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Chi era per davvero il "giovane Holden"?

di Roberto Alfatti Appetiti - 31/01/2010

Quando cinque anni fa la grande stampa si accorse che Salinger e Il giovane Holden stavano a pieno titolo dentro l'immaginario di chi legge questo nostro giornale si trattò di un piccolo evento. In qualche modo attraverso Salinger si scoperchiò quella conventio per cui i ragazzi di destra leggevano anche di Holden e dei "vagabondi del Dharma" di Kerouac, si appassionavano per i testi di Mark Twain e Steinbeck, ascoltavano De André e Bob Dylan, si formavano cul cinema di Peckinpah e di Kubrick... Ed ecco che i giornali di ieri ci hanno detto dell'addio del vecchio e caro Salinger, che da anni aveva fatto la stessa scelta di Lucio Battisti di ritirarsi dalla scena pubblica (e anche per questo sentivamo ancora più "nostro").
La nostra impressione è stata che in fondo i coccodrilli era già belli che pronti. Ahmm. Non rimaneva che fargli indossare una delle tante definizioni che gli hanno cucito nel tempo. Alcune più originali, altre meno. La Greta Garbo della letteratura, la più carina. Il padre di tutti gli adolescenti, un tantino più pretenziosa. E poi c’era da impacchettare quel poco che si sa delle sua vita solitaria nel New Hampshire e chiamare a testimoniare quell’unico vero testimone che ha titolo a farlo: il giovane – anche se è in libreria, ininterrottamente, da cinquantanove anni – Holden Caulfield. Peccato, però, che Holden abbia già detto tutto e che oggi – non ce ne vogliano coloro che l’hanno amato, noi siamo tra questi – non possa più rappresentare la ribellione per un ragazzo di diciassette anni. Altro non è, ormai, che una foto ingiallita, un pezzo di storia, un classico. Imperdonabile paradosso: lui che, per il suo stile trasgressivo, si faceva espellere dal prestigioso college Pencey, è diventato una specie di boy scout, nientemeno che una lettura obbligatoria nelle scuole. E come tale, da fare controvoglia, un po’ come I Promessi sposi. Il suo appeal ridotto a quello di un Renzo Tramaglino qualsiasi. Roba da far odiare la letteratura a intere generazioni di studenti.
Affiora la nostalgia, per quel che avrebbe potuto essere e non è stato. Per quel che Salinger avrebbe potuto scrivere, se non avesse deciso – a soli 35 anni – di congedarsi dal mondo lasciando tutti lì a interrogarsi. Nell’era del sequel, degli ultimi baci che però non sono gli ultimi e in cui un Rambo ormai vicino alla pensione rischia di spezzarsi il collo per aggiungere un’altra tacca – e qualche decina di comunisti da ammazzare senza essere interrotti dalla pubblicità – alla cintura e alla saga, noi ritenevamo di avere il sacrosanto diritto di saperlo: cos’avrebbe fatto Holden a diciotto anni, a venticinque, a quaranta? Difficile rassegnarsi a conoscere tutto (troppo) di uno scrittore prima ancora di leggere il suo libro d’esordio – potere delle case editrici! – e invece non poter sapere nulla o quasi di uno scrittore che ha cambiato il modo stesso di fare letteratura. Ce lo meritiamo, Aldo Busi all’Isola dei famosi. Ma non ci siamo meritati uno straccio di intervista di Salinger. Cosa voleva dire? Chi era veramente? Perché non ha più scritto?
La domanda, a questo punto, è un’altra: perché domandarselo ancora? Nell’epoca della curiosità globale, abituati come siamo – giornalisti culturali per primi – ad avere ogni risposta a portata di un click, non rimane che prenderne atto una volta per tutte. Ce l’ha fatta. Sì, Salinger ce l’ha fatta. A tutti coloro che, veri e propri Fabrizio Corona ante litteram dell’informazione, sono rimasti a spiarlo con una macchina fotografica e un taccuino tra le mani, confidando che prima o poi tradisse un’emozione, un ripensamento, un’opinione, una presa di posizione. Su cosa poi? Sulla riforma scolastica?
Niente. E allora non rimaneva che arruolare il giovane Holden. In fondo era inequivocabilmente un ribelle, sia pure “senza causa” come quell’altro scapestrato di James Dean. Gioventù bruciata, tutti e due. Borghese, annoiato, bugiardo, Holden era perfetto per l'appropriazione indebita da parte della Fgci e della sinistra degli anni Settanta. Non rimaneva che proporgli di tesserarsi. Una testimonianza divertente, al riguardo, è quella che Adriana Monti, la traduttrice romana di Holden, raccontò in una delle rare interviste a Diario nel ’99: «Sembrerà un’eresia: sono diventata celebre col giovane Holden che io non ho preso sul serio per niente. Divenne un dogma, un catechismo che non capisco tutt’ora. E’ un libro individualista, la crisi esistenziale di un ragazzo americano. Per dei ragazzi di sinistra italiani, Salinger avrebbe dovuto essere il tipico americano altoborghese, non vedevo che rapporto ci fosse con dei giovani marxisti. Lo dissi anche a tre di loro che vennero a parlarmi per fare un pezzo sul giornale di Lotta Continua, e si fecero prestare delle lettere. Più rivisti, né loro né le lettere».
Già, la snobistica irrequietezza da privilegiato di Holden e la sua fuga dalle responsabilità non si prestavano a letture ideologiche e poi, a guardare bene, nel libro non c’è nessuna traccia dei miti della sinistra di ieri, ché quelli di oggi non sono ancora pervenuti. Chi lo ha letto negli anni a seguire non ci ha trovato nessuna metafora possibile con l’attualità. Né Stalin né Truman. Né Corea né Roosevelt. Né Cuba né Vietnam...
I personaggi “adulti” del romanzo proveranno a convincere quell’impertinente di Holden a tenere una condotta più responsabile, ma lui non vuole starli a sentire, quei matusa. Quando il professor Antolini gli porge un foglio con la celebre frase di Wilhelm Stekel – «Ciò che distingue l’uomo immaturo è che vuol morire nobilmente per una causa, mentre ciò che distingue l’uomo maturo è che vuol umilmente vivere per esse» – ringrazia ma fa spallucce. «Non avevo voglia di concentrarmi. Ragazzi – ammicca ai lettori – tutto a un tratto mi sentivo così maledettamente stanco». Ed è per questo, in fondo, che lo abbiamo amato. Per il gusto dello sberleffo, per il fastidio nei confronti di chiunque volesse mettersi in cattedra, dirgli cosa fare, tirare una linea tra bene e male o presentargli una “visione del mondo” bella e preconfezionata. Perché in Holden c’è anche il Tom Sawyer di Mark Twain, il ragazzino irriverente ma non cattivo, che fa arrabbiare tutti ma sa anche farsi perdonare. C’è la ricerca di un sentiero non battuto, il fascino dell’avventura per l’avventura, lontano anni luce da ogni pedagogismo interessato.
È anche tramite loro, Tom, Holden, che autori come Salinger ci hanno fatto innamorare dell’America. Forse non di quella reale e decisamente troppo muscolare della politica estera, ma sicuramente quella ideale dell’America libertaria, individualista e cosmopolita al tempo stesso, delle diversità che si fanno ricchezza, in cui la trasgressione non si fa conformismo, che si ribella alla cultura di massa e alle convenzioni sociali. Inaccettabili, come l’essere costretto a ripetere ogni volta «piacere d’averti conosciuto a qualcuno che non ho affatto il piacere d’aver conosciuto». Beh, noi siamo stati contenti di averti conosciuto, caro vecchio Holden, e di questo saremo sempre riconoscenti a J. D. Salinger, pace all’anima sua.