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Come gli déi nascono dal sacrificio dei fedeli, così l’universo nasce dall’atto del pensarlo

di Francesco Lamendola - 08/02/2010

 

Abbiamo sostenuto, in numerose occasioni, che il pensiero, le emozioni e i sentimenti sono delle forze potenti, talmente potenti da poter agire non solo al di fuori dei limiti dello spazio e del tempo (come nel caso della chiaroveggenza, della telepatia e simili), ma anche sul piano del corpo astrale, evocando forme-pensiero e dando vita a delle creazioni che occupano uno spazio reale, anche se il loro status ontologico rimane incerto.
Vi sono stati dei medium potentemente dotati, come il polacco Franek Kluski, i quali, nel corso di sedute spiritiche, erano in grado di evocare presenze estranee a volontà, ivi compreso un pitecantropo che causò parecchio spavento agli astanti; mentre in una cultura come quella tibetana, permeata di tecniche dell’estasi che si sono innestate sulla preesistente religione Bon, dai tratti tipicamente sciamanici, esiste tutta una tradizione finalizzata alla produzione volontaria di forme-pensiero, ivi chiamate “tulpa”.
La viaggiatrice francese Alexandra David-Neel, una delle poche persone che straniere che ebbero libero accesso nel Tibet di fine Ottocento, ha scritto alcune pagine interessanti su tale fenomeno. Nel suo libro «Magia e mistero nel Tibet» ella ha narrato come imparò dagli indigeni la tecnica della materializzazione dei “tulpa” e come forgiò, a titolo di esperimento,  un monaco, piccolo e rotondetto, che seguiva la sua carovana e che, quando lei si voltava, appariva intento a compiere i gesti di un comune viaggiatore, gesti che lei non gli aveva ordinato.
Un poco alla volta egli divenne un compagno indesiderabile e perfino minaccioso: non solo compariva anche senza la volontà di colei che lo aveva "creato", ma i suoi lineamenti, da bonari e rassicuranti, divennero sempre più inquietanti: il suo volto era divenuto un ghigno che la riempiva di timore. David-Neel dovette concentrarsi per parecchie settimane prima di riuscire, con il pensiero, a distruggere l'entità che lei stessa aveva creato.
Particolare notevole: anche gli altri membri della carovana vedevano il monaco, segno che non si trattava affatto di una allucinazione o, comunque, di una visione soggettiva, ma di una materializzazione del tutto oggettiva e verificabile dall'esterno.
Secondo lo studioso inglese Colin Wilson, lo scrittore H. P. Lovecraft avrebbe tentato - forse inconsapevolmente - di richiamare sulla Terra i Grandi Antichi, divinità primordiali capaci di scendere dalle stelle mediante una "porta" magica. Secondo questa interpretazione, gli dei sono letteralmente creazioni della psiche umana, portati all'esistenza dalle invocazioni, dalle preghiere e da appositi cerimoniali magici.
La teoria di Lovecraft sugli dèi spaziali è basata sul potere evocatore di certe preghiere e di certi riti da parte degli esseri umani: per mezzo di essi, si può aprire una sorta di "porta" interdimensionale, attraverso la quale le entità "maledette" sono in grado di penetrare nel nostro «continuum» spazio-temporale (donde furono cacciate, in epoche immemorabili, da altri esseri - i cosiddetti "Grandi Antichi" - che li avrebbero "esiliati" negli «intermundia» siderali.
L'idea che entità spirituali possano essere evocate e perfino "create" da un determinato orientamento psichico degli esseri umani, nonché dal compimento scrupoloso di riti ben precisi, è un'idea tipicamente magica, propria non solo della magia dei cosiddetti "primitivi", ma anche dei maghi còlti del Rinascimento: Johann Reuchlin, Cornelio Agrippa di Nettesheim, Teofrasto Paracelso, John Dee, Gerolamo Fracastoro e Gerolamo Cardano.
Oltre a ciò, si tratta di un'idea che sembra ricollegarsi alla Cabala, poiché il pensiero cabalistico pone una precisa relazione tra il potere dei nomi e la capacità di agire in maniera magica sulla realtà naturale.
Esperimenti condotti in moderni laboratori tenderebbero a dimostrare che, se un gruppo di persone si concentra col pensiero su un personaggio immaginario avente determinate caratteristiche stabilite in precedenza, questo tende effettivamente a manifestarsi mediante fenomeni paranormali (a meno che questi ultimi siano un prodotto dell'inconscio degli sperimentatori). Tale, ad esempio, è stata l'esperienza fatta da un gruppo di membri della «Society for Psychical Research» di Toronto (Canada), nell'estate del 1972, decisero di condurre un esperimento delle forme-pensiero "creandone" una a tavolino.
Essi provarono da evocare un individuo del tutto immaginario, inventandosi la sua biografia: un nobile inglese del 1600 di nome Philip, di religione cattolica, che perì suicida in seguito all'accusa di stregoneria rivolta dalla moglie alla sua amante. Ebbene, nel corso delle sedute settimanali il tavolino intorno al quale si riunivano cominciò ad agitarsi, mentre strani scoppi si udivano nella stanza; e, alla domanda se fosse lo spirito di Philip a produrre tali fenomeni, si udirono dei colpi di risposta, dopo di che si avviò una serie di autentiche conversazioni con lo spirito.
Ma torniamo al discorso sugli déi, con particolare riferimento alla cultura dell’India antica.
Nel suo breve ma efficacissimo saggio «Magia, miti e religioni dell’India», così ha riassunto la questione l’eminente studioso Pio Filippani-Ronconi (Roma, Newton Compton, 1986; La Spezia, Fratelli Melita, 1986, pp. 11-12, 19):

«Un punto molto importante, da tenere presente per  comprendere l’orientamento della filosofia e delle religioni dell’India è che per loro il pensiero è concepito come un’attività estremamente concreta e non soltanto come una funzione astratta intesa a giustificare un’immagine del mondo, peraltro incapace di penetrarlo. Al contrario, il pensare e l’inerente consapevolezza occupano il luogo che in Occidente è tenuto dall’Essere e dalla speculazione ontologica. Allo stesso modo in cui […] gli dei vedici nascono ogni volta che vengono “suscitati” dal sacrificio (“karman”, “yajna”), così pure l’Universo e le sue categorie nascono, in un certo modo, dallo stesso atto del pensare. Il pensiero e la consapevolezza (“citta”, “samvid”), di cui esso si sostanzia, costituiscono per gi Indiani il nucleo essenziale della persona umana e, di fronte ad essa, il fondamento auto luminoso (“prabhasvaram cittam”) di tutta la realtà obiettiva. Di contro ad esso la material perfino nelle scuole più “fisiche”, come il Vaisesika ed il Sankhya, viene concepita come il grado infimo (il limite-terra (“dhara”) di una sostanza (pradhana o prakrti) fondamentalmente psichica, che praticamente si esplica in funzione alle facoltà di conoscenza (“buddhindriya”) o di azione (“karmendriya”), in concomitanza dee quali si manifesta e non il contrario.
Di conseguenza, il controllo e l’ascesi del pensiero nei vari gradi della meditazione, che l’Occidente restringe all’ambito etico-religioso, è per gli Indiani parte integrante della ricerca filosofica. Il filosofo è, quindi, per loro un asceta, fondamentalmente, un realizzatore (“siddha”, dalla rad. “sadh”, realizzare, conseguire) che, attraverso una disciplina severa ed esatta, come lo è lo Yoga, sperimenta in se stesso i diversi gradi di quel Logos (“sabda”, “vak”, cfr., lat. “vox”) che è il tessuto della realtà. Per questo motivo la ricerca filosofica non è quasi mai disgiunta dall’esperienza religiosa perfino, paradossalmente, in sistemi atei come il Buddhismo e il Jainismo. […]
Dal punto di vista spirituale, l’orientamento della religione vedica è caratterizzato da una profonda aspirazione verso un mondo di luce e di vittoria e, da un punto di vista cultuale, da un assoluto pragmatismo.  Una figura di genitore cosmico è nei Veda “Brhas-pati” il Signore della Parola (“brh”, “brahman”), la quale, innata ed eterna, si identifica al medesimo Veda, sintesi di suono e conoscenza o, per dirla in termini più filosofici, di “voce” (“vak”) e di “significato” (“artha”, la cosa designata. Ora, allo stesso modo» - pensa un Indiano - in cui la Parola è quella che suscita gli déi e le forze che essi personificano, così pure,, sul piano del rito, gli déi nascono dal sacrificio (“karman”, “yajna”), perché evocati dall’inno vedico (“mantra”, “sukta”, cioè dalla parola articolata dall’officiante, non il contrario! Gli déi vedici sono, quindi, figli del sacrificio, della volontà cosciente (“kratu”) dell’uomo che dà sostanza alla Parola.
Da ciò si comprende il paradosso per cui la Mimamsa, sistema filosofico fondato sull’esegesi liturgica e sull’inerente opzione verbale, sia fondamentalmente atea…»

Dunque: per la mentalità filosofica indiana, gli déi vengono evocati dal culto e dai sacrifici dei fedeli; così come l’universo materiale è evocato, in un certo senso, dal pensiero degli esseri umani, che gli fornisce, per così dire, il substrato ontologico su cui svilupparsi.
Nel caso delle religioni, si può dunque ipotizzare che, allorquando numerose persone si riuniscono in luoghi sacri (cioè impregnati energia psichica e “visitati” da potenti energie superiori) per pregare determinate divinità, si liberano delle poderose correnti emozionali, che finirebbero per conferire a quelle una esistenza reale.
In questo senso, si può meglio comprendere il senso della frase inquietante, riferita da Plutarco di Cheronea, che si udì risuonare misteriosamente sul mare deserto, seguita da un singhiozzo: «Il gran dio Pan è morto!»: perché, quando un culto si spegne e non vi sono più dei fedeli ad adorare una certa divinità (come accadde, appunto, al tramonto del paganesimo greco-romano), quest’ultima tende a scomparire - anche se, forse, sopravvive allo stato latente negli «intermundia», pronta a ritornare qualora venga nuovamente evocata.
Del resto, scrittori come Pirandello e Unamuno erano convinti che l’autore non crea i “suoi” personaggi, ma che si limita ad accogliere la loro chiamata: dopo di che, essi incominciano a vivere di vita propria, indipendentemente dalla volontà altrui.
Per quanto riguarda la creazione dell’universo materiale (o che noi, illusoriamente, crediamo essere di natura materiale, vale a dire indipendentemente dalle nostre menti che lo percepiscono), ci sembra quanto mai necessario chiarire subito un possibile equivoco.
Riteniamo profondamente sbagliata, e addirittura delirante, la concezione hegeliana, secondo la quale non è l’essere che crea il pensiero, bensì il pensiero che crea l’essere; tuttavia, nel caso della dottrina che abbiamo sopra esposto, si tratta di tutt’altra cosa. Secondo la concezione induista, il pensiero non crea affatto l’essere; ma è l’Essere, vale a dire il Brahman Assoluto, che crea il pensiero; e quest’ultimo, in seconda battuta, crea intorno a sé un universo materiale, in se stesso illusorio e originato, appunto, dall’inganno delle menti finite.
Anzi, per essere precisi, l’universo materiale è creato in terza battuta dalle menti finite, dopo che il Brahman Assoluto, principio supremo della consapevolezza cosmica e substrato ultimo di tutto ciò che esiste, ha creato Brahma, la divinità suprema, dalla cui mente scaturiscono, a loro volta, i singoli esseri individuali.
Questa concezione si avvicina molto a quella di Platone e specialmente alla dottrina esposta nel mito della caverna, tanto che è stato più volte osservato che i punti di contatto fra platonismo e neoplatonismo da una parte, ed il Vedanta non duale (Advaita Vedanta) dall’altra, suggeriscono suggestive ipotesi di relazioni reciproche fra questi due grandi rami delle antiche filosofie di Occidente ed Oriente.
Anche per Platone, infatti, quella che noi crediamo la realtà oggettiva non è altro che il riflesso di una realtà che è già essa stessa derivata e illusoria; sicché, per tornare alla realtà vera, bisogna volgere le spalle al dato materiale e rivolgere la mente al puro mondo delle Idee, situato nell’Iperuranio. Così, gli uomini sono come i prigionieri di una caverna, i quali, legati in modo tale da non scorgere ciò che accade alle loro spalle, vedono muoversi sulle pareti rocciose delle forme che scambiano per cose reali, mentre non sono altro che le ombre di simulacri di oggetti, prodotte dal riflesso di un fuoco.
Dunque: non il pensiero crea l’essere (come avviene nella farneticante prospettiva hegeliana); ma l’Essere crea gli enti e questi ultimi, a loro volta, creano, attraverso l’atto del pensiero - nel senso più ampio del termine, vale a dire comprendendovi i sentimenti, le speranze, i desideri, come avviene, ad esempio, nella preghiera e, in genere, quando si attivano potenti forze emozionali - tutto un mondo materiale illusorio.
Si può anche ipotizzare che l’universo materiale sia creato da un pensiero o da un sogno dell’Essere, proprio per fornire alle menti finite la possibilità di scegliere liberamente se perseguire la propria realizzazione nell’illusione della separatezza, o rivolgendosi all’Essere medesimo. E che l’illusione materiale sia rafforzata, non creata, dalle menti individuali, ogni qual volta esse dirigono il loro psichismo ed il loro campo emozionale verso la realtà “esterna”, cioè separata (come esse credono, ma ingannandosi completamente) dall’Essere.
Insomma, forse la vita è veramente - come diceva Pedro Calderòn de la Barca - un lungo sogno, da noi sognato senza avvedercene; o, ancora, come diceva il filosofo taoista Chunag-tzu, un sogno, nel corso del quale ci sembra di sognare di essere questo o quello…
O forse il mondo intero non è che un gioco divino: un sogno della divinità che sogna le nostre menti; le quali, a loro volta, sognano le cose e, soprattutto, sognano di essere indipendenti e separate dal tutto: mentre la verità è che nulla esiste separatamente, ma che, al di là della prospettiva illusoria dello spazio e del tempo, ciascun ente non è che l’espressione, fuggevole e illusoria, dell’unica, vera realtà: l’Essere luminoso e onnipervadente.