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Apollonio di Tiana (e il suo straordinario viaggio in India)

di Domizia Lanzetta - 01/02/2010

Fonte: simmetria

 

Apollonio di Tiana, dovrebbe essere vissuto intorno al I sec d.C. Dovrebbe perchè
anche se pare indubbia la sua reale esistenza, si tratta di una figura circonfusa da un
alone di leggenda. Conosciuto anche con il nome di Apollo di Cappadocia, nasce a Tiana
da una famiglia nobile e ricca che si diceva discendere dai fondatori della città.
L'inizio come la fine della sua vita, sono avvolti nella leggenda e nel mito.
Si racconta che alla madre incinta, apparve il Dio Proteo. Anziché spaventarsi la
donna chiese al nume di chi si sarebbe sgravata: "di me" le rispose l'essere divino.

Filostrato mette in risalto il coraggio della madre di Apollonio che, anziché
intimorirsi, si rivolge alla inquietante divinità ponendole una domanda. Quando
poi il bambino era sul punto di nascere, per il tramite di un sogno, gli dèi le
ordinarono, di recarsi a cogliere fiori in un prato. Ma appena lo ebbe raggiunto,
venne colta da un incontrollabile sonno così che, stesasi sull'erba si addormentò.
Dei cigni che si trovavano nei paraggi la circondarono e, battendo le ali, fecero
risuonare il loro canto che, provocò il risveglio della donna che immediatamente
partorì. Quindi, dall'orizzonte, cominciò a spirare un vento primaverile e dalla
terra salì al cielo una folgore.
Altrettanto leggendaria sembra essere stata la sua morte; c'è anzi chi dice che non
sia morto affatto ma, che sia solamente scomparso, dopo essersi inoltrato nel tempio
di Atena.
Tutto ciò fa di Apollonio un personaggio straordinario, al limite tra l'umano e il
divino. Il contatto con gli dèi, avviene per via materna prima ancora della nascita; e
che dire poi della strana risposta data dal nume a sua madre.

"Prima parla con gli dèi e poi parla degli dèi", era uno dei suoi detti preferiti,
tramandatoci dai biografi. Quanto ai prodigi legati alla sua nascita,si tratta
senz'altro di una sequenza di simboli che andrebbero osservati con la massima
attenzione, a cominciare dalla apparizione dell'antica divinità marina. E'
probabile che si tratti della personificazione della "Verità", del quale il dio
primordiale, secondo la tradizione, era portatore. Esso infatti, appartiene alla
schiera dei " Vecchi del mare", come venivano denominati alcuni numi, congiunti alle
acque primordiali. Questi hanno la facoltà di mutare se stessi in qualsiasi forma e
creatura del mondo naturale. Ma soprattutto sono contraddistinti da un sapere
sconfinato. In altre parole, la risposta data alla madre potrebbe essere la metafora
di ciò che il nascituro sarebbe diventato, un "simbolo" della sapienza divina.
Infatti il momento della nascita, avviene in un prato popolato da cigni, animali
connessi ad Apollo dio della "Verità" per eccellenza, e sembra ricalcare quello di
Apollo nell'isola di Delo. Come se, il nascituro, che sarebbe stato una delle colonna
portanti del neo-Pitagorismo, non potesse che essere una proiezione del Dio di
Delfo.

Anche il figlio di Leto fu partorito su di un prato, anche allora i cigni cantarono e per
sette volte volarono attorno al dio bambino appena nato. (in Kerényi -Gli dèi e gli
Eroi della Grecia). Al posto della folgore che viaggia verso il cielo, ci fu invece il
rimbombare per l'etere di un suono simile a quello del bronzo. Probabilmente perché
Apollonio nacque tra gli uomini e, come ci spiega Filostrato, l'avvenimento doveva
significare che sarebbe stato un uomo strettamente unito al mondo degli dèi, mentre
Apollo è già parte del mondo divino. Ma se prodigiosa era stata la nascita altrettanto
sorprendente fu la sua morte; anzi in essa doveva ricapitolarsi il mistero che per
sempre lo avrebbe contraddistinto.
Egli infatti, come tutti i personaggi eroici, deve morire e non morire, vale dire che
al posto della morte dove esserci un trapasso che però lascia intravedere un suo
ritorno tra gli uomini. La sua scomparsa, infatti, si verifica in un tempio
consacrato ad Atena, personificazione e immagine della mente di Zeus.

Si racconta anche che possedesse delle facoltà sovrumane, per cui è ricordato come
mago e taumaturgo.
Si dice anche che abbia avuto molti seguaci, sia contemporanei che successivi.
Tuttavia fu anche molto perseguitato, soprattutto da Domiziano. Ciò nonostante,
secondo la leggenda, molti nutrirono per lui una vera e propria venerazione.

Al tempo della dinastia dei Severi, venne ritrovato un diario attribuito al
discepolo Damis di Ninive. C'è chi ritiene che in realtà il manoscritto sia opera
degli aderenti alla sua cerchia sapienziale. Avutolo tra le mani Giulia Domna, essa
diede l'incarico a Flavio Filostrato di ricavarne la biografia. In questa,
Apollonio viene descritto come un maestro itinerante delle scienze divine, che
dispensa la sua sapienza a popolazioni e regnanti, nel corso di un incedibile viaggio
in territori conosciuti e sconosciuti.
Ma oltre che dispensatore di sapienza egli è anche un ricercatore di conoscenza.
Il suo viaggio verso l'india prende l'avvio dalla città di Antiochia e procede per la
Mesopotania e la regione dei Magi. L'India è la sua meta, perchè l'India, nel
racconto, si delinea come il luogo in cui esiste il cuore della conoscenza di quel che è
inimmaginabile e, del quale lui è alla ricerca..

Il vero viaggio nel mistero, ha inizio dopo l'attraversamento del Caucaso. Da qui in
poi, il racconto, se guardato in maniera superficiale, diviene fiabesco, con degli
episodi che fanno pensare ai viaggi meravigliosi di Simbad. Raggiunta poi la collina
dei Sapienti che, non per nulla, sono sette, il racconto, se lo si continua ad
osservare solo nella sua apparenza, si fa addirittura "fantascientifico". A motivo
di ciò, non si può escludere che le peregrinazioni dello straordinario personaggio
per l'Asia, vadano osservate non tanto in un' ottica fisica quanto in quella
metafisica e spirituale. Perchè come succede per molte località geografiche,
nominate nei racconti mitologici, è possibile che l'India che Apollonio vuol
raggiungere, non sia da ricercare solamente sul piano geografico, perchè sia lui che
Damis, vi pervengono dopo aver oltrepassato una impervia montagna, oltre la quale si
troverebbe la dionisiaca Nisa: "non siamo lontani dal dio,hai sentito dalla guida
che è vicino il monte Nisa sul quale si dice che Dioniso compia molti portenti" dice
Apollonio al suo seguace, quasi che Dioniso e il suo culto,siano una prolusione al suo
traguardo .

Perchè mai Apollonio tenesse tanto a raggiungere l'India, possiamo spiegarcelo con
quel che racconta Filostrato sulla presenza a Delfo di un disco d'argento
proveniente da lì, sul quale era scritto "Dioniso figlio di Zeus e Semele dall'India
per Apollo delfico". Questo fa supporre che esistessero dei rapporti, quasi dei
legami religiosi e spirituali, tra il mondo Greco Ellenistico e quello Indiano,
soprattutto in ambito orfico-pitagorico. Perchè Delfo è sacra sia ad Apollo che a
Dioniso e Delfo può essere considerata la culla del Pitagorismo. E questo disco
d'argento, proveniente da così lontano, confermerebbe il legame tra le due divinità
e quindi anche tra le due culture religiose, anche se fisicamente così distanti e
apparentemente così dissimili..

Raggiunta Nisa, infatti, i viaggiatori non si sorprendono di trovare un tempio
dedicato a Dioniso, circondato da un cerchio di alberi di alloro, pianta
notoriamente sacra ad Apollo. Ma su questi si arrampicano tralci di v
ite. Inoltre gli abitanti del luogo, hanno consacrato al dio, falci, corbe, torchi e
altri attrezzi per ricavare dall'uva il vino. Segno che si trattava di popolazioni
che avevano in comune con i Greci la coltura e la sacralizzazione della vite. Per
sottolineare l'importanza di questa circostanza, Flavio Filostrato racconta che,
prima di giungere a Nisa, Apollonio e Damis, avevano rifiutato di compiere una
libagione con del vino estratto dalle palme. Indizio questo che fa, degli abitanti di
Nisa, una popolazione con abitudini e credenze particolari, differenti da quelle di
coloro che risiedevano nei territori circostanti. A quanto ci racconta Arriano,
anche Alessandro Magno raggiunse quel luogo e credette di essere pervenuto alla
mitica Nisa, e ne fu a tal punto convinto che elargì la libertà alla gente del posto e,
ornatosi di edera e pampini, celebrò il dio, lanciandosi assieme a quelli del suo
esercito in frenetiche danze dionisiache.

Ancora ai nostri giorni ai piedi dell'Hindu-Cush, esistono delle popolazioni che si
dichiarono discendenti dei Macedoni di Alessandro. Si tratta di una enigmatica
etnia, di carnagione chiara e con gli occhi che danno tra il grigio e il verde. Dalle
popolazioni Musulmane che li circondano vengono chiamati Kafiri, che significa
"pagani", ma il loro nome è Kalash. Come quelli descritti da Filostrato, coltivano la
vite che considerano bevanda sacra, solennizzano con importanti cerimonie il
solstizio invernale, nel corso del quali sacrificano ad una misteriosa divinità una
moltitudine di capre. Tuttavia la loro religione è politeista, sciamanica e rivolta
alla forza e potenza della natura e a divinità femminili: una sorta di spiriti
elementali, affini alle nostre Ninfe e Fate. Le loro cerimonie sono caratterizzate
dal suono dei tamburi e dei flauti, e da impetuose danze circolari, nonché da
abbondanti libagioni del loro vino leggero ma acidulo.

C'è chi ha voluto ravvisare nei loro riti e nelle loro credenze dei riscontri con il
culto di Dioniso. Filostrato racconta che la statua del dio che si trovava nel tempio,
raffigurava Dioniso nell'aspetto di un giovinetto Indiano. Ma si trattava
veramente di Dioniso o era piuttosto una divinità affine? Alain Daniéliou ne era
convinto.

Professore all'università di Benares, nominato membro dell'istituto francese di
Indologia a Pondischery, convertito all'Induismo, amico e collaboratore del
grande poeta Bengalese Tagore, è autore di un saggio, nel quale si sforza di
dimostrare che Dioniso non è che la versione occidentale di Shiva. Lui è convinto che,
dall'oriente, il suo culto sia giunto in Grecia passando per la civiltà Minoica,
prendendo il nome di Zagreo. A quel che lui scrive, questa divinità, una volta
approdata in Grecia, sarebbe divenuta Dioniso. Quanto alla somiglianza con il culto
di Shiva, questa era spiegata con il mito della sua spedizione in India. A sostegno di
ciò, cita uno scritto di Megastene, vissuto in India nel IV sec a .C, che riconobbe in
Shiva Dioniso e fu particolarmente colpito da certe popolazioni della
montagna,indicate come i "coltivatori della vite".( Alain Daniéliou -Shiva e
Dioniso - Pg 39).

Secondo lo stesso autore, lo Shivaismo sarebbe la religione che prima dell'avvento
delle popolazioni Indo-ariane avrebbe interessato tutta l'India. In il quel
periodo storico, la divinità principale sarebbe stata Shiva, che in seguito fu in
parte modificata dal Bramanesimo Vedantico. Infatti in certi sigilli risalenti al
3800 a. C, esso è raffigurato cornuto e itifallico. Secondo lo studioso Francese, il
suo culto si sarebbe poi gradualmente esteso all'occidente, trasformandosi in
quello dionisiaco. Nella forma più antica, quella contemplata dalle popolazioni
Dravidiche, esso appare come l'ideatore del mondo. In seguito inglobato nella
religione Vedica Ariana, compare come uno dei componenti della Trimurti. Si tratta
comunque di una divinità complessa, nella quale splendore ed orrore si fondono, in
una sinfonia prismatica e sconcertante. Esso è il Dio della morte, ma
simultaneamente è anche il Dio che preserva e guarisce; infatti in alcune sue
immagini ha il collo azzurro, perchè bevve il veleno per proteggere il mondo. Quando è
dio della morte, è chiamato Kala, cioè Tempo, oppure Aghara, Signore delle lacrime e,
con questo aspetto e questi nomi, la sua immagine ha tre occhi e viene esposta nei
pressi dei roghi funebri e dei cimiteri.

In realtà tutto questo lo avvicina al nostro Hades, a cui il numero tre è attinente. Ma
talvolta Shiva è effigiato con cinque volti, che indicherebbero i suoi cinque
principali aspetti. Tuttavia è rappresentato anche dal fallo, il Lingam, e in quanto
tale simboleggia l'origine di tutte le cose: lui stesso è il Lingam, vale a dire il
principio dell'esistere.

I Greci e coloro che appartenevano all'area Ellenistica, effettivamente
credettero di riconoscere in lui Dioniso. Questo perchè nella sua natura ci sono
valenze e appellativi che sembrano proprio ricondurre a Dioniso ed Eraclito di Efeso
riconosce in lui Hades. Riguardo alle analogie, Alain Daniéliou ce ne fornisce un
abbondante elenco: Shiva è Unmatta, il folle, Dioniso è Mainomenos, il Folle, Shiva è
Protamjà, il Primogenito, Dioniso è Protogonos, il primo nato, Skanda figlio di
Shiva è Agnibhu (nato dal fuco), Dioniso è Pyrigenes (nato dal fuoco), Shiva come
Dioniso è il dio della danza e del teatro e come lui è benigno e nello stesso tempo
terribile e suo veicolo è il toro che, come per l'altro è anche una delle sue principali
epifanie.

Inoltre vaga con nella mano un tizzone ardente, e Dioniso avanza stringendo una
torcia fiammeggiante. A lui sono sacri i serpenti, dei quali appare cinto, così come è
raffigurato Dioniso, soprattutto come Sabazio, nel qual caso a lui sono
particolarmente cari proprio i serpenti. L'elenco continua con vari esempi che
paiono più che calzanti.

Filostrato ci fa comunque sapere che, si credeva fosse stato il Dioniso Tebano a
compiere la spedizione in India e a portarvi i riti bacchici. Anche se gli Indiani del
Caucaso e del fiume Cofene, erano convinti che a insegnare quei riti fosse stato uno
straniero proveniente dall'Assiria. In effetti, come si arguisce dalle Baccanti di
Euripide, talvolta c'è una identificazione tra il dio è colui che lo rappresenta.
Ciò che sorprende Filostrato e, a quel che lui racconta meravigliò anche Apollonio,
fu che il re del posto era in grado di esprimersi perfettamente in lingua Greca. Non è
possibile stabilire se ciò sia verità o fantasia. Quello che più colpisce in tutta la
narrazione, è il tentativo di affermare lo stretto rapporto culturale e spirituale
tra l'India e le popolazioni Greche.
Ciò che invece stupisce noi, è la descrizione della mensa del re, rotonda e fatta a
forma di altare, attorno alla quale siedono trenta nobili personaggi.

Apollonio vive attorno alla metà del I sec d.C, quanto a Filostrato è dell'epoca dei
Severi, quindi della prima metà del III, molto e molto prima, quindi, che venissero in
auge re Artù e la sua Tavola Rotonda. Froate e la sua dimora, nel contesto, sembrano
essere la premessa ad una iniziazione a qualcosa di enigmatico, che farà seguito alla
permanenza di tre giorni di Apollonio presso il re. Solo e solamente per tre giorni uno
straniero può soggiornare presso questo strano monarca che, pare vivere ai confini
del mondo e al quale la regalità viene conferita da un misterioso gruppo di Sapienti
che sembra provenire da una alterità indecifrabile.
Essi sono coloro che possono conoscere la mente delle persone, come fossero immagini
proiettate in uno specchio. Essi sono coloro che si servono di folgori, con le quali
sono in grado di colpire gli ospiti indesiderati. Infatti colui che è stato
incaricato da Froate di condurre Apollonio verso il luogo dove questi risiedono, ne è
letteralmente terrorizzato.

A questo punto è necessario valutare il racconto di Filostrato su basi simboliche, a
meno che non si accetti di cadere nelle fantasticherie più strabilianti.
C'è chi ha voluto veder nel colle inaccessibile dove dimorano i Sapienti, una
prefigurazione del Munsalvaesche descritto da Wolfram von Eschembach. (vedi gli
articoli di Nuccio D'Anna su questo stesso sito). In effetti, anche la nascita di
Apollonio ha qualcosa di simile a quella di Parzifal: in entrambe c'è una folgore che
scaturisce improvvisamente dalla terra nel momento in cui il bambino vede la luce:

"Dalla terra salì al cielo una folgore" "a Herzeloyde parve di essere sollevata verso
l'alto da una folgore di stella" (Parzifal) .

Anche il fatto che dal colle fossero scagliati fulmini, non deve essere preso alla
lettera. Quando Enea viene condotto da Evandro a conoscere la sua città,gli mostra il
Saturnius Mons, vale a dire l'altura dove sarebbe sorto il tempio di Giove
Capitolino, e anche in questo caso sul colle guizzano folgori " queste mie
genti....han ferma fede di aver veduto qui Giove balenar sovente e far di nembi
accolta".

Probabilmente dal Campidoglio, colle che esiste realmente, è scientificamente
"improbabile" che qualcuno possa aver visto scaturire fulmini; tuttavia Virgilio
conferisce al colle una simile facoltà, come metafora della sua somma sacralità.
Così che è possibile che le folgori che scagliano dal colle i misteriosi Sapienti,
servano, tra l'altro, da immagine per sottolineare l'inaccessibilità del luogo o
dello stato di coscienza che il colle simboleggia.

Altrettanto simboliche sono le impronte biforcute e i volti di satiri, che Apollonio
vide impresse sulla roccia della collina a testimonianza del tentativo di Dioniso di
impadronirsene. Ma questo attacco evidentemente si infranse o si infrange, nel
momento in cui ci si confronta con una realtà e dimensione diversa, probabilmente
allusiva di una trasmutazione.
Perchè raggiunto quel punto, il Ditirambo dionisiaco si converte nel Peana
apollineo.
Come se coloro che tentano o tentarono quella sorta di "assalto al cielo", più che
distrutti fossero o vengano trasformati. Vale a dire che rappresenta il varco dal
quale si passa dal divenire a quel che è eterno, dall'immanenza del divino alla sua
trascendenza, da Dioniso, dio dell'attività distributrice, ad Apollo signore ed
unificatore di tutto quanto esiste. "Ma i saggi per nascondere alla folla il loro
pensiero, parlano per enigmi, e danno al fenomeno della trasformazione in fuoco,il
nome di Apollo per la sua unicità,........ ,ma quando il mutamento del dio trapassa in
aria,in acqua e terra e.....,.,parlano di spasma e smembramento e fanno il nome di
Dioniso " ( Plutarco- De E Delph - F -389).

In altre parole, si procede da Orfeo a Pitagora. E Pitagoriche sono le equivalenze che
accolgono Apollonio, nel momento in cui si approssima al colle. Egli si trova ora in un
arcano villaggio, dove tutti parlano Greco. Gli si fa incontro un giovane che tra le
sopracciglia ha raffigurata un'immagine splendente simile a una luna, e reca con se
un'ancora "simbolo di quel che tiene insieme ogni cosa" spiega Filostrato (Vita di
Apollonio -Adelphi - pg 149 ). Il ragazzo è scuro di pelle, quasi nero, forse per
indicare che si tratta dell'araldo di una scuola sapienziale che si riallaccia alla
più antica tradizione dell'India, probabilmente di matrice Dravidica, ma è più
probabile che voglia sottintendere al mistero che avvolge gli abitatori della
collina. Costui comunica ad Apollonio che da quel momento dovrà procedere da solo
perchè "essi" così hanno disposto. A motivo dell'uso di questo pronome, Apollonio
capisce che il loro esprimersi è di stampo Pitagorico. Da qui in poi egli dovrà
proseguire lontano dai suoi seguaci che lo vedono sparire dietro la cortina di nuvole
o nebbia che avvolge l'altura.

Ciò rammenta quel che accade ai non iniziati che si recano in processione al tempio
delle due dèe Elusine, e che possono andare oltre i propilei dell'Anaktaron.
Secondo la tradizione, un velo di nebbia è posto davanti agli occhi dei comuni mortali
e impedisce loro di scorgere gli dèi e ciò che è sommamente sacro. Così che, una cortina
di nuvole avvolge il colle che, a seconda della volontà di coloro che lo abitano,
appare e scompare come fosse un miraggio. Questo e solo questo può vedere Damis, il
resto appartiene al resoconto che lo stesso Apollonio gli farà al suo ritorno. E qui il
racconto non può che essere simbolico, altrimenti sarebbe fantascientifico. Si
comincia infatti a parlare di oggetti straordinari, il primo dei quali è un pozzo da
cui promana una luce intensamente azzurrina che nell'ora del mezzogiorno "spacca in
due il giorno", viene tratta verso l'alto e si trasforma in una sorta di arcobaleno
ardente. Il secondo oggetto è un cratere di fuoco, entro il quale brucia una fiamma
color del piombo, che non sprigiona fumo né odore. Il punto in cui si trovano, è
considerato un luogo di purificazione, per cui l'uno è detto "pozzo della prova"
l'altro "fuoco del perdono" . Ciò fa pensare che si tratterebbe di due "oggetti"
complementari che vicendevolmente si integrano. L'uno è in relazione con
l'elemento acqua, l'altro con il fuoco. Riguardo al primo, si tratta di un vero e
proprio pozzo, nel quale l'acqua è intrisa di una resina particolare, incolore e
inodore, prodotta da una conifera, l'altro invece è chiamato "cratere", per cui
sembra essere un involucro intagliato nel fuoco stesso, forse una specie di brace. In
esso ribolle una sostanza misteriosa che mai non trasborda e dalla quale si eleva una
fiamma oscura. I nomi con i quali vengono indicati sono una probabile allusione
all'idea di un passaggio. L'uno è detto il Pozzo della Prova, nel quale predomina
l'idea dell'acqua e che rappresenta ciò che è perituro ma che tuttavia ha in se il
principio della trasmutazione in quel che è immortale. Infatti la resina di conifera
della quale l'acqua è intrisa, si riferisce a un elemento che a contatto col fuoco,
agisce come l'incenso, cioè si volatilizza, mutandosi in un sostanza che si
congiunge alla dimensione degli immortali.

Quanto al cratere del Perdono, fatto esclusivamente di fuoco, è un chiaro
riferimento alla divinità che, tradizionalmente, è simboleggiata dal fuoco. Nel
cratere, infatti, si congiungono la luce e l'ombra del divino, nel senso di ciò che di
esso è manifesto (l'esterno del cratere) e quel che è immanifesto (la fiamma
purissima e oscura) che arde senza emettere fumo e sprigionare odore.

Ma due sono anche le giare, dalle quali i Sapienti estraggono il vento o la pioggia.
Certamente si tratta di due oggetti portentosi, ma che nella loro apparente funzione
di tipo agricolo (dare al territorio i venti e le piogge che occorrono) celano l'dea di
una doppia natura, simultaneamente materiale e immateriale, che si nasconde entro
le due giare nere, colore ascrivibile a tutto quel che è reale ma "invisibile" . Come è
l'esistenza dei sette Saggi che,appartengono e non appartengono al nostro mondo.
Infatti secondo quel che Damis racconta e che lo stesso Apollonio ha lasciato scritto
: "Essi abitano sulla terra e non vi abitano, e stanno al chiuso senza mura, e non
possiedono nulla se non gli averi di tutti gli uomini"

A proposito della natura dei Sapienti, significativo potrebbe essere il simbolo
posto tra le sopracciglia del giovane araldo che si fa incontro ad Apollonio appena
questo fu arrivato. E' detto che esso risplenda come una luna, quindi sarebbe un
richiamo all'astro notturno. "Natura mista e figura di demone è essenzialmente la
Luna ,la cui rivoluzione concorda con questo genere demonico,in quanto essa si
mostra ora calante ,ora crescente,ora cangiante :e si fa chiamare perciò con vari
nomi .....ora astro della terra,ora terra olimpia,ora possesso di Hecate ,la dèa
sotterranea e a un tempo celeste" (Plutarco -De Defectu Oraculorum -13 ,E ). Alla
Luna, secondo Plutarco, si accorda la natura di certi esseri, natura che è quasi al
confine con quella divina e che come demoni vanno considerati e venerati. Questi
mettono in relazione il mondo degli uomini con quello degli dèi: "E' nostra fede che il
mondo sia percorso da demoni,alcuni dei quali volti a sorvegliare i sacrifici agli
dèi e i riti misterici", continua Plutarco e aggiunge che vi sono delle Anime
purificate che appartengono alla condizione di demoni e sono del tutto partecipi
della divinità.

In effetti questi Sapienti sembrano proprio avere la tipica natura bipolare che
contraddistingue i demoni. Così come dualistici sono gli oggetti che li attorniano.
Infatti Apollonio lasciò scritto che essi sono sulla terra e non vi sono. Tuttavia il
luogo in cui abitano è il centro dell'India e la vetta del colle su cui si trovano è
l'ombelico del paese. Il che significa che in esso si compendiano e si riuniscono non
solo tutte le caratteristiche che li contraddistinguono, ma è anche l'immagine di
ciò che da dualistico si converte nell'Uno". Le particolarità che essi possiedono si
esprimono nei poteri dei quali sono dotati. Potere sulla terra che, dona loro ciò di
cui hanno bisogno senza doverlo ricercare, potere che simbolicamente concede loro
anche di allontanarsi da essa, nel momento in cui pregano, staccandosi dal suolo e
restando immobili in uno stato di levitazione. Il fatto è che per loro si è già
verificata la trasmutazione dal dionisiaco all'apollineo, per loro già si è
realizzato il ritorno all'età felice, quando la Terra era solo Madre e non Matrigna e
dal suo seno giungeva agli uomini tutto quel ad essi serviva. Come per le Baccanti,
dice esplicitamente Filostrato, che ottengono dal suolo ciò che desiderano per cui
"possiedono tutto pur non possedendo nulla". In effetti essi sono tra gli uomini, pur
non essendoci, "stanno al chiuso senza mura" perchè vivono entro una sorta di bolla
invisibile, simile all'aria che li protegge da qualsiasi intemperie.

Si parla inoltre di un fuoco strano che essi traggono dal Sole, che pur essendo
materiale non viene conservato nei focolari ma, permane sospeso nell'aria, simile a
un raggio di luce quando si rifrange sull'acqua. I loro poteri scaturiscono dal
possesso di due oggetti dalle proprietà straordinarie: un bastone e un anello. Il
primo è da sempre simbolo e metafora del comando e allusivo dell'Axis Mundi l'altro
che "appartiene alla "magia degli anelli che si collega allo zodiaco e al più grande
degli anelli: l'eclittica solare, dove ruotano le stelle che orientano i destini
degli uomini" (C.Lanzi- Anello Anello Simmetria) .

Dal dialogo di Apollonio con Iarca, il capo dei Sapienti, si deduce l'oggetto della
ricerca di Apollonio. Uno è infatti il punto saliente alla base della loro dottrina:
la conoscenza, quindi il riscatto dall' Ignoranza, ritenuta la grande colpa e il
limite degli esseri umani. Questa si ottiene attraverso la Memoria, intesa come
prerogativa metafisica mediante la quale raggiungere il proprio "compimento",
vale a dire la propria iniziazione: conosci te stesso e conoscerai chiunque ti stia
davanti. Come Iarca svela ad Apollonio. "noi conosciamo tutto appunto perchè prima
di ogni altra cosa conosciamo noi stessi, infatti nessuno di noi potrebbe accedere a
questa sapienza senza prima conoscere se stesso". Conoscenza e di conseguenza
poteri, che si acquisiscono conoscendo se stessi. E questo può accadere solamente
riandando con la "Memoria" non solamente a tutta la propria vita passata ma anche alle
altre "vite passate". A questo proposito possiamo dire di essere in pieno
Pitagorismo, possiamo dire che dall'Orfismo dionisiaco si è raggiunto il
Pitagorismo Apollineo, e dal Ditirambo si è passati al Peana.

Di un certo interesse è anche la descrizione del banchetto che Iarca offre a un re di una
città vicina. Costui arriva assieme alla sua corte preceduto da un gran fracasso, in
palese contrasto con il "Silenzio" che contraddistingue il luogo abitato dai Saggi.
Altro contrasto è l'abbigliamento del re, fastoso e grondante pietre preziose, con
quello di Iarca e dei suoi che è invece assolutamente sobrio. Sono delle differenze
che sottolineano l'antitesi tra dimensione sacra e dimensione profana, ricchezza
spirituale e ricchezza materiale. Il clamore, il chiasso, assieme al fasto del
seguito di un re mondano, la semplicità e frugalità della dimensione dei Saggi,
caratterizzata dal pitagorico "Silenzio". Certamente simbolica è l' apparizione
dei 4 tripodi colmi di vino ed acqua, con i quali abbiamo un richiamo esplicito al
tripode delfico, simbolo della "Verità". Due di questi contengono rispettivamente
acqua fredda e calda.

L'acqua è spesso immagine del mondo delle cose periture e di quelle materiali. Quella
fredda potrebbe alludere alla morte, l'altra alla nascita, ma anche al suo
contrario. Comunque si tratta sempre delle due polarità che delimitano la
dimensione degli esseri umani e che non è da escludere, si riferiscano alle due porte:
quella dei mortali e quella degli immortali. Quanto agli altri due tripodi, colmi di
vino che dovrà essere stemperato con i due tipi di acqua, è possibile sottintendano
alla divinità che è alla base di uno e dell'altro evento. Per quel che riguarda i
quattro coppieri di bronzo, quasi dei robot, è un chiaro rimando ad Efesto il dio che
per Giamblico rende visibili le ragioni invisibili e che per Saturnino Sallustio,
assieme a Zeus e Poseidon, è una delle tre divinità che elargiscono la vita al mondo.

Il culmine degli eventi lo si raggiunge nel momento del commiato. Iarca offre al re e a
tutti gli altri presenti, una misteriosa coppa, chiamata la coppa di Tantalo,il cui
contenuto non si esaurisce mai. In effetti la figura di Tantalo, nel racconto di
Filostrato, acquisisce una importanza rilevante, quasi si trattasse del fulcro di
un particolare percorso iniziatico. Per i 7 Sapienti, Tantalo personifica il
benefattore dell'umanità, colui che con il proprio sacrificio tenta di affrancare
gli uomini dalla terribile ipoteca della morte. Secondo Iarca, in lui va considerato
chi ruba agli dèi per donare agli uomini ciò che rende immortali. Questo è il motivo per
cui è condannato a restare nel Tartaro, legato a un albero fruttifero e immerso in uno
specchio d'acqua. Ciò nonostante dovrà soffrire in eterno la fame e la sete, perchè
ogni qualvolta tenterà di bere, l'acqua si ritirerà e quando cercherà di afferrare
uno dei frutti degli alberi, questi verranno strappati via dal vento o si
allontaneranno. Perchè forse Tantalo è la personificazione della sapienza umana
che anela al raggiungimento del cibo degli dèi, vale a dire quel cibo che dona
l'immortalità. Anela a nutrirsene, ma tuttavia quando sta per raggiungerlo, questo
si disperde e si allontana.