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Il cuore: Luce e Spirito

di Chiara Casseler - 26/01/2010

 

“Il cuore è l’inverso (maqlûb) delle realtà contingenti,
nel senso che è il loro contrario: la sua luce è primordiale e divina (qadîm ilâhî)”[1].
L’Altissimo ha detto: «L’Uomo è il Mio segreto ed Io sono il suo segreto»[2].

Il nostro precedente intervento si concludeva con una menzione della natura spirituale dell’Unità, considerata in particolar modo nel suo significato iniziatico, come il raggiungimento del «centro del cerchio», ossia il centro del proprio essere, in cui tutti i contrasti e tutti gli opposti cessano di esistere, poiché sublimati nella loro comune origine superiore.

Tutto ciò ha luogo nel cuore dell’uomo: l’Unità ivi realizzata viene espressa, tradizionalmente, come Pace, dal momento che essa è il contrario della guerra, intesa come lotta opponente forze contrarie e contrastanti, che nel punto originale non hanno più modo di esistere[3].

La Presenza pacificante (Sakîna) nel cuore.
Un equivalente simbolico della Pace è, in questo senso, la Sakîna: il vocabolo designa la “Presenza divina, pacificante” e deriva dalla radice SKN che esprime, in arabo, le idee di “essere calmo; placarsi; stare tranquillo”. “Essere quieto” e “sentirsi sicuro” passano poi a significare, soprattutto nel contesto di una civiltà fortemente nomadizzata, come quella semitica, “abitare, risiedere in un luogo”. La Sakîna, che è l’esatto equivalente dell’ebraico shekinah, è la serenità, la trasformante pace interiore che deriva dalla presa di coscienza, fatta dal credente, dell’operante presenza di Dio nel suo cuore. Si tratta, evidentemente, di una presenza comune ad ogni essere, in quanto spirito e soffio vitale, poiché altrimenti la creatura non potrebbe nemmeno esistere, mancando in essa la sua propria ragion d’essere, il suo principio. È la stessa Rivelazione coranica a rammentarlo: “In verità Noi abbiamo creato l’uomo e Noi sappiamo ciò che la sua anima gli sussurra. Noi siamo più vicini a lui della sua stessa vena giugulare”[4]. Tuttavia nell’ordinaria condizione dell’esistenza mondana, l’uomo ne è dimentico, e questo stato d’oblio gli rende necessaria l’entrata nella Via (tarîqa) ed il percorso di realizzazione spirituale, affinché per mezzo della morte iniziatica (fanâ’) e dello svelamento intuitivo (kashf) l’uomo percepisca e gusti l’originaria realtà divina, di cui fino a quel momento era rimasto immemore.

Ecco dunque un passo in cui l’Unità e la Sakîna si presentano congiunte ed inequivocabilmente legate: “Allâh fece quindi scendere su di loro [cioè i cuori] la Presenza pacificante (sakîna) della Sua intimità (uns) e stabilì l’albero dell’Unità nei loro cuori, albero le cui radici scendono fino al settimo livello sotto di noi ed i cui rami si diffondono nei sette cieli sopra di noi, fino al Trono divino e forse più in alto ancora”[5].

L’albero rappresenta qui la realizzazione effettiva, nella costituzione spirituale umana, della natura di Servo e Vicario perfetto, in quanto l’Uomo Universale (al-insân al-kâmil) è il compendio dell’Universo intero, Cielo e Terra[6]. Più avanti, nello stesso testo di Jîlânî, si legge infatti: “L’uomo contiene tutto l’universo nel suo essere: è per questo motivo che viene chiamato l’essere sintetico (kawn jâmi‘), il microcosmo”[7].

Il legame di correlazione e, secondo una certa prospettiva, di identità tra la Sakîna e la Pace trova poi una sua conferma tradizionale grazie all’applicazione della scienza sacra delle lettere: il Nome divino che corrisponde a Sakîna è Sâkin, vale a dire «l’Abitante, Colui che risiede» nel cuore. Ebbene, il valore numerico di quest’ultimo termine, che è 131 (S + Â + K + N = 60 + 1 + 20 + 50 = 131), è lo stesso del Nome divino Salâm, «la Pace» (S + L + Â + M = 60 + 30 + 1 + 40 = 131)[8]: la Sakîna è, infatti, “una manifestazione circostanziata della Pace divina, mentre si identifica, rispetto agli uomini, alla «forza pacificatrice»”[9].

La Rivelazione coranica, inoltre, mette in stretta correlazione la discesa della divina Presenza pacificante nei cuori con la fede, anzi, con un aumento di fede: “Egli [cioè Dio] è Colui che fa discendere la Presenza pacificante (Sakîna) nei cuori dei fedeli (mu’minîn), affinché essi aumentino fede (îmânan) con fede”[10].

E la fede è “una luce divina (nûr ilâhî) che Dio getta nel cuore di chi Egli vuole fra i Suoi servi”[11], poiché in un versetto coranico è detto: “Così Noi ti rivelammo uno spirito, per Nostro ordine. Tu non sapevi cosa fosse il Libro né la Fede (îmân), ma noi l’abbiamo posta come una luce (nûran) con la quale guidiamo chi vogliamo fra i Nostri servi”[12].

Una volta di più è presente, negli sviluppi dottrinali relativi al cuore, il complesso simbolismo della luce, connessa con la Sakîna, con la Fede, con la Scienza[13] e, si vedrà meglio in seguito, con lo Spirito. L’aspetto luminoso di queste realtà viene, per così dire, rifratto dallo specchio lucidato del cuore: questo specchio è propriamente la superficie che riflette in maniera migliore e più perfetta la luce incidente che proviene dall’alto. Lo specchio non origina la luce, ma quanto più è tornito e polito, tanto più ne dà un riflesso forte e sfolgorante: è questa l’azione trasformante, nel cuore del Santo, della Luce divina, che è insieme Fede e Spirito.

La luce riverbera nello specchio del cuore, illimpidito grazie al dhikr ed al lavoro di purificazione interiore, sicché esso risulta perfettamente riflettente, ed è per questo che possiamo affermare che la Sakîna, in questo senso, è luce proveniente dalla Luce (si ricordi che al-Nûr, «la Luce», è uno dei Nomi dell’Essenza, asmâ’ al-dhât[14]), proiettata sul cuore, accolta da questo e da lui irradiante in ogni direzione. Si potrà dire anche in tutto l’universo, poiché l’Uomo Universale è il centro dell’Universo, ossia il Cuore del Mondo. Il centro dell’Uomo è il suo cuore, e il cuore contiene la Luce.

L’«occhio del cuore» (‘ayn al-qalb).

Il cuore non opera soltanto un’azione di riflessione della luce, bensì anche la percepisce, poiché possiede un occhio, chiamato appunto “occhio del cuore” (‘ayn al-qalb). Si tratta precisamente di un organo capace di percezione, poiché contiene in sé, in maniera connaturata, un elemento coessenziale all’oggetto percepito. Se non fosse così, non sarebbe di fatto possibile, da parte dell’occhio, avvertire la luce: in altre parole, se l’organo di senso e l’oggetto di questo medesimo senso fossero del tutto eterogenei, non avrebbero alcun aspetto in comune, dunque non vi sarebbe alcuna relazione possibile fra i due. Semplicemente, l’uno non potrebbe avere alcun sentore dell’altro.

È questo il principio irrinunciabile di qualsiasi gnoseologia tradizionale: “Il vero organo della vista non è il globo oculare, né la pupilla, e neppure la retina, ma un principio luminoso che risiede nell’occhio, ed entra in comunicazione con la luce emanata dagli oggetti esterni o da essi riflessa; [...]. Bisogna inoltre notare che il raggio luminoso mediante il quale si effettua la percezione visiva, e si estende tra l’occhio e l’oggetto percepito, può essere inteso nei due sensi, sia come se partisse dall’occhio per raggiungere l’oggetto, o, reciprocamente, come se provenisse dall’oggetto e procedesse verso la pupilla oculare”[15]. In totale conformità a quanto detto si esprime, infatti, Ibn ‘Arabî: “la luce non è percepita che dalla luce”[16] e “Sappi che la luce diffusa sulla terra, proveniente dall’irraggiamento del sole pervadente l’atmosfera, non possiede alcuna realtà ontologica che grazie alla luce della vista che percepisce. È per questa ragione che quando s’incontrano i due “occhi”, quello del sole e quello della vista, gli oggetti ne sono illuminati”[17].

Poiché l’intera realtà manifestata non è che un simbolo dell’autentica Realtà principiale, sarà sempre possibile e lecito trasporre l’ambito e la struttura di ogni elemento sensibile, in questo caso il senso della vista, nella sfera spirituale corrispondente, ossia l’occhio del cuore. “La trasposizione del simbolismo solare[18] dall’ordine cosmico a quello principiale ci è suggerita dall’evidenza stessa del versetto coranico della Luce: «Allâh è la luce dei cieli e della terra» (Cor., XXIV, 35)”[19].

L’occhio del cuore si apre[20] grazie ai mezzi operativi forniti dall’iniziazione e dalla realizzazione spirituale, simboleggiata dal viaggio, dal cammino (sulûk) interiore compiuto all’interno di sé stessi. L’esito ed il fine ultimo coincidono con la Conoscenza suprema e senza limiti, esperita e vissuta tramite il cuore e nel cuore, poiché esso è l’unico organo e ricettacolo capace di accogliere il Principio nella sua Assolutezza (itlâq)[21]. Ne consegue che “colui che conosce se stesso nella «verità» dell’«Essenza» eterna ed infinita, quegli conosce e possiede ogni cosa in se stesso e da se stesso, poiché è giunto a quello stato incondizionato che non lascia fuori di sé nessuna possibilità”[22]. A ciò si riferisce il famoso hadîth: “Colui che conosce se stesso conosce il suo Signore” (man ‘arafa nafsa-hu fa-qad ‘arafa Rabba-hu), “e tale conoscenza è ottenuta mediante quello che viene chiamato l’«occhio del cuore», il quale non è altro che l’intuizione intellettuale stessa”[23].

Tramite l’occhio segreto del suo cuore, dichiara Jîlânî, il credente vedrà la Verità divina; ciò si verifica grazie ad una sublime specie di digiuno, chiamato «digiuno della Verità» (sawm al-haqîqa), che consiste nel “prevenire il cuore dall’amare qualche cosa che non sia Allâh. Questo digiuno si attua rendendo l’occhio del cuore cieco a tutto quel che esiste, perfino ai mondi nascosti al di là di questo nostro mondo[24], ad esclusione dell’amore per Allâh”. Il premio finale di questa disciplina iniziatica sarà, come dono di grazia elargito da Dio al Suo servo amato, la Visione suprema: “Il mio cuore ha visto il mio Signore mediante la luce del mio Signore”[25], disse ‘Umar. Qualche secolo più tardi, al-Hallâj esclamerà estaticamente:

“Ho visto il mio Signore con l’occhio del mio cuore;

Gli ho chiesto: «chi sei?», m’ha detto: «tu»!”[26] .

È Dio stesso a garantire all’uomo la realizzazione di questa stazione spirituale, nel notissimo hadîth qudsî: “Affinché il Mio servo si avvicini a Me, nulla Mi è più gradito di quanto gli ho prescritto. Con le sue pratiche supererogatorie (nawâfil) egli si avvicina ancor più a Me, al punto che Io lo amo. E se Io lo amo, Io sono il suo orecchio con il quale egli sente, il suo occhio con il quale egli vede, la sua mano con la quale egli lavora e il suo piede con il quale egli cammina”[27]. È per tale ragione che Ibn ‘Arabî può scrivere: «Nessuno Lo percepisce se non Lui! Dunque io Lo vedo – Gloria a Lui! – mediante il Suo Occhio, come nel detto profetico: “Io divengo l’occhio con cui egli vede”», poiché «Egli è Luce e la luce non è percepita che dalla luce, quindi non è percepita che da Lui»[28].

La Luce.

Ghazâlî argomenta, da parte sua, che in realtà “l’intelletto” -inteso come la facoltà sovrarazionale che ha sede nel cuore- “più che l’occhio esterno, sarebbe da chiamarsi «luce»”[29]: il cuore purificato e puro diviene esso stesso, per così dire, “tutto luce”, sicché più volte si potranno leggere affermazioni come quella di Jîlî: “il cuore è la luce eterna (al-nûr al-azalî)”[30].

Queste parole ci richiamano immediatamente al noto e già citato versetto coranico detto “della luce”[31]: “Dio è la Luce dei cieli e della terra. Il Simbolo della Sua luce è quello di una nicchia in cui sta una lampada, la lampada sta in un vetro, il vetro è come una stella lucente, accesa all’olio di un Albero benedetto, un olivo che non è d’Oriente né di Occidente; olio che quasi splende anche se il fuoco non lo tocchi, Luce su luce: Dio guida verso la Sua Luce chi vuole e propone similitudini agli uomini, e Dio è di ogni cosa Sapiente”[32].

Si tratta qui di un contesto che illustra, attraverso similitudini (amthâl, in arabo), vale a dire espressioni allegoriche, una complessa realtà simbolica, come si può comprendere facilmente, secondo quanto si afferma in modo esplicito nell’ultima parte del versetto: “E [Dio] propone similitudini agli uomini”, che riguardano l’intero cosmo. Ghazâlî così commenta: “Non vi è nulla in questo basso mondo che non sia l’immagine di una cosa del mondo superiore”[33]. Le stesse immagini presenti nel versetto sono suscettibili di una pluralità di interpretazioni ed applicazioni dottrinali: le une non escludono le altre, ma anzi si completano e si arricchiscono a vicenda, in una pluralità di punti di vista tutti ugualmente validi e legittimi[34].

Tutto ciò si applica anche a proposito del versetto “della luce”, oggetto di molteplici approccî esegetici nell’opera di Ibn ‘Arabî: “la ricchezza del suo [del versetto, N.d.T.] contenuto permette al commentatore di accostarvisi secondo diversi punti di vista, metafisico, cosmologico, iniziatico”[35].

Più precisamente, secondo una prospettiva interpretativa, il vetro o cristallo (zujâj) rappresenta il cuore che si trova all’interno della nicchia (mishkât), immagine del corpo umano. La natura del cuore, diafana ed irraggiante insieme, è analoga a quella del vetro. Se la trasparenza propria di quest’ultimo è un’immagine del cuore che accoglie e riflette nella maniera più perfetta la luce, subito dopo, nel versetto coranico, vi è la menzione di una stella lucente (kawkab durrî)[36], quindi irraggiante, alla quale il vetro, a motivo della sua estrema luminosità, deve essere assimilato. Ciò corrisponde a quanto detto poco sopra, a proposito della natura irraggiante (quindi in un certo senso “attiva”) del cuore stesso, o meglio dell’occhio del cuore, che contiene la luce, perciò può spanderla, e quindi non si limita a rifletterla passivamente.

Il cristallo contiene al suo interno una lampada, in arabo misbâh, che designa precisamente la lucerna, lo strumento con cui si fa luce: essa raffigura, per eccellenza, lo Spirito[37]. Ed ecco la spiegazione di questo versetto fornita, brevemente, da Jîlânî: “La ‘nicchia’ sta a simboleggiare il cuore del credente; la ‘lampada’ che la rischiara è il segreto del centro del cuore, mentre la luce che essa emana è il segreto divino, lo ‘spirito sovrano’. Il vetro è trasparente e non trattiene la luce, piuttosto la protegge e le permette di diffondersi, ed è per questa ragione che viene paragonato ad una stella. La fonte della luce è un albero divino. Quell’albero è lo stato dell’Unità (al-tawhîd al-khâss)[38] che si estende con i suoi rami e le sue radici, diffondendo i princìpi della fede, comunicando, senza intermediario alcuno, nella lingua della santità (lisân al-quds)”[39].

Secondo i principî ermeneutici applicati da Ibn ‘Arabî, “al livello dell’individuo, l’aspetto di cavità della nicchia ne fa l’immagine del cuore illuminato dalla scienza divina che procura la fede[40]. In una interpretazione più precisa, essa designa l’involucro esterno del cuore che essa ripara dal soffio delle passioni (maqâm al-sitr min al-ahwâ’). Il vetro è allora il simbolo del cuore che ha ottenuto la stazione della purezza (maqâm al-safâ’)”[41]. Maggiore è la sua trasparenza, maggiore è la sua somiglianza alla luce stessa[42].

Analogamente, secondo questa visione dottrinale, l’olivo che non è né orientale né occidentale rappresenta il Conoscitore (al-‘ârif) “giunto alla stazione suprema che è infatti un’assenza di stazione o una trascendenza rispetto ad ogni qualificazione secondo un qualunque stato”[43].

Lo Spirito e la Luce.

Questo versetto ci introduce ad una delle espressioni metafisiche più pregnanti ed imprescindibili dell’intero Tasawwuf, vale a dire l’assimilazione essenziale di Luce e Spirito, la prima essendo un equivalente simbolico del secondo. Le seguenti parole di Guénon chiariscono brillantemente il rapporto fra queste due realtà e la loro relazione, nell’aspetto macrocosmico, con l’Uomo Universale che è il vero Cuore del Mondo, secondo un’applicazione “cosmica” del valore simbolico del cuore: “la Luce intelligibile è l’essenza (dhât) dello «Spirito» (Er-Rûh), e quest’ultimo, quand’è inteso in senso universale, si identifica con la Luce stessa; è per questa ragione che le espressioni En-Nûr el-Muhammadî e Er-Rûh el-muhammadiyah[44] sono equivalenti, poiché sia l’una sia l’altra indicano la forma principiale e totale dell’«Uomo Universale», il quale è awwalu khalqi’Llah, «il primo della creazione divina». È il vero «Cuore del Mondo»[45] […], «Cuore dei cuori e Spirito degli Spiriti» (Qalbul-qulûbi wa Rûhul-arwâh)”[46].

Come già ricordato, al-Nûr, «la Luce» è un Nome divino, ed è un Attributo essenziale del Principio; ora, “essendo la luminosità di ordine essenziale in rapporto alla luce (al-diyâ’ li-l-nûr dhâtî), il suo Reame (mulk al-diyâ’) è quello dei Nomi divini, in quanto essi costituiscono la luminosità dell’Essenza”[47]. Perché l’Essenza suprema è in se stessa al di là di qualsiasi manifestazione o conoscenza possibile, ed è soltanto attraverso i Suoi innumerevoli Nomi che essa si manifesta e può essere conosciuta. Dato che la prima determinazione dell’Essenza, rispetto al mondo manifestato, è costituita dalla Funzione di Divinità (ulûhiyya)[48], quest’ultima rappresenta la stessa essenza della luminosità. Così si esprime Ibn ‘Arabî in proposito: “(Allâh) «ha fatto del sole una luminosità» (ossia una luce diffusa)»[49], grazie alla presenza dello Spirito vitale [rûh] in tutto il cosmo, e mediante la Vita [hayât] ha manifestato la Misericordia [rahma] al mondo (intero), poiché la Vita è la sfera della Misericordia che è più vasta [wasi‘at] di ogni cosa”[50]. […] Essa è la Misericordia essenziale (al-rahmat al-dhâtiyya) più vasta di tutti i Nomi, ed è la luminosità della Luce dell’Essenza (diyâ’ nûr al-dhâtî)”[51].

Il Trono e la Misericordia.

Lo Shaykh al-Akbar ci suggerisce, grazie a queste parole, un sentiero dottrinale che conduce, per più parti, dal cuore alla Misericordia, per ritornare, in qualche modo, al cuore stesso: si rammenti il detto profetico secondo cui “i cuori dei figli di Adamo si trovano tra le due dita del Misericordioso. Egli li rivolta come vuole”[52]. Ora, al-Rahmân, il Misericordioso, è il Nome divino corrispettivo della rahma, la qualità essenziale della Misericordia.

Un altro hadîth, poi, dichiara: “Il cuore del credente è il trono (‘arsh) di Allâh”[53], che Ghazâlî così interpreta: “la forma del cuore per quanto riguarda il governo umano è come quella del Trono”[54]. Ma il trono di Allâh non è altro che il trono del Misericordioso, secondo il versetto divino che suggerisce un’equivalenza Allâh – al-Rahmân: “Invocatelo come Allâh (Iddio) o invocatelo come Al-Rahmân (il Misericordioso), comunque lo invochiate, a Lui appartengono i Nomi più belli”[55].

Secondo l’astronomia tradizionale, il Trono è l’ultima delle nove sfere che circondano quella centrale della Terra, è la sfera suprema; la sua sfericità è però una forma puramente simbolica, poiché serve a designare, in conformità ai limiti del linguaggio umano, “il passaggio dall’astronomia alla cosmologia integrale e metafisica”[56]. Il Trono è infatti “il simbolo della manifestazione universale considerata nel suo dispiegamento totale, che comporta l’equilibrio e l’armonia”[57], come si può dire che lo Spirito (al-Rûh) “si identifica in certo modo con il «Trono» stesso, dato che quest’ultimo, circondando e avvolgendo tutti i mondi (da cui l’epiteto el-Muhît)[58], viene a coincidere con la «circonferenza prima»”[59]. Quest’ultima “delimita ed avvolge l’ambito dell’Esistenza universale” e “d’altronde, considerata simultaneamente in tutte le direzioni possibili, è un realtà una sfera, la forma primordiale e totale dalla quale nasceranno per differenziazione tutte le forme particolari”[60].

Ora, la Rivelazione coranica esprime a chiare lettere come il Trono sia la dimora dell’“assise” di al-Rahmân: “Il Misericordioso s’è assiso (istawà) sul Trono”[61]. Questo Nome divino ha un significato prettamente ontologico, e si rapporta in modo particolare alla manifestazione di questo mondo[62], come si può leggere nella sura che ha per titolo questo Nome: “Al-Rahmân ha insegnato il Corano e ha creato l’Uomo”[63]. Recita poi un altro versetto: “Colui che ha creato i Cieli e la Terra e ciò che essi contengono in sei giorni, poi s’assise sul Trono: al-Rahmân[64]. L’assise sul Trono avviene in seguito alla menzione della creazione in sei giorni, dal momento che “i sei giorni simboleggiano le sei fasi del tempo, che corrispondono alle sei direzioni dello spazio, mentre il trono di ar-Rahmân rappresenta il «Cuore del Mondo»”[65]. Dal punto di vista macrocosmico, il Trono non è altro che il punto centrale e principiale della sfera dell’Essere, che si espande indefinitamente secondo le sei direzioni dello spazio; ed è a ciò che si riferiscono le parole di Guénon: “siccome […] le direzioni dell’estensione ricoprono tutte lo stesso ruolo, l’espandersi che si effettua a partire dal centro può venir considerato sferico, o per meglio dire sferoidale: il volume totale, come da noi già indicato, è uno sferoide che si estende indefinitamente in tutti i sensi”[66].

Nell’esoterismo islamico questa realtà viene designata specificamente dal termine tasha‘‘ub che identifica il «movimento (di ramificazione) in tutte le direzioni», a partire dal punto centrale, di una serie indefinita di raggî o rami, chiamati shu‘ab, dalla medesima radice[67].

In una prospettiva simbolica relativa allo spazio, viene dunque ribadito il valore della centralità del cuore, come punto di origine (e di riassorbimento finale) dello sferoide indefinito, mentre dall’altro lato viene riaffermato il simbolismo luminoso del cuore, a motivo del suo irraggiamento, che poi è anche irradiazione, secondo le direttive delle sei direzioni spaziali[68].

Per quanto riguarda la natura del Trono, le sue designazioni esoteriche sono molteplici, ma variamente equivalenti, poiché ognuna di esse implica un diverso riferimento metafisico. Ciò rende impossibile, al momento, una trattazione che vada oltre la loro mera elencazione[69]: diremo soltanto che si parla del Trono della Vita (‘arsh al-hayât), poiché in un versetto viene detto che “il Trono era presente nell’Acqua”[70] e l’acqua è, tradizionalmente, la radice di ogni forma di vita[71]; e ancora, di Trono dell’Ipseità (‘arsh al-huwiyya), che è un equivalente dell’Essenza suprema. Ed  il Trono dell’Essenza suprema (‘arsh al-Dhât), secondo Abû Tâlib al-Makkî, altro non è che la Volontà divina (mashî’a)[72], vale a dire quella che viene altrimenti chiamata, negli scritti guenoniani, “Possibilità universale” ovvero “perfezione passiva”[73]. Più precisamente, si può affermare che la mashî’a sia l’Essenza suprema considerata secondo il suo aspetto passivo, come “origine di tutte le limitazioni” e “principio ultimo i condizionamenti considerati in quanto possibili”[74].

Tornando al livello cosmologico, quanto detto sulla passività della mashî’a non può non esser messo in correlazione con il medesimo carattere passivo attribuito al Rûh, identificato al Trono stesso: “Questo carattere di passività è effettivamente inerente al doppio ruolo di «strumento» e di «luogo» universale […][75]; così, in arabo er-Rûh è una parola femminile”[76].

L’istmo (barzakh).

La citazione delle righe precedenti continua illustrando la doppia natura dello Spirito, attivo e passivo ad un tempo, dal momento che esso è passivo rispetto alla Verità divina (al-Haqq), ma attivo rispetto alla creazione (al-khalq). Il Trono è il limite estremo fra l’una e l’altra, è insieme il loro punto di contatto ed il loro punto di separazione, ciò che nel Tasawwuf  si definisce barzakh, vale a dire la realtà intermedia, l’istmo che divide e separa, ma allo stesso tempo unisce e sintetizza i due estremi. La derivazione di questo termine è coranica: “(Iddio) ha dato libero corso ai due mari, uno dolce e fresco, l’altro salato e amaro, e ha posto fra i due un istmo (barzakhan) ed un limite invalicabile”[77] e ancora “Egli ha lasciato libero corso ai due mari, perché s’incontrassero, e fra di loro v’è una barriera (barzakh) che essi non oltrepassano”[78]. I due mari, lo accenniamo soltanto, rappresentano il mondo dell’anima ed il mondo dello Spirito, il cui punto d’incontro è, simbolicamente, il luogo in cui si trova la «Fontana di Vita»[79].

Il Trono è il barzakh per eccellenza, poiché è il termine divisorio “attraverso cui la creazione è separata dal suo Principio divino e al tempo stesso gli è unita, a seconda del punto di vista dal quale la si considera”[80]. Trasposto nell’ambito microcosmico, il barzakh per eccellenza è il cuore, come ci fa capire al-Tadilî: “Tutti i barâzikh [gli istmi, plurale di barzakh] dell’uomo dipendono dal suo barzakh centrale, che è il cuore (qalb), mediatore fra i domini dello Spirito (Rûh) e dell’anima individuale (nafs)”[81]. Il punto più interno del cuore è il punto di contatto con il Divino[82], supporto misterioso e nascosto della Presenza divina, la Sakîna, poiché “l’azione divina si esercita sempre dall’interno, e per questo essa non colpisce lo sguardo, volto necessariamente verso le cose esterne”[83].

Nella prospettiva iniziatica, attraverso la realizzazione spirituale, l’uomo si fa poi “tutto cuore”, potremmo audacemente dire, poiché egli attua in se stesso la sua natura di epitome dell’Universo e di Vicario divino, ossia di barzakh microcosmico: “[Dio l’Altissimo] mise [nell’uomo] una Copia di tutto il Mondo, per cui non vi fu realtà nel mondo senza che si trovasse [anche] nell’Uomo: la Parola Totalizzante, il Nobile Compendio (al-mukhtasar al-sharîf)”[84].

Se il barzakh è la realtà mediana che unisce tutti gli estremi altrimenti incompatibili, ciò significa che il cuore, il barzakh dell’Uomo Universale effettivamente realizzato, è il punto centrale che sintetizza ogni cosa, comprendendola in sé in maniera compendiosa ed essenziale.

Il cuore contiene ogni cosa.

Ciò vuol dire che in una ancora ulteriore prospettiva, il cuore non solo è il Trono, bensì lo contiene e quest’ultimo “sparisce” di fronte alla divina vastità dal cuore abbracciata. Ibn ‘Arabî, nei Fusûs al-hikam, nel corso del capitolo su Shu‘ayb[85], cita in proposito un detto di Abû Yazîd al-Bistâmî: “Se il Trono e ciò che contiene si trovassero cento milioni di volte in un angolo del cuore del Conoscitore, egli non li percepirebbe”, e commenta: “Un cuore che è capace (yasi‘u)[86] dell’Eterno, come potrebbe percepire l’esistenza prodotta del contingente?”[87]. Non v’è, infatti, possibile comune misura fra i due. È quanto afferma Guénon, nell’ottica specifica della realizzazione spirituale: “non vi è d’altronde alcuna possibilità di paragone fra uno stato particolare, per elevato che sia, e lo stato totale ed incondizionato; non bisogna mai dimenticare che, rapportata all’Infinito[88], tutta la manifestazione[89] è rigorosamente nulla”[90].

La medesima esperienza iniziatica viene espressa da Al-Hallâj, nel linguaggio del suo personale gusto spirituale:

“Mi stupisco di come il mio tutto riesca a regger la mia Parte:

essa è così pesante che la terra non la sopporterebbe.

Se anche si espandesse, per tutto l’orbe estendendosi,

quella distesa nel mio pugno rimarrebbe racchiusa”[91].

Ed in altri versi canta:

“Ti fa posto il mio cuore tutto intero,

lì non c’è spazio per cosa creata.

Tra la pelle e le ossa Ti trattengo,

che ne sarà di me se mai Ti perdo?”[92].

Lo scrigno ed il tempio.

Tutto ciò è possibile poiché lo Spirito risiede nel cuore, il quale ne è il tempio, vale a dire un ricettacolo, un supporto esteriore della Presenza divina. Quest’idea tradizionale viene espressa in ambito islamico dal termine tâbût, “cofano, scrigno”, che designa sia l’Arca dell’Alleanza, che eminentemente contiene la Sakîna[93], sia la cesta in cui viene posto Mosè bambino[94].

A proposito dei rapporti fra il barzakh ed il tâbût, considerati come due differenti modalità funzionali e significative del cuore, bisogna senz’altro notare come i due siano per lo meno ravvicinabili, poiché i loro valore numerico è il medesimo, e ciò implica -nel contesto dottrinale della Scienza delle Lettere- una qualche sostanziale identità fra i due termini, almeno ad un certo livello: infatti, B + R + Z + KH = 2 + 200 + 7 + 600 = 809  e T + Â + B + W + T = 400 + 1 + 2 + 6 + 400 = 809.

Il centro che è sede della Sakîna è “il luogo della manifestazione divina, sempre rappresentata come «Luce»”[95] e può essere costituito da un tempio o da un tabernacolo, detto in arabo mishkât, «nicchia», in ogni caso rappresentazioni sensibili della funzione reale del cuore dell’Uomo, con il quale sono in stretta ed esplicita correlazione[96]: “si tratta sempre, in fasi diverse della manifestazione ciclica, del Pardes, il centro di questo mondo, che il simbolismo tradizionale di tutti i popoli paragona al cuore, centro dell’essere e «residenza divina» (Brahma-pura nella dottrina indù), come il Tabernacolo che ne è l’immagine e che perciò è detto in ebraico mishkan o «abitacolo di Dio», parola la cui radice è la stessa di Shekinah[97].

Analogamente, nella tradizione indù, la Città divina, è questo il significato di Brahma-pura, designa il centro dell’essere, rappresentato dal cuore: essa è la residenza di Purusha, vale a dire il Principio divino in quanto reggitore di tutto l’insieme dell’essere e delle sue facoltà. Queste ultime, assieme alle funzioni vitali, sono paragonate ai sudditi del re, che risiede nel tempio-palazzo al centro della città