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Osservare, comprendere, dubitare, cercare, rivoltarsi

di Roberto Zavaglia - 25/01/2010

Nel giudizio sulla situazione politica di un Paese, ognuno si affida ai propri criteri interpretativi.  Chi accampa un’obiettività assoluta di solito scambia i suoi convincimenti per la realtà naturale delle cose. Fra gli osservatori degli avvenimenti internazionali appartenenti al giornalismo mainstream, oggi, domina l’interpretazione liberale della superiorità del modello occidentale. La “qualità” di uno Stato si valuta solo sul grado di democrazia, di rispetto dei diritti umani e di sviluppo economico. 
  Quanti si oppongono a questo schema, tranne i pochi marxisti sopravvissuti, tentano di inceppare i meccanismi ideologici liberali, denunciandone l’astrattezza e la strumentalità. Non possedendo, in questa era post-ideologica, un’organica visione complessiva delle relazioni internazionali, si basano nondimeno su alcuni principi guida. Nel nostro caso, il criterio dell’indipendenza nazionale, intesa come maggior grado possibile di autonomia rispetto alle grandi potenze a vocazione imperialista, è uno dei più importanti nel giudicare i vari regimi.  Questa “categoria” racchiude la speranza della nascita di un mondo multipolare, che riteniamo possa contribuire a diminuire le ingiustizie politiche e le più macroscopiche disuguaglianze economiche.
  Tali convinzioni ci appaiono, però, insufficienti quando si tratta di Paesi lontani dagli stili di vita e dalle condizioni sociali ai quali, pur criticandoli, siamo avvezzi. Anche chi si discosta dal pensiero egemone deve tenere conto di alcuni dei suoi parametri, se non vuole restare anch’egli prigioniero dei pregiudizi. Di fronte a realtà afflitte da miseria e indiscriminata repressione politica non si può valutare solo l’indipendenza nazionale. In Corea del Nord c’è un regime addirittura autarchico, che però resta spregevole per le angherie e le privazioni imposti al suo popolo.
  Ci sono casi in cui il giudizio è più difficile e la perentorietà lascia campo al dubbio. Prendiamo, per esempio, l’Iran, sempre sulle prime pagine dei giornali. Certo, non ci piacerebbe vivere sotto un regime teocratico, ma non significa che dimentichiamo come la rivoluzione islamica abbia sottratto quel Paese al dominio da parte della Gran Bretagna prima e, poi, degli Usa. Non siamo indifferenti alla repressione del dissenso in corso, ma sappiamo che vi sono stati periodi, sia durante la Repubblica islamica che al tempo della Savak dello Scià, in cui gli omicidi politici e la tortura avevano maggior corso di oggi. Eppure, mai come adesso la condanna internazionale della violazione dei diritti umani è stata forte. E’ difficile credere che la volontà di Usa e di Israele di abbattere un regime che ostacola, sempre di più, i loro piani, non c’entri nulla.
  Se l’ennesima rivoluzione colorata, che ha un consenso reale, ma è finanziata e infiltrata da Washington, trionfasse a Teheran, resta da vedere se il rispetto dei diritti individuali crescerebbe di molto. Ci sono, forse, Paesi in cui, per tradizione e cultura, l’Habeas corpus, fatica a prendere piede chiunque prevalga, essendo la cosiddetta sacralità della vita meno venerata che da noi? All’ideologia dei diritti umani soprattutto imputiamo la non considerazione dei contesti, la rappresentazione fasulla della lotta politica come scontro manicheo tra bene e male, in cui gli interessi delle potenze e delle grandi imprese transnazionali sono assenti.
  In Europa godiamo di un buon livello di libertà individuale, con il contrappasso di contare, come cittadini, assai poco politicamente, ma ciò avviene in una situazione complessiva di pace sociale. Negli anni Settanta, al tempo dei movimenti rivoluzionari in piazza e poi, durante la stagione del terrorismo, in Italia vennero approvate leggi speciali, la polizia agì talvolta fuori dalle regole e i processi si trasformarono spesso in lunghe persecuzioni giudiziarie. Non ci interessa stabilire se sia stato giusto o meno, ma solo ricordare che anche la “democrazia” ha usato la mano pesante quando si è sentita minacciata.
  Non è solo sul concetto di libertà che non dobbiamo smettere di interrogarci. Anche la miseria di  alcuni Paesi ci induce a riflessioni “poco educate”. La tragedia di Haiti è stata causata dal terremoto,  ma il sottosviluppo in cui versa il Paese ne ha aggravato le conseguenze. Osservando la storia di Haiti, ci rendiamo conto che quel sottosviluppo non è “naturale”, ma è stato anche, o soprattutto, causato dall’essere “troppo lontana da Dio e troppo vicina agli Usa”, come si dice del Messico. Lo sfruttamento statunitense continua anche adesso, in pieno afflato umanitario, con le aziende licenziatarie della Walt Disney Corporation che pagano meno di un dollaro al giorno i lavoratori che fabbricano pigiamini con la faccia di Topolino, con cui saranno allietate le notti dei bambini negli Usa e in Europa.
  Questa è la prima considerazione, ma una domanda sorge immediatamente. Come è possibile che gli haitiani non siano riusciti, nel corso della storia, a migliorare, almeno in parte, la loro condizione? Le forze da affrontare erano grandi, ma talvolta pare che alcuni dei popoli più sfruttati accettino con eccessiva rassegnazione la sfortuna capitatagli. In Africa, ci diceva un medico che vi svolge assistenza volontaria, si ha spesso l’impressione di trattare con interi popoli di sedicenni: entusiasti e generosi come degli adolescenti, ma non il massimo quanto a responsabilità sociale. Seguendo la nostra impostazione culturale, ci viene immediatamente da rispondere che, prima di essere forzatamente introdotta nel mercato internazionale, l’Africa era quasi autosufficiente sul piano alimentare. L’imposizione della mentalità economicista, estranea alla cultura locale, e gli enormi svantaggi competitivi non consentono agli africani di battere la miseria.
  E’ vero, ma anche in questo caso non basta. Si vorrebbe capire meglio in vista di quali finalità essenziali i popoli “sottosviluppati” pratichino le proprie strategie di adattamento ambientale. Sono discorsi difficili che il politicamente corretto inibisce. Si dovrebbe tornare a parlare forse di razza, se sia o meno un dato reale, o di etnia se fa meno paura, e del rapporto natura-cultura. Non certo in una prospettiva razzistica che, storicamente, ha accomunato tanto “l’ineguaglianza delle razze umane” di Gobineau come l’evoluzionismo unilineare di stampo  darwiniano. Chiedersi se alcuni popoli vivano secondo valori, altamente rispettabili, ma in parte inconciliabili con i nostri, è necessario per esprimere valutazioni politiche. Questioni come l’esistenza o meno di principi universali vengono ignorate dalla stampa, quando accende i riflettori sulla solita guerra o sull’ennesimo disastro.
  Con poche convinzioni radicate e molti più dubbi, l’osservatore-partecipe delle vicende internazionali, spesso segnate da dure sofferenze, può solo condividere l’atteggiamento morale di Camus: “non viviamo più i tempi della rivoluzione, impariamo a vivere almeno i tempi della rivolta”.