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Agostino e noi

di Franco Cardini - 31/01/2010

La TV e la Lux Vide ci propone una fiction su sant’Agostino. Ho già espresso il mio parere su tale prodotto sull’ultimo numero di gennaio del settimanale “Panorama “ e non vorrei ripetermi. Ma una breve considerazione su Agostino potrebbe non essere inopportuna. Basta un confronto per far capire chi e dove eravamo un tempo, chi e dove siamo adesso.

Nel 2001, New York e Washington furono colpiti da due attentati sui quali stiamo ancora aspettando che sia fatta piena luce. In quell’occasione, il presidente degli Stati Uniti d’America, Gorge W. Bush jr., pronunziò quasi immediatamente una disorientata dichiarazione, nella quale egli si chiedeva come potevano, un popolo e una nazione tanto virtuosa e che tanto aveva fatto per il progresso e la felicità del mondo, essere oggetto innocente di una tale furia fanatica e assassina.

Nel 410 i visigoti del re Alarico, i quali erano pure cristiani (sia pur seguaci dell’eresia di Ario), in notevole misura romanizzati e alleati dell’impero, violarono per la prima volta il sacro Pomerium dell’Urbe. Dinanzi alla prima invasione di Roma dopo circa sette secoli, dai tempi dei galli di Brenno, Aurelio Agostino, da quindici anni prete e vescovo di Ippona, mise mano a uno dei suoi capolavori, il De civitate Dei, chiedendosi – da vescovo cristiano e da cittadino romano – in che cosa l’impero, ormai da quasi vent’anni ufficialmente divenuto cristiano, avesse potuto aver sbagliato e peccato così profondamente da meritare il castigo divino. Dinanzi all’arroganza e alla miopia di chi si sente migliore e perfetto,e quindi attribuisce sempre e solo agli altri la responsabilità del mondo, la riflessione agostiniana resta davvero un prezioso esempio della capacità di leggere profondamente, oltre che caritatevolmente, la storia. Il dramma di Agostino era lo stesso già attraversato, circa vent’anni prima, da colui ch’era stato davvero il suo più grande Maestro, Ambrogio vescovo di Milano: quella cristiana era stata proclamata unica fede religiosa legittima nell’impero romano e nel nome di essa si erano chiusi i templi, confiscate le ricchezze dei collegia sacerdotali pagani, perfino ucciso (come aveva fatto l’imperatore Teodosio a Tessalonica, come avevano fatto i fanatici che istigati dal vescovo Cirillo avevano lapidato la colta e virtuosa Ipazia d’Alessandria). Eppure, la Parola di Gesù era ancora lontana dall’aver trionfato nei cuori: e finché ciò non fosse avvenuto, la Città di Dio non sarebbe scesa sulla terra, non si sarebbe incarnata nella storia.

Aurelio Agostino, nato non a caso in quell’Africa mediterranea che da molto tempo era uno dei migliori e più prosperi centri culturali e sociali dell’impero, e che aveva già dato i natali a imperatori e a spiriti elevati (da Settimio Severo ad Apuleio) fu uno dei più grandi pensatori di tutti i tempi. La filosofia e la teologia cristiana lo hanno salutato come doctor Gratiae, perché il tema del rapporto tra Volontà divina e Libertà umana fu centrale nelle sue opere: e per tutto il medioevo egli fu il “Platone cristiano”, il più principale dei Padri della Chiesa d’Occidente senza il quale la stessa cultura scolastica sarebbe stata impensabile. Nessuno seppe mai affrontare con tanto coraggio e tanta lucidità uno dei problemi piu ardui e “scandalosi” della teologia cristiana, la Trinità.

Ma quel che al medioevo – intento a cogliere altri aspetti del suo pensiero – interessava meno, è che Agostino fu anche un duro e inflessibile rivoluzionario. La cosa che più lo crucciava quando, settantaseienne, e in procinto di abbandonare la scena di questa terra, assisteva all’assedio della sua Ippona da parte dei vandali di Genserico, non era che dei “barbari” (i quali del resto erano stati a lungo a contatto con i romani; e che erano cristiani, sia pur seguaci dell’eresia di Ario d’Alessandria) potessero conquistare l’impero, ma che la Parola del Cristo non fosse ancora riuscita a conquistarlo e a pervaderlo, creando uomini nuovi e quindi un nuovo mondo, cieli nuovi e terra nuova come sta scritto.

Ma proprio questo è il centro della sua opera più moderna, quella senza la quale la nostra civiltà moderna non sarebbe quel che è: le Confessioni. L’identità profonda – nel solco di Platone – tra Dio come Supremo Essere, il Bene e l’Amore, e quindi l’identità disperante tra il Male e il Nulla; la centralità dell’uomo e della sua libertà nella lotta cosmica tra Bene e Male (che egli aveva già meditato durante il suo giovanile periodo manicheo); quindi il potere terribile dell’uomo di porre un freno perfino all’Onnipotenza divina, dal momento che Deus, qui creavit te sine te, non servabit te sine te.

E’ da questa irremissibile, spaventosa solitudine dell’uomo nei confronti delle sue responsabilità che è partita la Modernità: tra Francesco Tetrarca, Nicola Cusano, Lorenzo Valla, Martin Lutero, Blaise Pascal, Soeren Kierkegaard, Friedrich Nietzsche, Sigmud Freud, Martin Heidegger e Miguel de Unamuno passa il filo d’oro della riflessione sull’individuo, sulla sua sete di vivere, di conoscere, di vincere e di possedere. Modernità ch’è di per sé sinonimo di Occidente, perché in questa centralità dell’individuo si riassume, di fronte alle “civiltà tradizionali”, l’Eccezione costituita dalla “civiltà occidentale”. E’ anche per questo che non possiamo non dirci seguaci di Agostino.