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I diversi volti dell’alienazione umana e dello sfruttamento nel nostro tempo: La Meta-alienazione

di Eugenio Orso - 01/02/2010

Fonte: pauperclass.myblog

I diversi volti dell’alienazione umana e dello sfruttamento nel nostro tempo [parte terza]: La Meta-alienazione
Le caratteristiche della Meta-alienazione e il suo rapporto con le altre forme di estraniazione da me elencate, per qualche verso riportano al concetto di “metalinguaggio”, posto in relazione con i linguaggi-oggetto.

In tal caso, per spiegarmi meglio, posso fare riferimento ad un celebre passaggio di uno scritto di Alfred Tarski, che fu un apprezzato logico del novecento con un certo interesse per la semantica, un passaggio frequentemente citato, nel corso degli anni:

 

Dal momento che abbiamo stabilito di non usare linguaggi semanticamente chiusi, dobbiamo usare due diversi linguaggi per discutere il problema della definizione della verità e, più in generale, ogni problema nel campo della semantica. Il primo di questi linguaggi è il linguaggio "di cui si parla" e che è oggetto dell’intera discussione; la definizione di verità che stiamo cercando si applica agli enunciati di questo linguaggio. Il secondo è il linguaggio nel quale noi "parliamo intorno" al primo linguaggio e in termini del quale vogliamo, in particolare, costruire la definizione di verità per il primo linguaggio. Ci riferiremo al primo linguaggio come al "linguaggio-oggetto" e al secondo come al "metalinguaggio". [...] In questo modo arriviamo a una vera e propria gerarchia di linguaggi.[1]

 

Quando parliamo di metalinguaggio possiamo fare riferimento ad una lingua usata per le traduzioni fra lingua e lingua [intese come linguaggi-oggetto], e la stessa cosa facciamo se ci riferiamo alla lingua con la quale discutiamo di musica.

Si tratta sostanzialmente di un linguaggio che parla di un altro linguaggio, che lo descrive e lo analizza, e ciò accade anche in informatica con i così detti linguaggi di markup [l’acronimo ML, infatti, significa Markup Language].

D’altra parte, il prefisso Meta può indurci a pensare ad un “dopo”, un andare oltre, con il conseguente superamento dei limiti.

Infatti, la Meta-alienazione – come il metalinguaggio, in rapporto a sé stesso e ai linguaggi-oggetto – ci parla di sé e ci parla anche delle forme di estraniazione precedenti, e nel contempo rivela un “superamento dei limiti”, un “dopo”, perché si pone ben oltre il lavoro schiavo [Schiavismo classico dai lineamenti precapitalistici], il lavoro coatto e irreggimentato in fabbriche e stabilimenti [Alienazione marxiana e forme contemporanee simili], ed anche oltre il lavoro flessibilizzato e precario del quale è grosso modo coeva, pur con qualche significativa assonanza [Neoschiavismo precario].

A questo punto devo fare un paio di considerazioni [preliminari] indispensabili e fissare due punti fermi, prima di procedere oltre con l’analisi di questa forma di alienazione umana, più sofisticata e complessa di quelle trattate in precedenza:

 

1) L’aspetto del bisogno economico ha qui un minor peso, se si confronta con le altre situazioni di estraniazione, e ciò renderebbe gli individui interessati meno “ricattabili” e decisamente meno esposti dello schiavo precapitalistico in Calabria o in Sudan, dell’operaio asiatico in Cina, del neoschiavo precario europeo-mediterraneo all’impoverimento più rapido e brutale che segue la loro esclusione.

2) I soggetti “meta-alienati” si trovano in buona parte al confine fra i “ceti medi figli del welfare” postbellico, ri-plebeizzati e flessibilizzati [la vecchia Middle class, Upper e Middle, in via di “smobilitazione”], e gli strati più bassi della classe globale [Lower Global class], anzi, alcuni fra questi soggetti possono avere concrete speranze di non essere risucchiati verso il basso, in futuro, entrando a far parte della Lower Global class anziché del sub-strato più alto [Upper] della Middle class proletariat, al vertice della classe povera [Pauper class][2]. Mentre per una parte di loro il destino sembra essere già deciso, in altri casi si tratta di soggetti, per dirla con un po’ di ironia, “socialmente borderline”, ancora sospesi fra l’aggio della nuova classe dominante [pur al fondo della stessa] e l’abisso di povertà e arretramento che si sta spalancando sotto i piedi dei più [pur trovandosi in una posizione meno penalizzata di tutti gli altri declassati]. Oggi viviamo nella transizione dal vecchio ordine al nuovo, con tutte le incertezze “direzionali” che ciò comporta, ma nei prossimi anni si deciderà, assieme alla direzione che la storia potrà prendere per tutto il secolo, anche la loro sorte personale.

 

Non pochi fra questi soggetti sono gli stessi, per altro, che se interpellati approvano la volatilità e l’insicurezza seminate come “mine esistenziali” sul nostro [e sul loro] percorso dal capitalismo anarchico senza distribuzione della ricchezza, gli stessi che mostrano annoiata indifferenza, o in certi casi malcelata ironia, davanti alle immagini di chi lotta per l’occupazione – ad esempio, davanti a quelle più note di un manipolo di dipendenti che rappresentavano i tutti e cinquanta quelli dell’INNSE, in lotta da mesi, fra il 2008 e il 2009, costretti a stazionare su un carro-ponte per difendere un posto di lavoro che rischia di evaporare[3] – e gli stessi che ci abbandonerebbero tutti sul ciglio della strada come fanno certi criminali con i cani, per andarsene dieci giorni a “rilassarsi” alle Maldive.

Il loro livello di cultura e le loro possibilità di comprensione delle complessità del presente sono, almeno in teoria, più alti di quelli dei “bottegai leghisti” di stirpe bossiana [anche se non ci vuole poi molto, obbietterete voi, sospettando l’applicazione della logica del “ti piace vincere facile” …], potendo disporre degli strumenti culturali necessari per interpretare questa realtà, per rompere le catene invisibili che li avviluppano e voltare le spalle ai simboli truffaldini di un effimero successo, e ciò dovrebbe renderli ancor più condannabili, doppiamente colpevoli, davanti ai nostri occhi, ma ad un più attento esame della situazione, ed anche se non è il caso di dispensare con troppa leggerezza assoluzioni e perdono, si comprende che le cose non stanno esattamente in questi termini …

Qual è dunque il male che li affligge?

Si tratta forse di una forma di disagio postmoderno e postfreudiano, liquido come il capitalismo dell’epoca, che richiede complicate terapie, lunghissime sedute e l’apertura di una nuova e corposa “cartella clinica”?

Per spiegare questi casi, e fare ancora un po’ di luce su quella che ho chiamato in un azzardo analitico-sociologico Meta-alienazione, devo riandare con la memoria a qualche decennio fa e recuperare un ricordo personale di quando, in Italia, esistevano lo scontro politico di piazza e il conflitto sociale ed erano molto praticati.

Un giorno ebbi una discussione pseudo-teorica con un giovane studente, non ancora ventenne e mio coetaneo [per dare un'idea del tempo che è passato, io ho superato da poco i cinquanta], il quale militava nel movimento di Lotta Continua per il Comunismo.

Non è questa sede importante l’oggetto della discussione, che ricordo a mala pena e che ho definito opportunamente pseudo-teorica perché, all’epoca, molto giovani e scarsamente acculturati, né lui né io eravamo in grado di discettare in modo approfondito e sensato su certe tematiche ideologico-storico-politico-filosofiche-eccetera.

Forse si trattava della contrapposizione sessantottina, in Italia, fra Julius Evola ed Herbert Marcuse, del tipo Cavalcare la tigre contro L’uomo a una dimensione, o la Caravella [prima con, quando agli esordi il movimento era unitario, e poi] contro i Compagni alla Sapienza di Roma, seguita subito dopo, con ben poca coerenza e chissà per quale motivo, dalla contrapposizione PCI-Extraparlamentari di Sinistra.

Secondo il mio interlocutore, di Evola non si doveva neppure parlare, perché fascista, mentre il PCI revisionista era ormai diventato a tutti gli effetti borghese, quindi meglio lasciarlo perdere.

Spazientito da tanto “dogmatismo spicciolo”, e dato che con lui non si poteva discutere di nulla senza incappare nella censura, ad un certo punto recriminai, con poca originalità: “Ma perché non cerchi di pensare con la tua testa, almeno una volta, lasciando perdere l’ideologia?”

La sua risposta fu almeno sincera, e in qualche modo chiarificante: “Perché l’ideologia è la mia testa!”

Ebbene, oggi costui è sicuramente un neocinquantenne “integrato” e forse completamente disilluso [deluso di sinistra, pur radicale, per la precisione], che ha lasciato da parte l’ideologia – la quale un tempo “era la sua testa”, come dichiarava apertamente – seppellendola definitivamente con il suo passato.

Ciò è stato possibile perché i fuochi della passione politica si sono spenti, nei panorami culturali e sociali completamente mutati dopo il crollo del Muro di Berlino, e così è in effetti accaduto per molti della mia generazione [quella che ha visto il ‘77/ ‘78] e di quella precedente, passati negli corso degli anni, ad esempio, da Lotta Continua o dagli Indiani Metropolitani a Forza Italia [come nel caso di un mio parente stretto e in tanti altri], oppure dal socialismo “massimalista” al berlusconismo più devoto [Fabrizio Cicchitto, per fare un nome di uno che appartiene alla generazione precedente la mia], o ancora dal Fronte della Gioventù al sobrio libertarismo di “Fare Futuro” [e qui non c’è neppure il bisogno di fare nomi …].

Questo perché la forza delle ideologie dell’epoca non era paragonabile a quella che oggi muove il mondo, essendosi rivelata del tutto “sovrastrutturale” e a tempo, infinitamente inferiore alla forza e all’invasività del capitalismo “transgenetico” contemporaneo, che ha assunto lo stato liquido finale, con i suoi miti e i suoi accecanti riflessi culturali e ideologici insinuatisi ovunque come l’acqua, penetrati anche in noi stessi ed in profondità, fino a spegnere ad uno ad uno i fuochi delle passioni novecentesche.

Non si tratta soltanto di opportunismo, alimentato da un sopraggiunto cinismo che può seguire al “disincanto” del mondo, anche se per alcuni fra questi, che oggi hanno i capelli brizzolati, o grigi, si può ironicamente evocare la scena di un vecchio film in bianco e nero [Il segno di Venere di Dino Risi], quando il cinema italiano era grande anche nella commedia, oltre che nella tragedia, in cui un impagabile e già attempato Vittorio De Sica [Alessio Spano, poeta e autore teatrale] stava lasciando una ancor giovane dattilografa, Franca Valeri [Cesira] – invaghitasi di lui per il suo fascino fra l’aristocratico, il poetico e il gaglioffo –, per andare a vivere più comodamente assieme ad una pensionata dotata di appartamento e di soldi, e accampava candidamente la seguente motivazione: “alla mia età non è più una questione di vita, ma di vitto” …

A parte le facezie, e il mercenariato evidente di non pochi soggetti, ben oltre il piccolo avventuriero Alessio Spano [De Sica] e talvolta oltre la soglia del vero e proprio cinismo, Il discorso ci riporta piuttosto ad un vero e proprio conflitto culturale – in cui, tanto per ricorrere ad esempi abusati, il marketing della Coca-Cola si è rivelato più efficace e “convincente” delle cannonate, o dei disordini di piazza di altra epoca, del terrorismo inafferrabile e suscitato ad arte, dei più aspri confronti sociali – ben oltre e ben più in profondità degli scontri ideologici all’interno del capitalismo che hanno caratterizzato parte rilevante dello scorso secolo.[4]

Così come il fuoco della legna che arde, dopo aver avvampato e bruciato, tende ad esaurirsi, a ridursi a brace sotto le ceneri e poi a spegnersi in modo del tutto naturale, o ancor meglio, nel nostro caso specifico può essere rapidamente spento dall’acqua che scorre, il fuoco delle ideologie novecentesche è stato spento quasi ovunque, alle soglie del terzo millennio, dall’acqua del capitalismo contemporaneo ed altri stili di vita, altra concezione dell’uomo, nuove ideologie, funzionali alla riproduzione strategica del sistema “emerso dalle acque”, si sono manifestati, condannando all’oblio il vecchio mondo culturale.

Spero di essermi spiegato in modo chiaro, ed è per questo che l’ancora giovane dirigente operativo, dal nome convenzionale di Francesco, il cui “caso umano” ho sommariamente descritto nel precedente capitolo, si illude ancora di farcela, votandosi caparbiamente ai “numi tutelari” dell’epoca, e parimenti è per questo che gli esclusi della metropolitana di Budapest – quelli che avevano un profilo sociale più alto, epigoni sfortunati dei “ceti medi staliniani” dell’est – insistono “a fare business” con il portatile e si aggrappano all’illusione della performance inattesa e salvifica,  pur essendo finiti sul marciapiede.

Il piccolo gambler di borsa continuerà anche nel prossimo futuro, per tali motivi, a dannarsi con le analisi e i rumors, perché altre strade gli sono precluse e il capital gain lo tiene provvisoriamente lontano dalle nuove asprezze sociali, mentre coloro che perderanno una buona e stabile posizione lavorativa, oppure chiuderanno nei prossimi mesi lo studio professionale o la piccola impresa, tenderanno ad incolpare sé stessi dell’”insuccesso” subito, e forse cercheranno di “rimettersi in discussione” per “rientrare” a qualsiasi costo nel Grande Gioco.

Si comprende, dunque, che nella forma di estraniazione in oggetto – la Meta-alienazione – dominano gli aspetti ideologici [addirittura messianico-religiosi] e culturali e questa “patologia” è perciò meno legata delle altre alle dinamiche concrete che hanno investito il lavoro umano nei processi produttivi, quanto meno in questi ultimi due decenni, e che qui precarietà e flessibilità sono correlate, in primo luogo e a doppio filo, all’universo simbolico di riferimento, alle scale valoriali adottate/ imposte, e perciò al “perimetro” dei valori praticato, come si afferma chiaramente in un commento tratto da internet e da me presentato nel secondo capitolo. 

Se pensiamo al potenziale rivoluzionario che potrebbero esprimere certi soggetti bene acculturati, conoscitori di nuove tecnologie e con buone capacità organizzative, ai rischi sovversivi e destabilizzanti nei confronti dei nuovi impianti di potere effettivo che gli stessi potrebbero incarnare, comprendiamo perché il processo di flessibilizzazione/ precarizzazione, nelle sue forme più “alte” e raffinate, non li ha certo risparmiati.

Sostituire il lavoro, soprattutto ad elevati livelli di qualificazione, di riconoscimento e di riscontro economico, con forme complesse di gioco d’azzardo – quale è la speculazione borsistica, per essere banali – rappresenta un’operazione culturale e simbolica non da poco, ed anche far metabolizzare a questi soggetti, proiettati in contesti nuovi e parzialmente inesplorati, una situazione di rischio alla quale si è costantemente esposti, non è stata certo cosa facile.

L’humus della precarietà è stato sparso, quindi, ad ogni livello della scala sociale, sconvolgendo equilibri sociali e individuali, colpendo il Lavoro non soltanto per una questione di distribuzione del prodotto fra salari e profitti, come potrebbe apparire se si adotta un’ottica economicista, ma creando nuovi simboli e deformando i contorni della realtà, e questo nell'attesa che il nuovo ordine si affermi definitivamente.

 

 

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Concludo il presente capitolo con un chiarimento dovuto, scusandomi per non averlo presentato in apertura, data la sua rilevanza.

L’alienazione umana, come si intende in questa sede, non è certo un parto letterario di filosofi, pensatori e intellettuali in cerca di affermazione personale e di lustro, ma rappresenta un male profondo, frutto di violenza, che nasce dall’ineguaglianza reale e dalla natura dei rapporti sociali e di produzione che tale ineguaglianza fra gli uomini riflette, segnando la vita umana attraverso i secoli.

Non si tratta di una peculiarità esclusiva del modo di produzione capitalistico, come è ovvio, e le forme che assume, gli esiti sociali ai quali porta non sono esattamente gli stessi, passando da un evo all'altro, da un modo di produzione sociale a quello successivo.

L’alienazione è altresì il prerequisito indispensabile di ogni forma di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e questo fin da prima dell’affermazione del capitalismo, se volgiamo per un attimo lo sguardo a tempi ormai remoti, a quel mondo antico in cui si è affermato il modo di produzione schiavistico, o al periodo storico di trapasso fra il sistema schiavista ellenistico-romano della villa e il sistema del colonato.

Lo è ancor di più di questi tempi, caratterizzati da un capitalismo che diventa “altro da sé” e dall’affermazione di un modo di produzione diverso da quello che abbiamo conosciuto nel novecento.

Un vero e proprio “esperimento” di ingegneria sociale è in atto ed avrà come esito la completa precarizzazione/ flessibilizzazione delle masse, espropriandole di ogni sapere, dei diritti residui e della possibilità effettiva di partecipare alla decisione politico-strategica.

In tale contesto, l’alienazione assume nuove forme che convivono con quelle del passato, mai estinte, e lo sfruttamento non dovrebbe esser visto soltanto nella dimensione economica – come fecero molti marxisti in relazione all’estrazione del plusvalore – ma in ogni aspetto della vita sociale e di relazione, riguardando la persona nella sua totalità.

 

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[1] Alfred Tarski, La concezione semantica della verità e i fondamenti della semantica, in L. Linsky (a cura di), Semantica e filosofia del linguaggio, Milano, Il Saggiatore, 1969

[2] Il discorso relativo alla nuova struttura di classe del capitalismo contemporaneo lo ho affrontato una prima volta, con Costanzo Preve, nel libro Nuovi signori e nuovi sudditi,  di prossima uscita, ma la riprenderò in modo meno episodico e frammentario nel corso della presente trattazione.

[3] I cinquanta dell’INNSE: un bel capitolo della storia del movimento operaio italiano [link: http://www.alpcub.com/innse/INNSE,_un_bel_capitolo_nella_storia_del_movimento_operaio_italiano.pdf

[4] C’è qualcuno che con riferimento allo scontro epocale fra il modello economico sovietico e quello liberalcapitalista americano parla di conflitto esterno al Capitale, mentre i conflitti interni sarebbero storicamente rappresentati dal fascismo e dal nazismo, incarnazioni ideologico-totalitarie del dirigismo e di un certo keynesismo, che si opponevano alle “demoplutocrazie occidentali”.

Personalmente, io credo che in ogni caso si sia trattato di conflitti fra modelli certamente diversi, fortemente alternativi, come era anzitutto quello incarnato dall’economia sovietica rispetto al liberalcapitalismo, ma comunque e per grandi linee sviluppatisi sempre all’interno del Capitale e delle sue logiche prevalenti.