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L'ultimo Khan

di Pietrangelo Buttafuoco - 07/02/2010

Mongolia 1920. Il destino ha concesso al barone Roman Feodorovic von Ungaren-Sternberg poco più di un anno per poter realizzare il sogno di un regno che facesse rinascere il mito di Gengis, signore del più grande impero mai realizzato, khan della Cina, dell'India settentrionale e della Russia.
La Mongolia è da sempre la terra dei predoni. Solcata dagli Unni già in secoli lontani, tanto che i cinesi vi innalzarono al confine la Grande Muraglia, è un territorio stretto tra la Russia al Nord e la Cina al sud, coperto dalla steppa, chiuso a settentrione dalla grande catena dei monti Altai e a meridione dal deserto dei Gobi. E' un orizzonte arroventato dal sole in estate e gelato dal freddo in inverno, dove i laghi sono abitati dal Sacro e i valichi di montagna custoditi dai demoni. E' la terra dove il Buddha ha scelto di incarnarsi, abitata da profeti e sciamani, streghe e taumaturghi. Qui il destino ha condotto il baorne Ungern-Sternberg e molti anni prima Roman ha incontrato una strega.
Nel profilo del cielo si staglia Karakorum, la cittò di Gengis. Lui è un giovane soldato dello zar. Lei, accoccolata davanti alla sua iurta, sembra attenderlo da sempre. Non ha età, è figlia di un pastore mongolo e di una zingara siberiana e sta per svelargli il suo destino: «Vedo il dio della guerra. Su di un cavallo grigio cavalca attraverso le steppe e le montagne. Dominerai una grande nazione, dio bianco della guerra. Vedo sangue, molto sangue». Tutto ciò è anche una tavola di Hugo Pratt, una pagina del romanzo Corte Sconta detta Arcana, ma tutto ciò è viva carne della storia. Ungern proclamato khan dell'esercito asiatico in guerra contro Marx e contro Trotsky (e contro Cristo) è la leggenda vivente di Europa e di Asia, ogni anno milioni di pellegrini vanno alla sua tomba, un unico urlo lo chiama all'appello e lui, dalle viscere, risponde: «Urrah, urrah, urrah». Non c'è morte per gli eroi.
C'era una strega, dunque. Dieci anni dopo Roman cavalca ancora nella steppa. Adesso è un ex ufficiale del disciolto esercito zarista. Pensa alle parole della strega. Il Grande gioco ha un nuovo colpo di scena: la rivoluzione bolscevica ha acceso la guerra civile, il sangue macchia la steppa, lo zar è morto. Il barone Ungern-Sternberg comanda uno squadrone di cavalleria. Il titolo nobiliare gli deriva dai suoi antenati che fondarono un ordine guerriero in Estonia, sulle rive del Mar Baltico. Si è autonominato generale, e ha disegnato l'insegna che i suoi uomini porteranno sulla divisa, una U su uno sfondo giallo, «color del sole, dell'oro e dell'Asia». La partita è impari.ù
Mille uomini conta il barone, ci sono tre milioni di guardie rosse dall'altra parte. «Siamo una parte degli ultimi sopravvissuti dell'avventura bianca in Asia». La storia dell'ultima avventura del barone Ungern-Sternberg, Il dio della guerra, è raccontata da Jean Mabire, in un libro edito da il Cavallo alato (euro 20). Pubblicato nel 1974 in Francia con poco successo, ripubblicato nel 2000 da Lizard Edizioni, e tradotto adesso in italiano da Fabrizio Sotterraneo che ha coinvolto i lettori, rivelando risvolti pressoché ignorati delle sanguinarie vicende che accompagnarono il trionfo della rivoluzione bolscevia in Russia.
Prima di Mabire, la storia del barone è stata narrata nel libro Bestie, uomini e dei da Ferdinand Ossendowski, un professore polacco divenuto ministro delle finanze del governo controrivoluzionario dell'ammiraglio Kolchak. Dopo la disfatta dell'Armata bianca, era riuscito ad arrivare a Urga dove il Barone volle farne suo ospite e testimone degli eventi. Un tesoro prezioso, poi, è il volume edito da Vox Populi a cura di Franco Cardini. E' un libro che raccoglie molti interventi e saggi sulla figura del Barone, segnaliamo – oltre che alle bellissime illustrazioni – il saggio di Cardini e quello, impareggiabile, di Pio Filippani Ronconi (quasi un fratello di Ungern Khan). Ma la vera notizia sarebbe quella di ritrovare l'opera pubblicata a Shanghainel 1926 dall'essaul Makeiev, ossia l'aiutante di campo del barone, Il Barone Ungern, dio della guerra, un documento che a soli cinque anni dagli eventi sarebbe una testimonianza formidabile di ciò che accadde nei pochi mesi, dal marzo all'agosto del '21, in cui il barone tenne in scacco la rivoluzione di Lenin.
Mabire dunque non inventa ma consegna al lettore il “suo” barone nella forma del grande romanzo. E' la profezia della strega il bandolo della matassa. «Dominerai una grande nazione». Nel maggio del 1920, dopo la disfatta dell'ammiraglio Kolchak, ancora alcuni capi delle guardie bianche resistono nelle loro fortezze siberiane. Una di queste è Dauria, una grossa borgata all'incrocio tra Siberia, Mongolia e Manciuria, quartiere generale del barone. Il disegno di una “Grande Mongolia” che si estendesse dal lago Baikal al Tibet, e dalla Manciuria al Turkestan, impensierisce il compagno commissario del popolo alla difesa Lev Trotsky che chiede al compagno Felix Edmundovich Zerjinski, capo della Ceka – commissione speciale per la lotta contro la controrivoluzione, la speculazione e il sabotaggio – un rapporto dettagliato sul «sedicente barone generale», capo di una divisione di cavalleria. Il compagno Zerjinski esegue l'ordine. «Il titolo di barone è autentico. E' nato nel dicembre del 1885. Padre proprietario terriero. Famiglia originaria della Pomerania e dell'Ungheria. Considerato la pecora della famiglia. Scuola militare a diciott'anni. Parla il russo, il tedesco, l'estone, l'inglese, il francese e vari dialetti asiatici. Aggregato al 91 reggimento di fanteria in Manciuria allo scoppio della guerra contro il Giappone, smobilitato, frequenta la scuola speciale di fanteria. Si aggrega come alfiere a un reggimento di cosacchi in Transbaikalia. Né alcool né tabacco. Gioca volentieri alle carte. Sfida a duello un avversario durante un alterco tra giocatori. Cacciato dal reggimento parte con il suo cavallo e il suo cane e vagabonda per un anno attraversando tutta la Manciuria. Arriva a Urga, capitale della Manciuria, dove si mette al servizio dei principi e diviene capo della cavalleria mongola. Allo scoppio della guerra presta servizio nel reggimento dei cosacchi di Nertchinsk, con il grado di essaul. Nel '17, il barone diventa il capo di stato maggiore del primo reggimento controrivoluzionario. Inizia la guerra civile in Siberia». Le notizie su Ungern sgranate così dettagliatamente da Zerjinski impensieriscono Trotsky. Il governo controrivoluzionario di Kolchak è caduto, l'ammiraglio è stato fucilato, ma Ungern rimane un avversario temibile per la Rivoluzione bolscevica. La sua leggenda cresce nei rapporti della Ceka. Ha modi intransigenti quando si tratta di disciplina, i suoi castighi non risparmiano nessuno, la sua crudeltà è nota ai suoi soldati e ai suoi nemici che lo hanno soprannominato il “barone pazzo”. Mira a conquistare Urga, la capitale della Mongolia, dove l'imperatore divino e capo della religione lamaista è stato confinato dai cinesi che hanno approfittato della Rivoluzione bolscevica, per penetrare in Mongolia, attestandosi nella capitale con due divisioni e di fatto tenendo prigioniero il Kutuktu, la massima autorità religiosa e politica della nazione. Il progetto del barone è chiaro, conquistare Urga, controllare la Mongolia, diventare il nuovo khan, fare di quella terra ciò che anticamente significava il suo nome, il paese di Kalkha, il paese dello scudo.
Solo, con mille uomini. Solo, con il meglio dei guerrieri asiatici – siberiani, cosacchi, buriati, calmucchi, kirghishi, barguti, mongoli, cinesi, mancesi e giapponesi – quest'uomo di sangue europeo chiama l'Asia a un credo essenziale: ciò che conta è la guerra.
E' il suo sangue che glielo comanda. I suoi avi hanno tutti combattuto, a partire dal capostipite, di cui Roman conosce solo il nome, Heinrich, un cavaliere errante del 1200, e lui è l'ultimo discendente della famiglia Ungern-Sternberg: «Sono quello che sono, perché i miei antenati erano quello che erano». La forza che sorregge l'uomo è il sogno che lo guida, opporre «alla Rivoluzione rossa, che vuole trasformare il genere umano in una massa indistinta – il vecchio sogno cristiano – la volontà di restituire a ciascuno la propria personalità. Un buriato non sarà mai un calmucco, né un bianco un giallo. Però possono combattere insieme per affermare nel mondo la differenza tra i popoli e gli uomini. Questo è il senso della mia lotta: la rivincita dell'individuo. Odio l'uguaglianza. E' la menzogna dei profeti. Non vi è un solo popolo che assomigli ad un altro popolo. Un solo uomo che assomigli ad un altro uomo».
Le notizie che giungono al barone sono pessime. Le armate bianche della Russia meridionale non esistono più. I rossi hanno occupato la Crimea e fatto sgomberare via mare centociquantamila uomini. Tutta la Siberia è nelle mani dei bolscevichi. Delle armate bianche non rimane più che la divisione asiatica di cavalleria. E' il 29 dicembre del 1920. Il barone compie 35 anni. Natale è passato da pochi giorni. Il cappellano militare gli ha chiesto il permesso di celebrare la messa e ha fatto affiggere alla parete della baracca dove celebra la funzione, una grande icona della Madonna con il Bambino. Ungern assiste alla messa, ma non crede al Dio che si è fatto uomo. I professa “figlio del sole”, ascolta nel suo cuore il respiro del Sacro. Si sente idealmente parte della civiltà pagana. Le chiese rinchiudono il loro Dio, invece per trovarlo bisogna abbattere i muri, ascoltare la voce della terra. Dopo l'assassinio dello zar ad Ekaterinenburg, sente di non avere più “né dio né padrone”, come vide tatuato sul petto di un marinaio lettone che da bambino incrociò sulla strada del ginnasio. Camminava gridando quel marinaio, con il petto nudo e muscoloso sotto il giaccone. “Né dio né padrone” giurò allora il bambino Roman.
Il freddo dell'inverno del 1921 era spaventoso come di consueto nella terra mongola. Il termometro era sceso a trenta gradi sotto zero. Il barone vuole attaccare Urga. Nel frattempo arrivano altri uomini attratti dalle gesta del barone. Giungono alla sua iurta e gli mostrano sulla mano tesa la stoffa bianca che chiamano hadag su cui prestano il loro giuramento di fedeltà. Con gli uomini arrivati da ogni luogo della Mongolia, la divisione conta oltre seimila unità.
Il barone vuole aggirare le mura della città, penetrare nel bosco sacro di Bogdo Ul, che ricopre la collina su cui sorge il Palazzo d'estate dell'imperatore divino, il Kutuktu, di fatto prigioniero dei cinesi nella sua dimora. Alla testa di un manipolo di tibetani armati di frecce avvelenate, Ungern si fa strada nella fitta vegetazione del bosco che, tanti anni prima, aveva attraversato. La neve attutisce lo scalpiccio dei cavalli. Il bagliore dei fuochi accesi dalle sentinelle cinesi, rischiarano il perimetro delle mura. Il sibilo delle frecce tibetane fende l'aria. I primi a morire sono le sentinelle. Gli altri scivolano dal sonno alla morte. Al suono di stridule urla i tibetani si arrampicano lungo le mura, abbattono le porte, sgozzano i cinesi che gli si parano innanzi. Nel frastuono dell'attacco, Ungern cerca affannosamente la stanza dell'imperatore. Lo trova intento a pregare davanti a un altare. Il Buddha reincarnato era un vecchio prigioniero quasi cieco che celava le sue emozioni dietro un paio di lenti scure. Ungern non sa inchinarsi davanti al potere neppure quando è divino. Il Kutuktu viene issato su un cavallo tenuto per le briglie dal barone. Bisogna tornare all'accampamento. Ungern vuole attaccare Urga nel più breve tempo possibile sfruttando il disorientamento dei cinesi dopo la liberazione del Kutuktu. L'assalto è rapido e micidiale. Coperti dalle mitragliatrici, i cosacchi hanno la meglio sulle forze cinesi, s'impadroniscono delle porte della città. Dietro di loro, seguono le altre etnie che compongono la divisione del barone. Chi è solo ferito viene sgozzato dai tibetani, così come i russi collaborazionisti e la comunità ebraica, accusata di connivenza con l'oppressore cinese.  I cadaveri vengono ordinati metodicamente in gruppi di cinquanta. L'ordine è per il barone elemento essenziale della disciplina militare. Gli abitanti di Urga acclamano il barone che li ha liberati dalla morsa cinese. Il Kutuktu gli dà il titolo di grande eroe e principe invincibile. Ed è così che si sente, adesso, Roman: invincibile. Crede che dalla liberazione di Urga possa rinascere la Grande Mongolia, una patria non più asservita né a Pechino né a Mosca. La presa di Urga è, in realtà, la sua ultima vittoria. Il Giappone, da cui Ungern si aspetta aiuto, ha fatto la sua scelta: Lenin. Il barone è sempre più solo. La guerra santa dei Mongoli contro il bolscevismo e il cristianesimo – la battaglia dei pastori nomadi contro il proletariato organizzato dai soviet e spalleggiato dai cinesi – è una sfida impari. Alcune migliaia di uomini contro milioni di guardie rosse. E' la lotta delle razze contro la lotta di classe. Ungern controlla solo la Mongolia. Deve fare ciò che il nemico non si aspetta: penetrare nel territorio russo, incitare la popolazione ad unirsi a lui, svegliare l'Asia.
Prima di partire, il barone Ungern Khan torna ad un ricordo impresso nella memoria. Sono passati dieci anni ma lei mormora gli stessi incantesimi: «Nemmeno centotrenta giorni rimangono al dio della guerra... niente, più niente al di là delle tenebre, il dio della guerra è scomparso». Ungern prepara la sua battaglia, benedicendo la sua impresa, il Kutuktu gli regala l'anello che portava sempre Gengis Khan, un rubino ornato da una svastica. Il vecchi cieco fa fatica a metterglielo al dito, ma la sua voce non trema. Gli impone le mani e, con solennità, proclama la verità suprema: «Non c'è morte per gli eroi».
E' primavera quando Roman lascia Urga con la sua divisione. L'unica vittoria del barone sarà la presa di Selenguinsk, la prima città russa oltre il confine dove il barone issa due vessilli: quello russo e quello della divisione asiatica di cavalleria. Ma quelle due bandiere ai confini dell'immenso impero russo sono ben poca cosa. Lenin, che non sottovaluta il pericolo rappresentato da Ungern, gli scatena contro l'esercito russo. Ungern continua ad avanzare, adesso il caldo uccide. Gli aeroplani con la stella volteggiano nel cielo, i cosacchi si trascinano, la divisione si muove di notte e sonnecchia di giorno: solo sudore e sporcizia. Ungern riunisce i suoi ufficiali e gli comunica il suo piano: passare la frontiera dal Turkestan, attraversare la Cina e da lì procedere alla volta del Tibet. I suoi ufficiali lo credono definitivamente pazzo. Non lo seguiranno. Quello che rimane del sogno di Ungern è un epilogo triste. Gli ufficiali riescono a farsi seguire dalle truppe e nulla resta più della divisione asiatica di cavalleria. Anche il barone sa che il Tibet è troppo lontano. Ma l'idea di fuggire esule, di rintanarsi in qualche camera d'albergo in Europa a scrivere le sue memorie, come tanti ufficiali dell'esercito zarista, non fa per lui.
Il 21 agosto 1921, il barone von Ungern-Sternberg è catturato dai soviet. Gli lasciano la sua uniforme di generale zarista, la decorazione della Croce di San Giorgio, la sua tunica mongola e l'anello del Kutuktu. Il processo fu celebrato il 15 settembre nella città di Novonikolaievsk, dove il barone era stato condotto sulla Transiberiana. Su una parete, c'era la bandiera con la falce e il martello e il busto di Karl Marx. I soldati dell'Armata russa schierati. La condanna, per il generale barone Roman Feodorovich von Ungern-Sternberg, capo dell'ultima armata bianca, fu la fucilazione. La sentenza venne eseguita due giorni dopo. Il barone rifiutò la benda. Cinque guardie rosse in piedi e cinque inginocchiate davanti a loro fecero fuoco. Prima di ricevere le pallottole ebbe modo d'inghiottire e portate con sé la Croce di San Giorgio.
Roman, che era stato uno junker baltico, generale dello zar e un principe mongolo, venne sepolto sul posto. Di notte, nelle iurte dell'Asia centrale, nei bivacchi dei pastori, davanti al fuoco, si racconta ancora il sogno del dio della guerra, l'eroe che non muore. Ancora oggi i pellegrini arrivano alla sua tomba: “Urrah, urrah, urrah!”.