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Il coinvolgimento militare dell’Arabia Saudita nel conflitto in Yemen

di Rannie Amiri - 01/02/2010

  
Il coinvolgimento militare dell’Arabia Saudita nel conflitto in Yemen

 

Sono passati quasi tre mesi da quando l’esercito saudita si è inserito direttamente nel conflitto tra i ribelli Zaidi e il governo del presidente Ali Abdullah Saleh nel a nord-ovest dello Yemen, nel montuoso governatorato di Saada. Dopo che due guardie di frontiera sono state uccise, nel novembre scorso, dai ribelli, conosciuti come Houthis (dal nome del loro precedente leader, Hussein Badr al-Din al-Houthi) e rivendicazioni secondo cui avevano violato il territorio saudita, è stato scatenato un massiccio attacco aereo.
Utilizzando armi fornite dagli Stati Uniti e dalle potenze occidentali, non a disposizione del governo di Saleh, l’esercito saudita ha impiegato elicotteri Apache, jet F-15 e Tornado, apparecchiature per il rilevamento a raggi infrarossi, droni da ricognizione e, molto probabilmente, le vietate bombe al fosforo bianco, per bersagliare le posizioni Houthi sul terreno accidentato delle regioni di confine e all’interno dello Yemen stesso. Nonostante le sue armi sofisticate, l’Arabia Saudita ha perso un numero insolitamente elevato di soldati, 133 nell’ultimo conteggio. Anche se un numero imprecisato di combattenti Houthi – e di civili yemeniti – sono stati uccisi negli attacchi, ciò che è noto è il grande costo umano richiesto dall’intervento saudita alla popolazione. Essendo già un calderone di sofferenza umana, di malnutrizione e traboccante di campi per gli sfollati interni, a seguito di cinque anni di guerra, la nuova offensiva ha solo aggiunto altra miseria a Saada e alle province vicine.
Dall’inizio del conflitto nel 2004, le agenzie di aiuto pongono il numero di sfollati yemeniti a 200.000. La politica del governo saudita del ritorno forzato, nelle zone di guerra, di coloro che fuggono dal conflitto – una pratica moralmente riprovevole per non parlare della violazione del diritto internazionale – è stata ampiamente condannata. Questa settimana, gli Houthi hanno annunciato un cessate il fuoco unilaterale e dichiarato l’intenzione di ritirarsi volontariamente da qualsiasi territorio saudita occupato. Il leader Houthi attuale, Abdul Malek al-Houthi, ha dichiarato: “Se il regime saudita continua con la sua aggressività, dopo questa iniziativa, dimostrerà che sua intenzione non è quella di difendere il proprio territorio, ma a invadere le nostre frontiere”. Eppure, subito dopo che la proposta Houthi è stata fatta, il governo saudita ha affermato che era esso che aveva spinto i ribelli fuori della regione di confine. “Non si sono ritirati. Sono stati costretti a mollare”, ha affermato il Vice ministro della Difesa, il principe Khaled bin Sultan.
Al fine di far accettare all’Arabia Saudita il cessate il fuoco degli Houthi, Sultan ha detto che i ribelli devono creare una zona cuscinetto di 10 km tra loro e la frontiera, decidendo di lasciare ai militari dello Yemen di assumere le posizioni lungo di essa, e riprendersi i sei soldati sauditi catturati.
Indipendentemente dal fatto che qualsiasi accordo sostenibile sia stato effettivamente raggiunto, ci si deve chiedere: cosa è stato ottenuto dagli attacchi dell’Arabia Saudita allo Yemen? Militarmente, niente. La domanda più saliente è: qual’è il messaggio reale che sta dietro l’intervento (inutile) dell’Arabia Saudita? Sebbene sia stato fatto, presumibilmente, per difendere l’’integrità territoriale’ del Regno, anche i sostenitori della famiglia reale ammettono che si è trattato, più che altro, di arginare un percepito sconfinamento dell’influenza iraniana alle sue porte. Eppure anche questo è un argomento falso. Fino ad oggi, non vi è alcuna prova convincente, di qualsiasi tipo, che fornisca una prova significativa del sostegno dal governo iraniano ai ribelli Houthi. Le dichiarazione che queste siano state trovate, non sono più credibili di quelle emesse dal governo dello Yemen, secondo cui Abdul Malek al-Houthi era stato ucciso nei combattimenti, (è comparso in video pochi giorni dopo, apparendo del tutto vivo e vegeto).
Per capire il vero motivo dietro i bombardamenti, si deve solo tornare sulla principale richiesta dei ribelli Houthi: porre fine alla crescente emarginazione socio-economica e alla discriminazione religiosa della comunità Zaidi nello Yemen. Questa guerra non era volta solo ad aiutare il regime traballante di Saleh, nella lotta contro un nemico molto meno minaccioso per la sua esistenza di al-Qaida, ma ad inviare un messaggio chiaro ai cittadini dell’Arabia Saudita che subiscono la stessa discriminazione sistematica e istituzionalizzata degli Zaiditi. Vale a dire, i musulmani sciiti, musulmani ismailiti, i musulmani sufi e chiunque osi sfidare l’autorità della Casa di al-Saud o le dottrine della scuola di pensiero wahabita, ufficialmente sanzionate.
La Orientale Provincia dell’Arabia Saudita, ricca di petrolio, ha visto crescere le tensioni con gli arabi sauditi sciiti, negli ultimi mesi, mentre le istituzioni religiose wahabita stringono sempre più la morsa sui loro diritti religiosi e sulle loro libertà civiche. La guerra insensata a Saada, condotta dal governo saudita, era quindi destinata ad inviare un inequivocabile avvertimento a chiunque, nel Regno, possa sposare simili credenze o richieste come quelle degli Houthi: fatelo a vostro rischio e pericolo. Ci si chiede, però, se coloro dalla parte saudita che hanno sostenuto o appoggiato tale interventismo sconsiderato, fossero a conoscenza di questo ammonimento, altrettanto importante: la forza militare non riesce mai a placare la ricerca di coloro che cercano di avere diritti fondamentali, libertà e dignità.
Rannie Amiri è un commentatore indipendente sul Medio Oriente.
Fonte: Global Research http://www.globalresearch.ca/PrintArticle.php?articleId=17277

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio