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Félix Fénéon. Romanzi in tre righe

di Mario Grossi - 26/01/2010

Forse la mia passione per il microscopico è nata a casa di mia zia Maria. Da bambino alcune volte l’anno andavamo a trovarla con mio padre, suo unico nipote, in un grande appartamento in via Tevere a Roma. Ogni volta io tentavo di sottrarmi alla visita che ritenevo noiosa e poi quei suoi denti sporgenti da roditore m’impressionavano non poco.

La zia Maria, celebre arpista degli anni trenta, viveva in una casa gozzaniana. Come una sorta di Signorina Felicita attempata si era circondata di antichi oggetti, quelle “buone cose di pessimo gusto” che mi incuriosivano. Nella sala in cui ci riceveva e che utilizzava per le sue lezioni di musica troneggiava una bellissima arpa dorata ed un pianoforte. Noi ci accomodavamo nel salottino e da una bomboniera ci venivano offerti cioccolatini sempre un po’ patinati e stantii.

Lei s’informava premurosa e formale dei nostri studi, delle nostre letture e poi ci lasciava vagare per i tavolinetti, i pizzi, le suppellettili alla ricerca di nuove scoperte in quel mondo immobile e impermeabile alla vita contemporanea, mentre con gli altri adulti iniziava la conversazione vera e propria.

In alcune di quelle visite conobbi la signorina Maschìo, nota miniaturista incaricata di proseguire quella che era una sua tradizione. Immortalare in un piccolo dipinto tutti i volti della famiglia.

Fu così che, vedendola all’opera con lente d’ingrandimento e pennelli con un solo pelo, m’innamorai del microscopico.

Quelle miniature sono alla base della mia passione per il piccolo anche in letteratura. Da sempre ho apprezzato aforismi, haiku, detti che condensano in pochi tratti una stratificazione di sensi tanto piena che le poche parole sembrano scoppiarne.

È forse anche per questo che mi ha incuriosito l’attualissima querelle circa gli SMS, le E-mail, Twitter rei secondo alcuni, con i loro sincopati periodi, di minare la bellezza della scrittura italiana.

Dalla querelle è sorto un novello genere letterario tanto che sono nati concorsi in cui si premiano i migliori romanzi twitter (intere composizioni in 140 battute) o la miglior prosa SMS.

Sulla scia di questo rinnovato interesse per la brevità, Adelphi ha dato alle stampe un godibilissimo libricino, piccolo anch’esso per restare fedele al testo evidentemente, di Félix Fénéon dal titolo Romanzi in tre righe.

Fénéon che, non firmandoli, a partire dal 1906 li pubblicò quotidianamente sul Matin in una rubrica che portava lo stesso titolo del libro dell’Adelphi.

L’autore, un tipo bizzarro che attraversa senza quasi mai apparire in prima persona quegli anni letterari, era stato funzionario ministeriale fino all’accusa, che lo portò al processo, di aver partecipato a un attentato dinamitardo di matrice anarchica. Attentato con gran botto ma che non provocò alcun morto. Il processo lo vide assolto ma screditato. Fénéon perse il suo posto al Ministero e si reinventò direttore della “Revue Blanche”, una delle più sofisticate riviste letterarie mai apparse.

Sta di fatto che, collaborando anche con il Matin, terrà la rubrica su cui appaiono anonimi i suoi romanzi in tre righe.

Scorrendo il libro che ne raccoglie un centinaio dei millecinquecento scritti anche chi non è amante del detto breve si accorge dell’oscura bellezza di questi “brevissimi”.

In poche battute Fénéon dipenge ritratti che hanno la forza del romanzo aperto.

Ognuno è un piccolo grumo rappreso di potenziali sensi inespressi. Ogni microscopico scritto è come l’universo un momento prima del grande scoppio del Big Ben che diede origine a tutto.

È come se quelle tre righe, sottoposte a un’enorme pressione, contengano un’infinità di sensi compressi in una densità grandiosa. Tutto è contenuto in quelle tre righe in termini di potenza.

Ogni piccolo evento si carica di significati che vanno ricercati e che non si esauriscono nelle tre righe scritte. Come delle radici s’innervano nell’enigma, si diramano in vie divergenti e tutte plausibili.

È la teoria degli universi paralleli che si dispiega poderosa da quell’unico tronco rappresentato dalle poche parole che compongono il micro-romanzo.

Alcuni esempi possono chiarire quanto detto.

“A Clichy, un ragazzo piuttosto elegante si è buttato sotto una vettura di piazza, rialzandosi illeso. Un attimo dopo si è fatto investire da un camion, che lo ha ucciso”.

L’ineluttabile forza del destino esplode nel camion che investe il ragazzo incapace di suicidarsi, restituendo al fato e non alla volontà del suicida il diritto di scegliere il dove, il come e il quando. Sorte davvero ingrata per chi, scegliendo in piena autonomia di uscire dalla vita, si vede sottratto quest’ultimo autonomo atto individuale, per essere prima deriso e poi accontentato ma sottomesso.

E poi quell’eleganza che rimanda non a un disperato, non a un diseredato ma, forse, a un bravo ragazzo di buona famiglia che, per insondabili motivi, decide di mettere fine alla propria vita ci fa scorrere un brivido lungo la schiena. Nessuno può sentirsi al riparo da un gesto così ultimativo se perfino quel ragazzo normale e in apparenza senza problemi decide di farlo.

È l’irrompere di un’attualità che ricorda molto i nostri giorni che talvolta si trova in questi piccoli oggetti letterari.

Come in questo duplice romanzo giudiziario.

“Baptistine Giraud, nota nei circoli galanti di Grenoble come “Titine”, è stata strangolata nel suo letto. Arrestato un militare, il soldato Gnafron”.

“Il riservista Montalbetti detto Gnafron nega nel modo più reciso di aver strangolato Titine Giraud, la bella di Grenoble”.

Come non pensare agli innumerevoli processi con indiziato speciale, che si professa innocente, senza prove che lo inchiodano alla sua responsabilità solo perché è il primo a cui si pensa, come nel caso di Garlasco?

Sembra poi che l’uso dei due soprannomi sia quasi una sottolineatura delle maschere che inevitabilmente i protagonisti del romanzo: vittima e designato colpevole, devono indossare per completare la farsa.

Talvolta l’attualità ha dei risvolti kafkiani.

“Il direttore dell’azienda tranviaria di Brest, che contravvenuto sessantatre volte alle disposizioni sul riposo, si è visto comminare sessantatre contravvenzioni da un franco”.

Alcuni “brevissimi” sembrano commentare quello che accade oggi.

“75.000 chili di melograne languiscono sui moli di Cerbere. Nel frattempo, 300 scaricatori in sciopero si agitano nelle strade”.

C’è anche l’ironia.

“Domenica uno sguattero di Nancy, Vital Frerotte, è morto per una sbadataggine. Era appena tornato da Lourdes, definitivamente guarito dalla tubercolosi”.

Ma quello che rende unici questi romanzi in tre righe è il totale coinvolgimento del lettore chiamato a essere coautore di queste composizioni in potenza.

Tutto ciò che è accennato offre a chi legge la possibilità di scegliere tra infiniti sceneggiature che, pur non scritte, vi sono contenute.

“Un cadavere a pelo d’acqua, trasportato dalla corrente. L’ha pescato un marinaio di Boulogne. Abito grigio perla, nessun documento, età apparente 65 anni”.

Un abbozzo che costringe il lettore a interrogarsi da dove provenga quel cadavere, su chi sia questo misterioso uomo senza nome, né documenti, con un elegante abito grigio perla. Sembra quasi l’ispirazione per “Quell’uomo in frac” canzone di Domenico Modugno costruita sulle stesse corde misteriose.

Come pure chiama in causa il lettore quest’altro romanzo.

“Ripescato alla diga di Meulan certo Martin personaggio misterioso assai. Sulla fronte, il tatuaggio di una stella”.

La formula Fénéon, come ci avverte la quarta di copertina, si condensa così: una riga per l’ambiente, una per la cronaca più o meno nera, una per l’epilogo a sorpresa.

Come a dire che i piatti squisiti si preparano con pochi ingredienti semplici ma amalgamati con estrema perizia.

Senza perizia l’insuccesso è sicuro, come sanno bene tutti gli estimatori del “cacio e pepe” che maledicono i maldestri improvvisati cuochi che tentano di assemblare spaghetti, pecorino e pepe con risultati quasi sempre grotteschi.

La copertina ci restituisce infine una delle rare foto di Fénéon con tuba, bastone e vestito grigio scuro. Una barbetta caprina gli contorna il mento, il portamento ha un contegno rigido e formale. Il sorriso che appena increspa le labbra è ineffabile, il suo sguardo, un po’ fisso, indecifrabile.

Sembra quasi un messaggio non scritto. Fénéon ci racconta quanto sia fondamentale il particolare, quanto quello che ci sembra scontato e privo d’interesse sia invece fondamentale per scoprire che dietro all’ovvio si sprofonda una voragine piena di significati.

Ogni morte, ogni omicidio, ogni assassino, ogni persona insignificante, se fotografati con un’istantanea che ritrae piattamente la fissità di quel solo momento, non ha senso.

Ma se soltanto si scava un po’ in quella fissa rappresentazione della realtà, si scopre che non c’è nulla di banale.

Ogni vita vissuta, nascosta nell’insignificanza dell’evento, ha una profonda ragion d’essere, giusta o sbagliata che sia.

E bastano poche righe per ricordarcelo, come del resto fece anche Simenon in quello splendido romanzo confessione “Lettera al mio giudice” in cui un omicidio passionale come tanti, acquista una luce tutta diversa se inquadrato nell’ottica di quella lettera-rivelazione.

Fénéon ci richiama alla nostra responsabilità, invitandoci, seguendo i fili nascosti che si dipanano nel non detto, a non essere superficiali e banali nelle nostre deduzioni. Solo allora, oltrepassata la soglia dell’ovvio, potremo finalmente “vedere”.