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Haiti, Bertolaso e gli Stati Uniti

di Sergio Romano - 02/02/2010

A mio avviso, il capo della Protezione civile Guido Bertolaso ha sbagliato, soprattutto se le sue osservazioni erano fondate. Il suo compito è di dirigere gli aiuti, quelli italiani, dato che nessuno aveva proposto che dirigesse quelli degli altri e nessuno degli altri lo aveva accettato come capo. Ciò non significa che non dovesse farle, ma che dovesse rivolgersi ai suoi mandanti, non alla stampa. Spettava a chi gli ha dato l’incarico— cioè il governo italiano per bocca di chi è preposto alla politica estera — decidere se, quando e come trasmettere le sue osservazioni agli americani. È stato controproducente: Silvio Berlusconi ha dovuto chiedere scusa per siffatta rottura delle norme che regolano i rapporti tra Stati e per il principio, invocato da grandi e piccini, di non ingerirsi nelle questioni interne altrui. Ammesso che ne abbia voglia, oggi il nostro governo si trova impossibilitato a farlo o a sollevare la questione con la giusta efficacia nelle giuste sedi: Onu, Bruxelles, Ambasciate. Ha nuociuto all’efficacia della missione umanitaria italiana: non potremo certo ottenere con entusiasmo l'appoggio, anche solo logistico, degli Stati Uniti. Pensi all’attracco delle navi, ai trasporti e alla sicurezza. Si è messo da solo un bastone tra le ruote. Purtroppo a subirne le conseguenze saranno gli haitiani e la serietà dei nostri rappresentanti. Chissà se Bertolaso se ne rende conto. Temo di no.

Vittorio A. Farinelli


Caro Farinelli,
Le sue considerazioni sono formalmente impeccabili. Ma io continuo a pensare che Guido Bertolaso, come il bambino della favola di Andersen («l’imperatore è nudo!»), abbia avuto il merito di stracciare il velo dì ipocrisia e correttezza che i governi occidentali (con qualche eccezione a Parigi) avevano steso intorno alla vicenda haitiana. Parecchi giorni dopo l’intervista di Bertolaso a Lucia Annunziata, Bill Clinton, incaricato da Obama di coordinare insieme a George W. Bush l’opera di salvataggio e assistenza, ha detto a un gruppo di imprenditori americani che le scuole sono ancora chiuse, che i centri per la distribuzione di cibo sono 15 (ne occorrono altri 100) e che il sistema ha un urgente bisogno di mezzi di trasporto: «Se qualcuno sa dove posso trovare camioncini o camion, me ne servono 100 ieri». Ha detto in altre parole ciò che tutti noi abbiamo potuto constatare guardando la televisione. Non mancano soltanto le scuole, i centri di distribuzione, i camion. Mancano anche e soprattutto le tende dove alloggiare il popolo che ha perduto la casa.
È permesso chiedersi se fosse utile e necessario, in questa situazione, mandare nell’isola dodicimila soldati? I vertici delle forze armate degli Stati Uniti ci hanno spesso spiegato che le truppe americane non sono addestrate per dirigere il traffico ed esercitare funzioni di polizia: sono educate a combattere. Le abbiamo viste da allora presidiare l’aeroporto e il palazzo del capo dello Stato; molto meno, se non sbaglio, nelle vie e nelle piazze della città distrutta. Era opportuno fornire a Hugo Chavez, ai fratelli Castro e a Evito Morales l’occasione per affermare che l’America è sbarcata a Port-au-Prince con un corpo di spedizione che assomiglia a una forza d’occupazione molto più di quanto non somigli a una missione umanitaria? È scorretto osservare che l’America sta ancora trattando i Caraibi con i metodi di un colonialismo sussultorio? Manda le sue truppe quando un territorio le sta scappando di mano, le ritira quando il pericolo è passato; e quello che accade fra una crisi e l’altra le interessa soltanto fino a un certo punto. Riconoscere la sua leadership, come ha fatto il ministro Frattini a Washington per calmare i furori di Hillary Clinton, significa semplicemente riconoscere che ha il diritto di invadere Haiti a suo piacimento.