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Aderire alle cose sino in fondo per trascenderle e poter levare gli occhi verso il Cielo

di Francesco Lamendola - 31/01/2010

 

Siamo fatti per guardare verso l’alto, verso il Cielo; ma per poter contemplare il Cielo, il nostro sguardo deve passare attraverso la Terra.
Chiunque non sappia guardare alla Terra con amore e gratitudine; chiunque non sappia vedere e apprezzare le mille e mille cose di ogni giorno con la stessa freschezza e con la stessa innocenza con cui le scoprì, bambino, per la prima volta, non è degno di levare lo sguardo verso le altezze e, se anche lo facesse, non vedrebbe nulla, assolutamente nulla.
Questa è stata, fra l’altro, la grande, sublime lezione di Vincent Van Gogh, il genio della pittura che volle farsi uomo tra gli uomini, ultimo tra gli ultimi, per poter aderire più a fondo alle cose, nell’arte così come nella vita. Una delle sue opere meno famose e forse meno apprezzate, ma certamente più vere e commoventi, rappresenta, puramente e semplicemente, un paio di grosse scarpe da lavoratore posate in terra: brutte, sporche, consumate dall’uso.
Nessun mazzo di fiori, nessun paesaggio ridente e nessun soave volto di fanciulla hanno mai raggiunto l’intensità e la dolorosa verità di quel paio di scarponi scalcagnati, di quelle logore calzature senza fama e senza gloria, destinate all’anonima fatica quotidiana della vita e del lavoro. Esse, da sole, costituiscono un intero poema e dicono più cose di quante ne potrebbe dire una intera pinacoteca o una intera biblioteca. Esse parlano il linguaggio aspro e senza fronzoli della verità, il linguaggio delle cose di ogni giorno.
Così, per poter alzare lo sguardo verso il Cielo e contemplare l’assoluto, bisogna prima passare attraverso l’impermanente, aderire alle cose e imparare ad amarle; ad amarle non a dispetto della loro fragilità e imperfezione, ma proprio per la loro fragilità e imperfezione. Non esistono altre strade che conducano oltre di esse, se non quelle che vi passano attraverso e che le sanno comprendere sino in fondo.
Questo concetto è espresso in maniera esemplare in una delle ultime pagine di un capolavoro poco conosciuto della letteratura mitteleuropea (diciamo mitteleuropea e non “tedesca” perché l’Autore è un austriaco nato in Bucovina, quand’essa era ancora una provincia dell’Impero asburgico): «Un ermellino a Cernopol» di Gregor von Rezzori (titolo originale: «Ein Hermelin in Tschernopol», Hamburg, 1958; traduzione di Gilberto Forti, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1962, 1979, pp. 376-377):

«Forse lui non amava le brutte mani sciupate di lei, i suoi gesti barbarici, la peluria che sulle braccia tradiva un’origine oscura?  Non che fosse disposto a perdonarle questi difetti perché la amava. Amava proprio questi difetti, erano i difetti ad offrirgli lan ragazza, a metterla in sua balia. Lui non la amava nonostante tutto, ma appunto perché era quella che erra e come era. Doveva dunque amare anche ciò che essa chiamava la “sua professione”? No. Ma il modo in cui la esercitava. Amava il coraggio con cui professava di essere quella che era.
Il fatto stesso che lei ne parlasse come della “sua professione” era bello. La innalzava al di sopra della sua spregevole attività. E fino a che punto, poi, questa professione era davvero spregevole? Più spregevole, ad esempio, di quella dei professionisti dell’omicidio, riconoscibili agli occhi di tutti per via di un costume chiamato “divisa dell’onore”? Era una questione di punti di vista. Certo lui, Tildy, era più pronto che mai a vendicare nel sangue il minimo segno di disprezzo per la sua professione; e sperava, anzi era certo, che lei fosse pronta a battersi per la sua.
Capì di essere stato sciocco e poco cavaliere quando aveva voluto impedirle di decidere liberamente se andare o no con l’altro uomo. Credette di capire che l’avrebbe rispettata meno e l’avrebbe ritenuta meno degna di lui se fosse rimasta seduta al tavolo quando lui aveva tentato di farla rimanere con la forza. Andare con gli uomini era la sua professione, e dunque era suo dovere farlo. Il suo onore doveva impedirle di rimanere. La violenza con la quale aveva sottratto il braccio alla stretta di lui corrispondeva alla violenza con la quale lui stesso avrebbe sottratto il braccio alla stretta di lei se la ragazza avesse tentato di impedirgli di fare il dovere che il suo onore gl’imponeva. Egli l’amava per questa durezza.  Era degna di lui, era una sua pari.»

Lui è un maggiore dell’esercito austriaco, abituato a una rigida disciplina e ad un senso del dovere senza compromessi, e che per amore di lei si è fatto espellere e non prova rimpianti, perché finalmente ha trovato l’amore. Lei è una prostituta ucraina di Cernopol, la capitale della Bucovina, una professionista del piacere che non cerca di farsi passare per qualche cosa d’altro. In quella società ipocrita e perbenista, il maggiore Tildy, che sfida tutti a duello per difendere l’onore della sua donna e che muore assurdamente sotto le rotaie del tram, è un vero “ermellino”, un essere candido nel suo intransigente senso dell’onore, incapace di adattarsi ai compromessi e alla doppia morale dei suoi colleghi e dei suoi concittadini.
Tildy è un uomo grande. Anche se, in lui, l’Autore ha voluto rappresentare l’impossibilità di essere qualcuno al di fuori delle maschere e uscire dal Limbo (per dirla con Robert Musil) degli “uomini senza qualità”, la sua figura adamantina emerge di molte misura al di sopra della mediocrità circostante e fa apparire piccoli tutti gli altri.
In un certo senso (e se è lecito il paragone fra un personaggio e una persona), egli è anche più grande di Van Gogh: perché , mentre quest’ultimo prende con sé una prostituta allo scopo di redimerla, Tildy la prende perché la ama così com’è, e non a dispetto di quello che è; e perché vede non quello che potrebbe esservi di amabile in lei, ma quello che è amabile già ora. Non che ami il mestiere della ragazza: ma rispetta profondamente il modo in cui vi si cala, vale a dire con perfetta onestà intellettuale. Senza scusanti, senza falsità.
Riconosce, in lei, un suo pari: qualcuno che si può stimare, oltre che amare. E questo in un’epoca e in un ambiente sociale in cui il massimo che una donna, per non dire una prostituta, potesse aspettarsi dall’uomo, era una condiscendenza mista a sufficienza o, per un altro verso, un ardente desiderio sensuale, ma del tutto disgiunto da stima e rispetto in quanto persona, al di là della differenza di genere.
Ecco, questo è certamente un esempio significativo di quel che intendiamo allorché affermiamo che bisogna imparare ad aderire alle cose sino in fondo, ad amarle per se stesse, come fini e non come mezzi (mentre l’etica kantiana limita questo atteggiamento al solo rapporto fra gli esseri umani ed esclude tutto il resto del creato) per poterle poi trascendere e farsene un trampolino verso l’alto. Per poter guardare il Sole, bisogna prima sapere vedere il fiore che si protende verso di esso. Per poter scorgere la bellezza spirituale, bisogna prima saper apprezzare la poesia di un vecchio paio di scarpe o di un paio di mani femminili brutte e sciupate.
Un uomo che non sa apprezzare un paio di brutte e sciupate mani femminili, ma solo fattezze angeliche e crini dorati, non è un vero uomo, ma un meschino cicisbeo. Una persona che non sappia apprezzare la bellezza di un paio di scarponi consumati dall’uso, ma soltanto calzature verniciate ed eleganti, è soltanto un fatuo damerino; e, se parla della poesia, non è che un impostore e un ciarlatano, perché ignora che in cosa essa realmente consista.
Diceva Simonide che l’aspetto esteriore delle cose violenta anche la verità: frase di una saggezza abissale, che dovrebbe essere meditata e rimeditata almeno quattro volte al giorno da ogni essere umano degno di questo nome. È come dire che fermarsi all’aspetto puramente esteriore delle cose ci impedisce di coglierne l’intimo segreto, il cuore nascosto, che si rivelano solo a chi sappia aprire gli occhi alla vista interiore. Tildy sapeva vedere la bellezza di quell’anima di donna anche oltre le sue mani brutte e screpolate; ma non come se quelle screpolature non ci fossero state, bensì proprio attraverso di esse.
Egli aveva compreso il mistero di quella pregnanza e di quella concretezza che derivano dall’adesione grata ed incondizionata alle cose.
Si dice che, prima di scegliere la via dell’eremita, Buddha era un uomo felice: un principe, un uomo sposato che aveva gustato anche la gioia della paternità. Chi non ha conosciuto bene il mondo, non può imparare ad amare il Cielo: perché il trampolino per spiccare il grande balzo verso il Cielo è proprio questa nostra Terra, con tutte le sue luci e le sue ombre.
Chiamiamo onestà intellettuale la capacità di riconoscere i segni celesti già qui, nella dimensione terrena; l’attitudine ad amare ed accogliere le cose di ogni giorno, non in virtù della loro mediocrità, ma perché quella mediocrità è solamente l’abito esteriore di un mistero luminoso, di cui esse sono annunziatrici.
«Come sono belli, sui monti, i piedi del messaggero di pace, che annuncia la salvezza; del messaggero di bene, che annuncia liete novelle», esclama con estatico trasporto il Libro di Isaia, uno dei testi poetici più straordinari di ogni tempo. Eppure, i piedi del viandante che percorre un sentiero di montagna non saranno stati belli, ma impolverati e coperti di ferite e cicatrici; e nondimeno, quanta bellezza in essi, in essi che si affrettano instancabili, per recare agli uomini la più meravigliosa delle notizie: che finalmente è giunta la pace!
Ecco: noi dovremmo imparare a vedere in ogni ente che incontriamo nella vita, in ogni volto, in ogni luogo, in ogni oggetto, la poesia infinita di ciò di cui essi sono un’immagine; quella scintilla d’infinito e di eterno, quella struggente nostalgia di pace e di splendore, che ci accompagna fin dall’inizio del nostro pellegrinaggio terreno.
Per questo siamo venuti qui, per questo percorriamo le strade del mondo: per riconoscervi la nostra stessa origine celeste, la dimensione splendente e perenne dell’Essere, dal quale veniamo e al quale siamo destinati a fare ritorno. «Non è forse scritto nella vostra legge: Io ho detto: voi siete dei?», dice a chiare lettere Gesù Cristo, rivolgendosi ai suoi discepoli (Vangelo di Giovanni, 10, 34). In ciascuno di noi vi è una scintilla divina; in ogni cosa: anche in un paio di scarponi rozzi e consumati, che hanno fatto tanta strada e raccolto tanta polvere.
Non siamo qui in gita di piacere, né per rotolarci nel fango, ma per scoprire e ricordarci la nostra origine celeste. Siamo fatti di luce, anche se avvolti in densi strati d’ombra. Dobbiamo imparare il segreto di liberarci dell’ombra e riportare in vista la luce di cui siamo depositari e che può indicare la strada a molti altri viandanti un po’ smarriti.
Ma, per farlo, dobbiamo liberarci da ogni forma di disdegno, da ogni superbia intellettuale. Dobbiamo liberarci dai nostri assurdi complessi di superiorità - e anche da quelli di inferiorità, che sono l’altra faccia dello stesso atteggiamento verso la vita e verso noi stessi, fondamentalmente sbagliato.
Noi siamo preziosi; noi dobbiamo un maggiore rispetto a noi stessi. E sono preziose le cose che ci circondano; tutte. Ciascuna di esse, se sappiamo vedere, ha qualcosa da aggiungere alla bellezza del mondo e alla nostra comprensione della vita. Ciascuna di esse è scritta in duplici caratteri; ma le persone superficiali si accontentano di leggere quelli più evidenti. Solo pochi sanno andare oltre e distinguere i caratteri misteriosi, enigmatici, che tuttavia rimandano all’essenza profonda e all’intima verità di ogni cosa.
Siamo diventati analfabeti; dobbiamo reimparare a leggere, con umiltà, apertura e rispetto per il grande libro che ci sta aperto davanti agli occhi. Esso non è stato scritto a caso da una mano distratta e capricciosa; ma ogni singola parola, ogni singola lettera contribuiscono all’armonia stupenda dell’intero poema.
Noi stessi siamo una lettera di quel divino poema; noi stessi siamo stati scelti con cura e siamo stati chiamati con amore. Abbiamo risposto di sì, in un tempo di cui non abbiamo più memoria; e quel sì ci accompagna, come un viatico, sulle strade nel mondo, e ci sostiene nei momenti di maggiore difficoltà, quando siamo sul punto di piegarci sotto il peso della fatica.
Non siamo soli.
Un compagno silenzioso ci sta accanto, ci conforta, si prende cura di noi anche quando non lo vediamo, anche se non lo sappiamo. Le nostre scarpe sono sempre più consunte e impolverate, ma ogni passo che facciamo ci avvicina alla nostra meta luminosa, alla dimora dell’Essere.