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L'eco della guerra

di Alessandro Dal Lago - 02/02/2010

  
 


 



Esistono una decina di edizioni in commercio di L'arte della guerra di Sun Tzu. Se aggiungiamo diversi volumi in cui si cerca di applicare l'insegnamento del mitico stratega cinese al business e alla psicoterapia, nonché i trattati giapponesi di arte militare (Il libro dei cinque anelli, Hagakure ecc.), si scopre che la filosofia orientale della guerra va fortissimo. I cinefili si ricorderanno senz'altro di Ghost Dog-Il codice del samurai, un film di Jim Jarmusch in cui un grande Forest Whitaker è un killer della mafia che si attiene ai principi d'onore del Bushido. A sua volta, il film rimanda a titoli di Jean-Pierre Melville (Le samourai), Sidney Pollack (Yakuza) e ovviamente Kurosawa.
Questo solo per notare come tutto quello che riguarda la guerra (dalla logica della strategia a quella del combattimento individuale, applicate magari alla teoria della supremazia in campi meno marziali) susciti l'interesse del pubblico. Lo stato ininterrotto di conflitto armato in cui si trova l'occidente (compreso il nostro paesello, irriso fino a qualche decennio fa per la mancanza di una tradizione militare) spiega probabilmente la diffusione - per dirla con Michel Foucault - del «discorso della guerra». Quando guardiamo un servizio sull'Iraq, l'Afghanistan, il Pakistan, lo Yemen (e perfino Haiti, dove stanno accorrendo eserciti di tutto il mondo) sappiamo ormai che la guerra ci riguarda. E lo stallo in cui la guerra occidentale si trova da anni spinge probabilmente molti a curiosare nei trattati orientali.
Gli esiti aleatori del conflitto

È in tale inevitabile contesto che Einaudi ha pubblicato recentemente L'arte della guerra. Da Sun Tzu a Clausewitz, una corposa antologia del pensiero militare classico (quasi settecento pagine di testi, a cui si devono aggiungere una ricca introduzione e cento pagine di note) a cura di Gastone Breccia. L'importanza del volume risiede nel fatto che ora un pubblico non specializzato può accedere ad autori citatissimi, ma spesso conosciuti (a parte Sun Tzu, Machiavelli o Clausewitz) solo grazie a letture di seconda o di terza mano: dai romani ai bizantini e agli arabi, da Montecuccoli a Federico II di Prussia, da Guibert a Jomini, da Montecuccoli a Carlo Bianco di Saint-Jorioz. Teorici della guerra che si possono leggere assieme (e nemmeno tutti) solo nei 55 volumi della difficilmente accessibile Bibliotheca Rerum Miltarium... Se l'antologia curata da Breccia presenta complessivamente meno autori di un'opera analoga come l'Anthologie mondiale de la stratégie, curata da G. Chaliand nel 1990 per Robert Laffont (e recentemente ristampata) - anche perché il lavoro di Chaliand si spinge fino alla nostra epoca -, è vero però che il lettore italiano ha ora a disposizione uno strumento utilissimo per sbrogliarsi nella storia di quella che, parafrasando Breccia, potremmo chiamare la forma intellettuale della violenza.

Nel frammento Über Strategie, Helmuth von Moltke il Vecchio, un autore che nel volume in questione non compare perché successivo a Clausewitz, definisce la strategia come un sistema di espedienti (Aushülfen). In quanto stratega delle vittorie prussiane del 1864, 1866 e 1870, sapeva ovviamente quello che diceva, ma è troppo modesto. In realtà, il pensiero strategico è qualcosa che rivela da sempre una contraddizione insolubile: quella tra le finalità pratiche (e ovviamente sanguinose e sanguinarie) e la pretesa utopica di prefigurare l'andamento di ciò che è aleatorio per definizione, e cioè il confitto armato. Non a caso, il maresciallo Maurizio di Sassonia, antologizzato da Breccia, escludeva che la strategia fosse una scienza e ha curiosamente intitolato il suo trattato Mes Rêveries, le mie fantasticherie. Il lettore che affronta l'antologia di Breccia non dovrebbe dimenticare questi due aspetti: da una parte, che ogni teoria strategica presuppone l'uccisione di massa ed è quindi una teoria del massacro; dall'altra, che una teoria scientifica della vittoria in guerra non è nient'altro che un lugubre sogno irrealizzabile. L'ossessione per il ruolo della tecnologia e la pianificazione assoluta ha portato Bush e Rusmfeld - quest'ultimo sostenitore della cosiddetta Revolution in Military Affairs - alla disfatta in Iraq, dopo la vittoria illusoria del 2003.
Gli strumenti del terrore

Nelle prime cinque sezioni vengono riportati brani di autori antichi, precedenti Machiavelli, con un notevole spazio riservato ai Bizantini, che per primi hanno teorizzato la guerriglia - dovendo affrontare cavalieri, nomadi e incursori di ogni tipo. Ma la parte più ricca del volume è ovviamente dedicata ai moderni, fino a Clausewitz. Una prima osservazione si impone. Tutto sommato, l'antichità, che pure ci ha trasmesso tesori di conoscenza in ogni campo, ci lascia ben poco in tema di «arte della guerra». I Greci (non presenti nel volume di Breccia), qualche trattatello incompiuto (Polieno, Onosandro, Asclepiodoto). I romani, poco di più. La spiegazione è forse che, per molto tempo, la guerra era talmente connaturata alla cultura occidentale - oltre che rudimentale nelle sue forme - che non ne esisteva una teoria specializzata. In Platone e Aristotele, che pure hanno lasciato opere su quasi tutto lo scibile del loro tempo, i riferimenti alla guerra e alla strategia sono occasionali e frammentari. Da parte sua Machiavelli, che ha avuto responsabilità militari nella repubblica fiorentina ed è autore di testi specializzati, non sembra aver avuto una grande competenza tecnica (si ricorderà il suo rifiuto delle armi da fuoco). Bisognerà arrivare ai grandi generali del Sei e Settecento, Montecuccoli, Maurizio di Sassonia ecc. e soprattutto a Clausewitz per avere teorie della guerra degne di questo nome.

La collocazione di Clausewitz al culmine di un'antologia sull'«arte» della guerra suscita un problema evidente: si tratta del coronamento di una tradizione - quella della guerra sei-settecentesca o «in forma», come l'avrebbe definita Carl Schmitt - oppure del primo pensatore «scientifico» della guerra? E questo vale anche per Jomini, il teorico formalista che ha avuto tanto successo nel XIX secolo, e per il piemontese Saint-Jorioz , uno dei nostri padri della patria, a cui si devono riflessioni veramente profetiche sul terrore come strumento tattico.

In altri termini, se l'«arte della guerra» si conclude nella prima metà del XIX secolo, da che cosa è stata seguita? Da una scienza? In realtà, l'irrazionalismo intrinseco al nucleo del pensiero strategico - l'illusione di dominare, e cioè di prevedere, ciò che è per definizione aleatorio, e quindi poco prevedibile - è rimasto tale e quale nel Novecento. Con la differenza che ora la strategia poteva avvalersi di una tecnologia sempre più distruttiva: ed ecco la battaglia dei materiali narrata da Ernst Jünger, il bombardamento strategico teorizzato da Dohuet, il Blitzkrieg di Guderian, la bomba atomica, fino ad arrivare appunto alla fallimentare utopia della Rivoluzione nelle questioni militari (basata sull'informazione, i robot ecc.) tanto amata dai neo-conservatori americani.
Interfaccia cognitivo

Un'antologia dell'arte della guerra è dunque, in questa prospettiva, una summa dell'impossibile razionalizzazione dell'irrazionale. Ma i lettori si sbaglierebbero se la prendessero come una raccolta di curiosità storico-letterarie. Dalla consapevolezza delle guerriglie e delle «piccole guerre» alla divisione del lavoro militare attraverso la disciplina (qualcosa di parallelo alle teorie di Adam Smith), dai diversi metodi di concepire l'attrito in battaglia sino alla concezione clausewitziana dei rapporti tra politica e guerra, questo libro documenta come la guerra sia un'interfaccia perenne della nostra cultura.

Insomma, ecco un libro che dovrebbe leggere chiunque avversi la guerra. Perché, per citare una celebre massima attribuita a Trotsky, «Tu puoi anche non interessarti alla guerra, ma la guerra prima o poi si interesserà sicuramente a te».