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Dove la guerra non può esser vinta

di Alessandro Cisilin - 09/02/2010

Fonte: Il Fatto Quotidiano.

Nelle lingue sud-asiatiche il termine “corruzione” non esiste neppure. Sicché quando la conferenza di Londra ha deciso nei giorni scorsi di pagare i talebani perché depongano le armi, intimando al contempo il presidente Karzai a combattere le pratiche corruttive, l'afgano medio non ha capito la differenza.

 

Di certo l'Italia qui ha fatto scuola e, dopo le sdegnate smentite di qualche mese fa di Frattini sui fondi girati ai rivoltosi per evitare i loro attacchi, il mondo sembra aver compreso che la guerra è perduta.

L'area critica che la Cia definisce da anni come “la più pericolosa del pianeta”, è l’altopiano tra i fiumi Tochi e Gomal, ovvero tra Afganistan e Pakistan. Si chiama Warizistan, e non ci si va più nessuno, men che meno giornalisti, studiosi e operatori umanitari, cacciati da sequestri, omicidi e bombardamenti Nato.

Obama ha deliberato nei mesi scorsi l'invio di altri 40mila soldati, e altrettanti sono in missione da Islamabad. Dovrebbe essere una tenaglia mentre risulta una miccia di esplosioni kamikaze sull’intero centro-sud del continente. Sui monti Sulaiman, ora svuotati dall'esodo di centinaia di migliaia di persone erano peraltro affluiti negli anni scorsi ceceni, uzbechi e uiguri e in fuga da persecuzioni anti-musulmane.

Sfollati a loro volta, dunque, poi educati alla guerriglia con madrasse improvvisate ma di enorme efficacia in un quadro umanitario devastato da decenni di conflitti. E tuttavia il cuore pulsante di quel popolo riottoso non sono gli stranieri. Rimangono i locali waziri, rispetto ai quali un secolo fa il viceré dell’India Britannica Lord Curzon diceva: “Non c’è architettura istituzionale che tenga.

L’unica possibile pacificazione è quella di radere al suolo l’intera zona o andarsene”. Già allora lo Waziristan era “frontiera” (coloniale) e terreno di conflitto coi potentati afgani. E già allora si denunciavano i contributi militari esterni. Al’epoca erano i soldati musulmani fuoriusciti dalle truppe di Sua Maestà.

Nei decenni scorsi sono state le armi fornite dalla Cia in funzione anti-sovietica ai talebani, nonché quelle del Pakistan per garantire i commerci dai dazi imposti dai malik, i boss locali. La novità ingenerata dall’occupazione dell’Isaf sta proprio nella saldatura tra i talebani e larga parte dei leader waziri, nel comune interesse a respingere le minacce alla propria autorità.

E l’anima di quell’autorità non è l’Islam radicale che, secondo l’International Crisis Group, rimane il riferimento solo di una frazione dei ribelli. Si chiama invece Pushtunwali, l’etica dei “Pashtun” iranico-afgani, ovvero dei “Pathān” urdu-pakistani. Non è un sistema “tribale”, come già i coloni britannici etichettavano i gruppi meno governabili, ma un “codice d’onore” antico e diffuso fino al Mediterraneo, con solide analogie con le mafie italiane. Si tratta di vaste strutture claniche, segmentate su discendenze rigorosamente patrilineari. Ogni maschio eredita una porzione del feudo, con l’impegno a prendere le armi quando gli altri sono attaccati.

La variante locale di quest’etica sta proprio nella diffusione della violenza “politica”, fatta di assalti e sequestri di burocrati e mercanti, che Churchill deplorava come “etica del tradimento e dell’aggressione fatte virtù”. C’è stato però un tempo in cui questo sistema sembrava avviarsi alla svolta.

Erano gli anni ‘70, quando gli waziri emigravano verso gli stabilimenti petroliferi del Golfo Persico e rimpatriavano le rimesse. Il relativo benessere indebolì la posizione dei malik, ma a ripristinare il loro potere fatto di miseria e sangue intervenne l’ennesima guerra, quella sovietica, da un milione e mezzo di morti. Il resto è storia attuale: l’arrivo dei talebani, gli unici a saper riunire militarmente nel ’96 il paese dilaniato; poi l’occupazione Nato, che ha posto rapidamente fine al loro “emirato islamico”.

La sconfitta talebana sembrava immediata nel 2001, come tante volte era apparso nelle guerre britanniche e sovietiche. E anche le cronache recenti sembrano testimoniare una grave decapitazione tra i guerriglieri, incluso il leader Baitullah Mehsud colpito da un drone americano, e poi il fratello Kalimullah, ucciso in un’incursione pakistana. Secondo la Cia sarebbe morto anche il loro successore, ma poi ce ne sarà un altro.

E anche l'ultimo capo, Hakimullah, di cognome fa Mehsud. Non è un parente dei primi ma, significativamente, il termine denota il più potente clan waziri. I talebani sono quindi diventati mehsud e viceversa. La saldatura è parziale, proprio perché legata a interessi locali, sicché gli stessi talebani si muovono politicamente in ordine sparso, a seconda della regione.

Ma, proprio perché locale, è un’alleanza profonda, alimentata dai proventi della droga reinvestiti in armi, e ogni tentativo di sfaldarla, più volte argomentato dalla Nato, appare vano. Lo insegnano la storia locale e l'economia dell'illecito.

Per uscire dalle logiche della mafia e della guerra l'unica strada possibile è quella tracciata da anni di pace.