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Fausto Coppi sorrideva poco

di Marco Iacona - 02/02/2010

Fausto Coppi sorrideva poco, e quelle volte che lo faceva assumeva un aspetto inconsueto quasi estraneo a se stesso, come se il viso fosse prestato a quel corpo magro, fragile, nervoso e fatto apposta per il ciclismo. Si dice pure che non parlasse con piacere, che fosse un vero timido; alcuni suoi gesti poi sono rimasti oscuri (destino dei timidi), come se il campione piemontese vestisse le maglie della segretezza oltreché quelle meritate del più grande campione di ciclismo che il mondo abbia avuto. Nessuno saprà mai per esempio chi fra lui e il grande rivale Gino Bartali passò la borraccia all’altro in una tappa del Tour de France del 6 luglio del ’52 sul Galibier (a 2.256 metri), tutti però hanno capito da un pezzo che a contare fu il solo fatto che due rivali si potessero dare battaglia a colpi di pedale senza peraltro arrendersi alla sete.
Altri tempi, si dirà, tempi in bianco e nero come i sassi e la polvere sulle strade d’Italia prima del boom, prima dei fatidici anni Sessanta quando il mondo sarebbe cominciato a cambiare. E anche gli uomini.
Coppi è morto da cinquant’anni il 2 gennaio del 1960 (e adesso la Torino sportiva lo ricorderà con una mostra a Palazzo Lascaris, dal 3 febbraio al 6 marzo), vinto da un male che poteva essere curato e da medici un po’ troppo faciloni che tentarono di rianimarlo col cortisone. Aveva contratto la malaria nel mese precedente durante una sfortunata tournee in Alto Volta che comprendeva un safari nella quasi impronunciabile Ouagadougou. Aveva appena quarant’anni (era nato a Castellania nel ‘19) ed era già per tutti il Campionissimo. Di ciclisti così forti per le strade d’Italia se ne erano già visti tanti ma nessuno aveva vinto come lui e nel modo in cui lo aveva fatto lui. Di quell’Italia povera e bella appena fuori dalla guerra Coppi era stato anche il simbolo della disubbidienza alle leggi e del ripudio della “normalità”, al contrario di Bartali invece in apparenza casa, chiesa e osteria. Si è perfino detto che Coppi fosse comunista (come se i comunisti fossero quelli della trasgressione…), in realtà la sua particolare situazione matrimoniale - era separato - lo aveva per forza di cose allontanato dalla madre Chiesa non tanto però da cadere in braccio alla seconda delle due madri, cioè a quella russa. Pare inoltre che al momento di porre la “ics” all’interno della cabina elettorale falce e martello non fossero proprio al centro della sua attenzione… e che nel ‘48 durante le elezioni più importanti del dopoguerra avesse lanciato un appello per favorire il voto alla Democrazia cristiana. Affari suoi, si dirà. E bene.
La vita dell’Airone - così con il soprannome datogli da Orio Vergani – è stata un vero saliscendi. A poco più di vent’anni, già garzone di salumeria diventa gregario di Bartali di cinque anni più anziano e quasi contemporaneamente esordisce al Giro d’Italia per conquistarsi (oggi si direbbe) una prima esperienza; ma quel giro (vinto da Coppi ovviamente) sarà solo una delle gare che si concluderanno con il Campionissimo sul gradino più alto del podio. Se non ci fosse stata la guerra di mezzo, poi, come anni prima era stato per Girardengo le vittorie di Fausto sarebbero state senz’altro più numerose, non “limitandosi” a 5 corse Rosa, 2 Tour de France (nel 1949, il suo anno di grazia, fece l’accoppiata Giro-Tour per la prima volta al mondo), 3 Milano-Sanremo, altre classiche d’un giorno solo e 4 campionati italiani…
Tanto per non farsi mancare nulla Coppi vincerà pure un campionato del mondo nel 1953 – non più giovanissimo dunque, forse nel suo ultimo anno da vero Campionissimo – e sarà grande protagonista anche nel ciclismo su pista (per essere chiari: solo ai grandi accade di trionfare contemporaneamente su pista e su strada); batterà il record dell’ora nell’autunno del 1942, un primato che sarebbe durato per quasi 15 anni battuto dal grande Jacques Anquetil.
Anche la vita privata del grande Fausto però è stata sovente sotto i riflettori. Oggetto di discussioni, polemiche lunghe e tormentose ed episodi giudiziari (e ciò forse, stavolta in negativo, fa di Coppi uno dei primi sportivi moderni). Specchio assolutamente fedele di un’Italia legale vecchia e bigotta che negli anni Cinquanta faticava a seguire il passo di usi e costumi assai diversi. Nella vita di Coppi due donne importanti: il matrimonio con Bruna Ciampolini ma anche la presenza della “Dama bianca” – così soprannominata da un giornalista francese perché la si vedeva indossare un montgomery bianco – che il nostro conobbe nel 1948; una donna sposata con un medico – Enrico Locatelli – peraltro tifoso del Campionissimo. Ne nascerà una lunga storia d’amore che durerà fino alla morte del ciclista (la Occhini – cioè la Dama bianca – finirà perfino in galera e a Coppi ritireranno il passaporto). I due amanti “fuorilegge” verranno infine condannati a pochi mesi di carcere, ma riusciranno a sposarsi in Sud America e dalla loro relazione nascerà Faustino oggi cinquantenne.   
Senza voler entrare in questioni del tutto private, va a vantaggio del Campionissimo il ricordo della figura di un uomo che – anche fuori dallo sport – non si piegherà alle convenzioni del tempo o alle reprimende della tifoseria sessuofobica; un uomo dotato di uno spirito laico (nel senso migliore del termine) e aperto al domani. Daniele Marchesini nel suo saggio dal titolo “Coppi e Bartali” (Il Mulino 1998) offre il ritratto di un Coppi uomo della modernità, delle novità “tecnologiche” e progressista (nel senso di uomo del “futuro”), al confronto di un Bartali contadino e legato a un mondo tradizionale più “affrontato” e tuttavia meno “pensato”. Allo steso modo Curzio Malaparte vedrà nella rivalità fra i due giganti del ciclismo, due “Italie” diverse: la vecchia appunto e la nuova. Quella di Coppi, la seconda delle due, sarà l’Italia del pensiero, quella di Bartali quella della fede.
Ma chi di pedale ferisce di pedale perisce (ci si passi la massima) e l’uomo che aveva trascinato il ciclismo italiano fuori da un’età quasi preistorica, molto presto verrà a sua volta sconfitto dall’uso delle nuove tecnologie. Bici nuove, strade maggiormente percorribili, tattiche in gara, diversità nei metodi di allenamento e nella gestione della corsa avrebbero reso (fin dalla metà degli anni Cinquanta) il Campionissimo, il grande Fausto, un po’ meno campione. Sarà lo stesso progresso dunque a contrastare l’uomo del progresso.
L’Africa infine avrebbe interrotto la corsa impari di uno dei più grandi atleti dell’era moderna.