servers e provider transnazionali di un divieto tassativo di apporre filtri e censure su questioni, tematiche, argomenti altri che quelli previsti e codificati dai rispettivi codici penali e civili vigenti nel paese in questione, e solo dopo un ricorso alle autorità competenti (la magistratura innanzitutto) dello stesso paese nel quale il gruppo mediatico transnazionale può solo presumere sia stato compiuto un reato?

 

Il problema è dunque, sulla stessa falsariga del controllo e abbattimento dei paradisi fiscali usati dal capitale finanziario transnazionale di cui si è parlato dopo il G8 de L’Aquila, quello della riappropriazione della sovranità nazionale da parte dei governi degli stati invasi dalle abusive pratiche censorie dei grandi gruppi transnazionali della rete.

Certo, a queste considerazioni si potrà opporre che in Germania, Francia o Polonia – come insegnano i casi Stolz, Garaudy, Faurisson – il governo potrebbe addirittura plaudire alle misure liberticide dei signori transnazionali Page-Brin e Zuckerberg: ma tanto i server e i motori di ricerca fanno lo stesso, e nessuno li tocca, anche nei paesi in cui, come la Spagna e l’Italia, esiste una maggiore liberalità e una codificazione più o meno soft dei cosiddetti reati di opinione.

Comunque, avviare questo percorso vuol dire gettare nello stagno dell’attuale immobilismo, anche in Francia e Germania, il sasso di un potenziale dibattito che deghettizzi i soliti “appestati” delle “democrazie a metà” francese e tedesca e del pensiero unico dell’universo internet sulle tematiche calde della nostra epoca. Comunque, non mi sembra proprio che esistano altre strade: per difendere gli spazi di libertà e per combattere le censure su internet ad opera di Google e affini, non è pensabile di poter vincere la partita individualmente: in sede giudiziaria, anche a parte il nodo cruciale della competenza giurisdizionale – con servers che spesso hanno sede in altri paesi – lo scontro è fra la formica e l’elefante; la fortuna di imbattersi in un giudice onesto e coraggioso, o in via stragiudiziale le pressioni e l’individuazione di canali personalistici utili per risolvere il contenzioso, possono avere successo hic et nunc, ma l’assenza di regole e l’autoreferenzialità assoluta dei grandi gruppi sopranazionali della Rete, rischiano di ripresentare l’abuso il giorno dopo.

Le vie di soluzione del problema sono altre, due per l’esattezza, non per forza di cose reciprocamente alternative: la prima consiste nella costruzione di servers, providers, motori di ricerca che abbiano regole diverse e opposte a quelle dei gruppi oggi dominanti. E’ la questione di cui alle cronache recenti e passate di gruppi internet alternativi: un antigoogle francese, progetto che non ha avuto successo; o una rete internet espressione dell’ormai evidente polo geopolitico alternativo che fa sponda su Russia e Cina per sfuggire alle minacce e pressioni del monopolarismo americo-israeliano: un’idea di cui si parla da tempo, che potrebbe avere come protagonisti il Venezuela, l’Iran, il Libano degli Hezbollah, altri paesi minori, forse la stessa Russia di Putin.

In sostanza si tratta di attendere la formazione di una rete internet con auto-regole e strategie editoriali dei gruppi che la controllassero, diverse da quelle di Google, Twitter, Facebook.

L’altra via è quella già detta: non l’attesa di nuove regole in e di nuovi gruppi internet, ma l’imposizione di regole diverse ai gruppi transnazionali già esistenti da parte degli Stati sovrani. Qui la possibilità di intervento e di influenza del “popolo della rete” è reale, attraverso un ventaglio di opzioni che va dalle pressioni mediatiche, alla attivizzazione di pratiche “lobbystiche”, ad armi giuridiche – forse – come un referendum che stabilisca l’obbligo per il governo di attivarsi in questa direzione. Ma il popolo di internet non è un universo animato da unanimi intenti: un progetto del genere mai sarà accettato dai grillisti, la cui antipolitica è semplicemente una politica di subalternità ai poteri forti che comandano la rete impedendovi il libero dibattito a tutto campo; né sarà mai benvoluto dai rottami bundo-marxisti, marx-negristi etc. della ormai scomparsa “sinistra di classe”, così subalterni a teorie strampalate come quelle appunto del Negri di Impero - che supportano la negazione cosmopoliteggiante della sovranità degli Stati – o più prosaicamente, così dipendenti dai finanziamenti delle giunte di centrosinistra legate mani e piedi al carro di Repubblica o alla variante neo-tangentopolista di Di Pietro-De Magistris. Né, tanto meno, un progetto del genere sarà mai accettato dalla nuova galassia cosiddetta “anarchica”, quella rete di ignoti diffamatori più o meno pacifici, che sta sviluppando attraverso nicknames variabili un suo invasivo controllo su tutti i siti veramente alternativi e che ad ogni occasione si pronunciano contro ogni tentativo di quale che sia regolazione della rete. Il “popolo di internet” come realtà unitaria a partire da una stessa condizione lavorativa e attività, non esiste. La liberazione della rete dal monopolismo di Google, Facebook e affini è questione squisitamente politica, e come ogni questione politica richiede una battaglia per cambiare lo stato di cose presente.

  1. Si pensi alle difficoltà e parzialità delle schedature artigianali del mondo ormai scomparso dei golpe militari di destra in America Latina o in Grecia: il lavoro lungo e complicato di centinaia di agenti segreti, Facebook lo offre a tutti in tempo reale a tutti suoi utenti. Ovviamente alle persone normali non interessa uno studio scientifico. Ma un servizio di intelligence che voglia indagare ad esempio sui presunti antisemiti in tutti i paesi del mondo, potrà costruirsi tabelle e strumenti di decodificazione tali da distinguere, nel caso specifico, le diverse gradazioni di “antisemitismo”, non solo attraverso la lettura delle prese di posizione dei singoli, ma anche attraverso la natura dei legami (monotematica, plurale, apolitica, casuale, “dis scambio” puro, etc ) fra i vari utenti.
  2. Cfr. la pagina web qui allegata: http://www.fourwinds10.com/siterun_data/media/internet/news.php?q=1262024557
  3. Tutte esperienze subite dal sottoscritto. Varie volte, come già documentato sul 21 e 33 (blog), mi è capitato di assistere alla diminuzione improvvisa del numero delle mie presenze in rete, nel giro di pochissimi minuti (di solito di mattina presto) di diverse migliaia di unità. Automatismo?
  4. Tutti i marxisti sanno che il bundismo, che pretendeva di organizzare il proletariato ebraico in modo separato da quello delle altre nazionalità del multietnico e multireligioso Impero zarista, era per questo un movimento razzista, stigmatizzato fortemente da Stalin e dalla dirigenza bolscevica. Una battuta sintomatica (o di Stalin o di Lenin, non ricordo) definiva non a caso i bundisti come “i sionisti col mal di mare”. Tali e quali ai sionisti, ma che restavano in Russia invece di emigrare in Palestina. Ovviamente anche il sionista Menhamen Begin partecipò alla guerriglia antitedesca “dalla parte” dell’URSS. Ma sostenere che per questo sionismo e marxismo sono movimenti alleati è tesi falsa e profondamente ambigua e disorientante per chi dice di stare dalla parte dei palestinesi oggi.
    5. Vedi il mio articolo sul 21e33: In Polonia arriva la polizia del pensiero. Proibita la glorificazione del comunismo e quelle del fascismo e del “totalitarismo. Il comunista grida al fascismo …”