Il lavoro potrebbe essere “promosso” anche in Italia, repubblica che - dice la Costituzione - sul lavoro è fondata. Gli sarà (forse) riconosciuta quella funzione formativa della personalità che altri paesi europei (come Germania, Svizzera, Austria), al lavoro attribuiscono da tempo, considerandolo un’integrazione dello studio, non qualcosa di diverso, od opposto. Si discuterà, infatti, in Parlamento, in questi giorni, se aprire all’apprendistato l’ultimo anno di scuola dell’obbligo.
Abbiamo qui già descritto il disagio dei ragazzi, a volte respinti da una scuola percepita come astratta senza però poter accedere con dignità ad esperienze formative nel lavoro, finora loro vietate. È così cresciuto un esercito fantasma di 130 mila ragazzi fra i 14 e 16 anni, che non studiano e non lavorano. Giovani esposti dunque ad ogni rischio: dalla depressione, alla droga, alla microcriminalità, allo sfruttamento puro e semplice; come le cronache mostrano.

Questa popolazione giovanile potrebbe finalmente ricevere la formazione oggi più richiesta dalla società: uno studio finalizzato a un lavoro, con il sapere pratico richiesto dalle aziende, ma raramente ricevuto a scuola.
Bisognerà certo controllare con attenzione che non ci siano raggiri, e sfruttamenti. Diventerà possibile però affrontare una fetta di quel malessere giovanile che nasce in buona parte proprio dal sentirsi inutili e inadeguati, dunque “fuori posto” nella società.
Il benessere psicologico, infatti, è legato fin dai primi anni di vita al sentire che ciò che si fa ha un valore, e un senso. Per questo il bambino ama che si guardino e si apprezzino i giochi che fa: non perché è un “narcisista”, come lo definisce a volte un linguaggio che riduce la psicologia a classificazioni veloci, ma perché ha bisogno di sentire che quel gioco ha un senso ed è approvato anche dall’adulto che si sta occupando di lui. Quel modo di giocare diventa così un’esperienza sociale, e conferma la sicurezza e l’autostima del bambino. Quando, più tardi, il rapporto tra scuola e adolescente va in crisi, materie e insegnanti non riescono più a interessarlo, e d’altra parte loro non si interessano a ciò che invece potrebbe appassionare l’allievo.
Si apre così un problema grave: la formazione del ragazzo generalmente si arresta. E la crescita della personalità, oltre a rallentarsi, si stacca dalla società allargata, per accettare al massimo socialità parziali: il branco, la banda, il piccolo gruppo. O addirittura chiudere con ogni socialità reale, come gli Hikikomori, gli “accartocciati”, i ragazzi che si chiudono in camera.
Per evitare questi rischi, già da un secolo fa, le scienze dell’educazione hanno raccomandato di integrare precocemente la scuola col lavoro e attività fisiche e manuali, che mettano il ragazzo in condizione di farsi apprezzare anche per altro, oltre al pensare. Nei paesi anglosassoni con Dewey, in quelli europei con Ferrière, Maria Montessori, Rudolf Steiner (esperienze queste ultime due poi esportate in tutto il mondo), si è così cercato di unire pensiero e pratica, teoria e manualità, scuola e lavoro.
In Italia non è accaduto, anche per il suo ritardo nell’alfabetizzazione e nell’industrializzazione. Ora però la scuola è frequentata per fortuna da tutti, e deve garantire il diritto al lavoro di tutti, anche di chi non ha interesse (per ora) ad andare all’Università, ma a trovare un lavoro tecnico professionale (che del resto abbonda, e non trova candidati: 20 mila tecnici mancanti nella sola Lombardia).
Urge equilibrio tra formazioni teoriche e pratiche, come in Europa è moneta corrente.