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Il percorso ascetico del buddhismo

di Manuel Zanarini - 03/02/2010

Fonte: lucedeldhamma.blogspot.com


Uno degli interrogativi che più spesso viene posto riguardo al Buddhismo, è se sia da considerarsi o meno una religione. In realtà, si tratta di una questione di scarsa, per non dire di alcuna, rilevanza; soprattutto per il Buddhismo, che privilegia la pratica (nella concezione della praxis), rispetto alla speculazione (theoria). Questo interrogativo, però, può essere lo spunto per alcune riflessioni interessanti.
All’origine del pensiero romano, si distinguevano la pietas e la religio. La prima, riguardava l’antico sapere, i culti tradizionali e conosciuti solo da pochi eletti; mentre la seconda comprendeva la conoscenza superficiale, e popolare, delle cose sacre. Partendo da questa distinzione, i pensatori tradizionalisti hanno distinto le teorie esoteriche da quelle exoteriche. Le prime, richiamandosi alla pietas, prevedono un “percorso a tappe”, nel quale non a tutti è possibile scalare le vette più alte della conoscenza; di contro, le seconde prevedono nozioni superficiali e conoscibili a tutti. In questo senso, il Buddhismo si può collocare più correttamente nell’ambito della pietas romana, poiché prevede appunto una serie di concetti conoscibili solo da coloro che più seriamente si dedicano alla sua pratica; a differenza, per esempio, di una religio, come il Cattolicesimo, che prevede nozioni comprensibili da ogni fedele.
Altra distinzione che trovo interessante segnalare, è quella tra spiritualità che prevedono un percorso di-scetico e quelle che di contro ne prevedono uno a-scetico. Per quanto riguarda le prime, le più comuni sono le religioni abramiche (Ebraismo, Cristianesimo, Islam). In questi casi, si ha una divinità posta a un livello superiore dell’uomo, che seppur “creato a immagine e somiglianza” di Dio, resta una cosa “a sé stante”; ma, non solo, proprio in virtù di tale posizione, si pone come “cosa altra” rispetto a tutti gli altri esseri della Natura. In quanto la divinità è distante dall’Uomo, affinché quest’ultimo possa ottenere la “salvezza”, è necessario l’intervento divino “dall’alto verso il basso” (discetico per l’appunto); la “discesa dello Spirito Santo” e il “sacrificio” di Gesù, in quanto figlio di Dio, per il Cattolicesimo siano da esempio per tutti.
Nel caso delle dottrine ascetiche, come il Buddhismo, non esiste questa frattura tra divinità e Uomo; anzi, si verifica quella che Julius Evola definisce come Identità Suprema, cioè:

«identità di essenza tra Principio Primo e le sue manifestazioni, gerarchizzate in ciò che Guenon ha chiamato “gli stati molteplici dell’essere”, stati “dei quali quello umano è soltanto uno particolare”». [corsivo mio] (1)

In questo caso, quindi, l’Uomo non è un ente privilegiato rispetto agli altri, in quanto più somigliante a Dio, rispetto agli altri, cosa che gli impone di vivere in armonia (cosmos in greco) con la Natura e tutte le sue manifestazioni.  Inoltre,  fa sì che l’individuo non debba aspettare l’intervento salvifico di Dio; al contrario, deve esercitarsi arduamente (vale la pena ricordare che il termine ascesi deriva da quello greco askesis, che significa esercizio), per sfruttare al massimo il proprio potenziale, sia in termini di volontà (nel senso della “volontà di potenza”, successivamente vagheggiata da Nietszche) che in termini di sfruttamento di tutte le proprie risorse, sia mentali che fisiche. Come si capisce facilmente, qua il percorso è esattamente opposto alle tradizioni che abbiamo visto in precedenza; infatti, è l’Uomo che si “innalza” verso (anzi, sarebbe meglio dire oltre) il sovrannaturale, in un processo “dal basso verso l’alto”. Per capire meglio tale differenza, basta confrontare le figure centrali delle due varietà di tradizioni. In quelle discetiche, abbiamo Dio che si manifesta all’Uomo, indicandogli la via: inviando suo figlio sulla Terra (Cristianesimo), oppure rivelando la sua verità ai profeti (estensori dell’Antico Testamento per gli Ebrei, e Maometto per i Musulmani); se così non accadesse, sarebbe impossibile per l’Uomo capire la verità. Nulla di tutto questo si trova nel Buddhismo. Siddharta era un “uomo”, seppur con meriti eccezionali (non era il “figlio di Dio”) e il suo “risveglio” (Buddho, significa appunto lo “svegliato”) è frutto unicamente dei suoi meriti e della sua volontà, non entra in gioco nessun “intervento divino”. Questo, se da un lato comporta che ciascun uomo che possieda le giuste qualità e la necessaria volontà può raggiungere la “vetta del percorso”; dall’altro, preclude ogni “Grazia Divina”, che possa “cadere” su ogni individuo, a prescindere dai suoi meriti o dalla sua volontà (come nel caso del “pentimento salvifico” e della “Grazia Divina” nel Cristianesimo). Senza una rigorosa e “volenterosa” ascesi, nel senso tradizionale caro anche ai Greci che abbiamo prima visto, da praticare tramite la meditazione, è impossibile per l’Uomo portare al compimento il percorso “svelato nel bosco” dal Buddha (evidenti i richiami a esso contenuti nell’idea di radura, espressa da Heidegger), e raggiungere la vera Illuminazione.

Note:
1) Consolato Sandro, Julius Evola e il Buddhismo, Sear Edizioni