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Ultime notizie dal mondo

di redazionale - 09/02/2010

 

Iraq / USA. 1 gennaio. Uccisero 17 civili. Giudice di Washington assolve, per vizi di forma nell’indagine, i 5 soldati USA, contractors della tristemente nota agenzia di sicurezza Blackwater, i quali il 16 settembre 2007, nel corso di un servizio di scorta, ad un incrocio trafficato, cominciarono a sparare all’impazzata sulla folla. Vibrate le proteste del governo iracheno, il cui portavoce Ali al-Dabbagh ha detto che un’indagine irachena dimostra senza ombra di dubbi che gli uomini della Blackwater sono colpevoli di «un grave crimine» e che Baghdad cercherà di perseguirli. «Deluso» il governo del premier Nuri al Maliki. «Stupefatta» la ministra dei diritti umani irachena, Wejdane Mikhail: «quanto è accaduto è una cosa pessima in quanto molte persone innocenti sono morte, giovani, studenti, uccisi da qualcuno a cui piaceva sparare su persone non armate», ha aggiunto. La Blackwater è una delle più grosse compagnie private USA che lavorano (cambiato nome) a fianco dei militari USA in Iraq e Afghanistan e continuano a collaborare con la CIA (come dimostra il fatto che 2 dei 7 agenti della Compagnia uccisi l’altroieri da un kamikaze nella base Chapman in Afghanistan erano ex dipendenti della Blackwater).
 

Yemen. 1 gennaio. Londra convoca conferenza su Yemen per il 28 gennaio. L’obiettivo, secondo il primo ministro britannico Gordon Brown, è discutere delle strategie con cui contrastare la radicalizzazione in Yemen, dopo il fallito attentato della scorsa settimana su un aereo diretto negli USA. Lo ha detto ieri il suo ufficio. L’incontro, ad alto livello, si svolgerà parallelamente alla conferenza internazionale sull’Afghanistan, in calendario lo stesso giorno. Il vertice intende coordinare meglio «gli sforzi dell’antiterrorismo internazionale nella regione e a promuovere riforme politiche, economiche e sociali nello Yemen». L’idea di Brown di una riunione sullo Yemen ha ricevuto forte sostegno dalla Casa Bianca e dall’Unione Europea, riferisce l’ufficio stampa del primo ministro britannico.
 

Afghanistan. 2 gennaio. I taliban non minacciano la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. CIA e NATO sono in Afghanistan per affari, non per la “lotta al terrorismo”. Lo ha dichiarato, in un’intervista alla rete satellitare PressTv, l’ex agente della CIA, Ray McGovern, commentando l’ultimo attacco talebano che in Afghanistan è costato la vita a 8 uomini della CIA. Secondo McGovern, la CIA in Afghanistan ha come obiettivo principale, non la lotta al terrorismo, ma i giacimenti di gas naturale del Turkmenistan e il gasdotto che in futuro dovrà passare attraverso il territorio dell’Afghanistan. McGovern che ha detto di aver visto con i propri occhi il progetto del gasdotto pianificato dalla Enron.
 

Palestina. 3 gennaio. Hamas è ostile «allo stato sionista», non all’ebraismo. Questo hanno dichiarato e spiegato ai giornalisti quattro rabbini antisionisti e una donna ortodossa, ospiti di Hamas. Lo riferisce la stampa ortodossa in Israele. I religiosi, giunti da qualche giorno nella Striscia di Gaza in segno di «solidarietà al popolo palestinese che soffre per la occupazione israeliana», hanno poi trascorso il riposo sabbatico in un albergo di Gaza. A loro le autorità di Hamas hanno avuto cura di far pervenire nel loro albergo cibi ‘kosher’, ossia confezionati secondo la più rigorosa ortodossia ebraica. I rabbini Israel Weiss, Israel Pinchas Friedman, Yishai Rozenberg e David Feldman, entrati con passaporti statunitensi e canadesi (l’identità della loro accompagnatrice non è stata resa nota) sono stati ricevuti dal leader di Hamas a Gaza, Ismail Haniyeh. Sono esponenti dell’organizzazione internazionale di ebrei ortodossi “Neturey Karta” (“I guardiani della mura”, in aramaico) che, per motivi teologici, non riconosce lo stato di Israele perché espressione non di una volontà divina, ma di un movimento laico, il sionismo. Questo –sostengono– nulla ha a che fare con i principi ed i valori religiosi dell’ebraismo, del cui nome piuttosto si è servito e si serve per giustificare la propria politica coloniale e genocida contro i palestinesi. Il sionismo –aggiungono– ha alterato drammaticamente la pacifica convivenza, tra culture e religioni diverse, che esisteva in Palestina prima della conquista sionista. Neturey Karta è fautrice di un ripristino dello status quo precedente alla nakba (catastrofe) dell’occupazione sionista del 1948.
 

Sahara Occidentale. 4 gennaio. Fermare le operazioni militari del Marocco. E’ quanto chiede il Segretariato Nazionale del Fronte Polisario alla cosiddetta “comunità internazionale”, che lamenta anche violazioni dei diritti umani e chiede la scarcerazione dei prigionieri politici. Il Fronte Polisario denuncia le operazioni aeree e terrestri dell’esercito nel Sahara occupato e le misure per rafforzare e migliorare le difese del «muro della vergogna» costruito dal Marocco per separare i saharawi. «Questi movimenti e migliorie suppongono una flagrante violazione del cessate-il-fuoco in vigore tra l’Esercito saharawi e marocchino sottoscritto sotto gli auspici dell’ONU per permettere un referendum di autodeterminazione», ha dichiarato Mohamed Abdelaziz, presidente della Repubblica Araba Saharawi Democratica.
 

Irlanda del Nord. 7 gennaio. La messa fuori uso delle armi dell’UDA pone fine al disarmo degli attori del conflitto irlandese. In conferenza stampa, a Belfast, il Gruppo d’Inchiesta Politica dell’Ulster, organizzazione vicina all’Associazione di Difesa dell’Ulster (UDA), ha affermato che questa formazione lealista, la più numerosa nel nord Irlanda, ha completato il suo processo di messa fuori uso delle armi. La dichiarazione è stata poi confermata dalla Commissione Indipendente di Messa Fuori Uso e verificata da due testimoni che hanno assistito a tutti gli atti dell’operazione.
 

Cuba. 8 gennaio. Dura reazione de L’Avana all’inclusione di Cuba nella lista dei «patrocinatori del terrorismo», compilata dagli USA. L’inclusione è avvenuta dopo il fallito attentato di Natale al volo Amsterdam-Detroit. Secondo le autorità de L’Avana si tratta dell’ennesima conferma che la politica estera di Washington non è cambiata con Obama. Il ministero degli Esteri dell’Avana, in una nota di protesta, ha chiesto a Washington l’immediata cancellazione dell’isola dalla lista nera e ha ricordato di aver proposto a più riprese, anche nel luglio scorso, l’inserimento della cooperazione “contro il terrorismo” in un’agenda bilaterale, senza ottenere alcuna risposta. Il Dipartimento di Stato USA ha motivato l’inclusione nell’elenco per l’appoggio fornito a una serie di «gruppi radicali»: le colombiane FARC ed ELN, e la basca ETA. Un comunicato del ministero degli Esteri cubano ha ricordato che l’accoglienza di membri delle FARC e dell’ELN è avvenuto nell’ambito della sua opera di mediazione tra la guerriglia e diversi governi colombiani; quanto ai membri dell’ETA, la loro presenza origina da una specifica richiesta del governo spagnolo negli anni Ottanta. Sono invece gli Stati Uniti, accusa il ministero, a ospitare sul proprio territorio veri e propri terroristi, a cominciare dall’anticastrista Posada Carriles, responsabile dell’esplosione di un aereo della Cubana de Aviación (73 morti) e di diversi attentati all’Avana, tra cui quello che uccise l’italiano Di Celmo.
 

Cuba. 8 gennaio. Modesta crescita economica (+1,4%) nel 2009. Il bilancio è stato presentato in dicembre dal governo nel corso di una seduta parlamentare presieduta da Raúl Castro. Hanno inciso su questo modesto risultato il calo –in seguito alla crisi internazionale– di entrate fondamentali come il nichel e il turismo, le perdite per 10mila milioni di dollari provocate dagli uragani e l’embargo USA. Il ministro dell’Economia, Marino Murillo, ha riconosciuto «una marcata diminuzione nel flusso di entrate in divisa nel 2009, cosa che ha provocato il mancato pagamento di debiti a fornitori e difficoltà ad accedere a fonti di finanziamento». Gli impegni finanziari esistenti determinano una situazione molto tesa, ha aggiunto Murillo: per questo «si sono iniziate trattative tese alla riprogrammazione del debito con alcuni paesi e fornitori al fine di garantire i pagamenti in condizioni più favorevoli». Il ministro ha quindi segnalato la necessità di «dare priorità alla produzione che genera entrate attraverso le esportazioni e di ridurre le spese nella sfera sociale».
 

Venezuela. 8 gennaio. Un aereo P3 da combattimento statunitense vìola nuovamente per 19 minuti lo spazio aereo venezuelano. Era partito dalla base militare di Washington a Curaçao. Il Presidente Chávez ne ha ordinato l’intercettazione e F16 venezuelani lo hanno scortato fuori dal territorio, destinazione Curaçao. Washington ha provato a negare il fatto, smentito dalla registrazione tra la torre di controllo dell’aeroporto venezuelano di Maiquetía e il pilota statunitense. Non si tratta di un incidente isolato. Dal 2006 il Pentagono ha incrementato la sua presenza nell’isola di Curaçao, in cui mantiene una base operativa dal 1999. Nel testo originale del trattato tra Olanda e Washington, si autorizza la presenza militare statunitense a Curaçao per missioni contro il narcotraffico. Dopo l’11 settembre 2001, Washington ha cominciato ad utilizzare tutte le sue installazioni militari per combattere supposte «minacce terroriste» o attentati contro gli interessi statunitensi. Dal 2006 le operazioni statunitensi da Curaçao non hanno avuto solo carattere di missioni contro il narcotraffico, ma hanno registrato anche la presenza dell’Esercito, della CIA e delle forze speciali USA. Insieme, le componenti militari e i servizi dell’intelligence statunitensi hanno iniziato a svolgere manovre ed esercitazioni per combattere «una potenziale minaccia terrorista nella regione». Nel luglio 2008 è stata riattivata la Quarta Flotta USA, anche «per dimostrare la forza e il potere degli USA e difendere i loro interessi e alleati nella regione», come ha dichiarato il suo comandante. Una pubblicazione del Dipartimento di Stato ha classificato le isole olandesi di Aruba, Bonaire e Curaçao come la «Terza Frontiera degli Stati Uniti», segnalandole come parte della «frontiera geopolitica degli Stati Uniti» nella regione.
 

Euskal Herria. 9 gennaio. La procura accusa gli arrestati del 13 ottobre scorso di essere «il referente istituzionale di ETA» e di aver tentato la creazione di «un blocco per lo sviluppo di una strategia sovranista» al servizio dell’organizzazione armata. La Procura dell’Audiencia Nacional ha chiesto ieri al giudice Baltasar Garzón di processare i nove dirigenti indipendentisti: Arnaldo Otegi, Rafa Díez, Sonia Jacinto, Miren Zabaleta, Arkaitz Rodríguez, Rufi Etxeberria, Amaia Esnal, Txelui Moreno e Mañel Serra. L’accusa sostiene che intendevano dar forma alla «strategia politico-militare» di ETA creando «un nuovo referente politico istituzionale succedaneo di Batasuna» aspirante a concorrere alle elezioni municipali e forali del 2011. La costituzione di questo nuovo soggetto era prevista «nella primavera del 2010». Contrariamente a quanto espresso dalla Procura e dal giudice Baltasar Garzón, la sinistra abertzale (patriottica, ndr) investe «nell’utilizzo di vie e mezzi esclusivamente politici e democratici». In un’intervista su Gara dello scorso 1 novembre, uno degli imputati, Rufi Etxeberria, dichiarava che la sinistra abertzale sta disegnando «una strategia di carattere offensivo che ci porti dentro un nuovo ciclo e ci conduca ad uno stadio nel quale il confronto Euskal Herria-Stato, confronto che si darà tra l’opzione unionista e quella indipendentista, si sviluppi unicamente ed esclusivamente per vie democratiche».
 

Venezuela. 11 gennaio. Il valore del bolívar è passato da 2,15 unità per dollaro a 2,60 per i prodotti di prima necessità, le rimesse e le importazioni del settore pubblico. Per tutti gli altri beni a 4,30. Secondo il presidente Chávez, il deprezzamento della moneta nazionale potenzierà economia e produttività: «Stiamo vendendo i dollari a prezzi molto bassi da parecchio tempo e questo fa sì che parecchi settori dell’economica nazionale preferiscano importare perché gli costa pochissimo, piuttosto che aumentare gli sforzi per produrre in Venezuela».
 

Venezuela. 11 gennaio. Militari nelle strade contro la speculazione e la minaccia dell’esproprio per i commercianti che cercheranno di approfittare della situazione. Questi gli strumenti, annunciati ieri dal presidente venezuelano Hugo Chavez, che il governo è pronto a mettere in campo per impedire che la svalutazione della moneta nazionale, il bolivar fuerte, determini un’impennata dei prezzi per i cittadini del Paese latinoamericano. Nel corso della sua trasmissione televisiva “Alò presidente”, Chavez ha annunciato l’intenzione di espropriare le attività commerciali che aumenteranno i prezzi, per consegnarle ai lavoratori. Il Venezuela, nel 2009, è stato uno dei Paesi con l’inflazione più alta della regione, con un aumento dei prezzi superiore al 25%. Un quadro che si completa con la forte presenza di un mercato nero nel quale la moneta nazionale viene scambiata con un tasso che arriva a essere tre volte più alto di quello ufficiale.
 

Libano. 12 gennaio. Contraerea dell’esercito libanese spara contro quattro caccia, tipo Phantom, di Israele. Questi avevano violato per l’ennesima volta lo spazio aereo, nel sud del Libano, volando a bassa quota. Ne dà notizia un portavoce dell’esercito, che ha affermato che queste incursioni si producono quasi quotidianamente e precisando che «raramente apriamo il fuoco contro di loro, solo quando sono a tiro della nostra artiglieria». La violazione israeliana si è verificata nella mattinata di ieri nella regione di Marjayoun. Solo in questa zona, negli ultimi tempi, secondo un corrispondente della France Presse ci sono state almeno 70 violazioni. Riprovazione nei confronti di Israele per queste violazioni dello spazio aereo libanese e della risoluzione 1.701 sono giunte anche da Andrea Tenenti, portavoce delle truppe ONU dispiegate nel paese.
 

Turchia / Israele. 13 gennaio. Turchia e Israele sull’orlo della rottura diplomatica, per una fiction anti sionista. Ankara ha minacciato di ritirare il proprio ambasciatore in Israele se non si troverà una soluzione in giornata alla polemica innescata da una serie televisiva turca che mostra agenti israeliani compiere «rapimenti di bambini e crimini di guerra». A minacciare il ritiro del rappresentante diplomatico è stato il presidente turco Abdullah Gul, riporta il canale tv NTV. La serie tv mostra, tra l’altro, un agente segreto turco che irrompe in una missione diplomatica israeliana e porta in salvo un bambino rapito dal Mossad. La diatriba si è trasformata in un braccio di ferro dopo il trattamento riservato all’ambasciatore turco in Israele, Ahmet Oguz Celikkol, convocato al ministero degli Esteri israeliano per discutere della vicenda. A ricevere il diplomatico turco era stato il vice ministro Danny Ayalon, che, dopo essersi rifiutato di stringere la mano all’interlocutore, l’aveva fatto sedere su un sofà, molto più basso della propria sedia, e aveva provveduto a far togliere dal tavolo la bandiera della mezzaluna turca.


Turchia / Israele. 13 gennaio. L’immagine dei due, e soprattutto la differenza di altezza, è stata colta da un quotidiano israeliano, che sotto la foto ha infilato la didascalia: «Il livello dell’umiliazione». Inoltre pare che Ayalon abbia pronunciato in israeliano: «Qui resta solo la bandiera israeliana» e «Non c’è niente da ridere». Ayalon non ha offerto le proprie scuse, richieste dal governo turco, ma, dopo aver affermato che non è sua abitudine la mancanza di rispetto nei confronti degli ambasciatori, ha precisato che «in futuro» esprimerà le proprie opinioni in «un modo diplomaticamente accettabile». In ogni caso, ha affermato alla radio dell’esercito, «questo era il minimo dovuto di fronte alle ripetute provocazioni da parte di esponenti politici turchi». Ankara e Gerusalemme sono alleati da anni. Dall’operazione “Piombo Fuso”, lanciata da Israele a Gaza un anno fa, il rapporto è cambiato. Lo scorso anno un’esercitazione della NATO alla quale avrebbe partecipato anche Israele fu annullata perché Ankara non voleva fosse presente l’aviazione sionista.

 

Cina. 13 gennaio. L’esercito cinese prova con successo un sistema di difesa antimissile. L’annuncio ieri dell’agenzia Xinhua si produce nel pieno delle polemiche per la vendita di armi a Taiwan da parte degli Stati Uniti. Il quotidiano Global Times ha scritto che in questo modo la Cina rientra nel ristretto club di Stati che dispongono di tecnologia per intercettare missili.
 

Palestina / Egitto. 14 gennaio. Una barriera metallica sotterranea alla frontiera con Gaza. L’obiettivo: impedire l’uso, ai palestinesi, dei tunnel da cui passano i prodotti di prima necessità per la popolazione oltre che armi. Il governo egiziano intende così punire Hamas per non aver voluto sottoscrivere un accordo con Al-Fatah nel quale l’Egitto è intervenuto come mediatore. Apprezzamento ed appoggio alle autorità egiziane da parte degli Stati Uniti. Secondo Emad Gad, esperto del centro cairota Al-Ahram per gli studi politici e strategici, «a partire da adesso, Hamas si trova in una situaizone difficile, giacché sarà sottoposto ad un blocco totale, visto che i tunnel attraverso i quali riceveva aiuti dall’Iran saranno chiusi». Fino a questo momento, l’Egitto era il principale mediatore diplomatico di Hamas ed aveva la chiave per la riapertura permanente del terminal frontaliero di Rafah, a sud di Gaza, l’unico che Israele non controlla e che apre solo alcuni giorni al mese. Il professor Sharrab dubita che l’Egitto abbia l’intenzione di bloccare totalmente i tunnel. A suo avviso, il timore di provocare un’esplosione di collera e l’instabilità in una Gaza poverissima dovrebbe far desistere Il Cairo dal proseguire in questa escalation.
 

Palestina / Israele. 14 gennaio. Israele intende costruire un altro muro alla frontiera del Sinai. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha annunciato domenica la costruzione di un nuovo muro di separazione che costerà più di 1.000 milioni di euro e che sigillerà due tratti della frontiera con l’Egitto per «impedire il passaggio di terroristi ed emigranti che cercano un lavoro in Israele». Obiettivo di questo muro, ha spiegato Netanyahu, è «garantire il carattere giudaico e democratico dello Stato d’Israele», secondo quanto riferisce Haaretz. Il muro sarà equipaggiato con un sistema tecnologico di rilevazione delle infiltrazioni, i cui autori saranno localizzati prima di arrivare alla frontiera. Questo progetto è ben visto dall’Egitto, «visto che sarà costruito nel territorio israeliano», ha detto il ministro egiziano degli Esteri, Ahmed Abul Gheit.
 

Iran. 14 gennaio. Teheran accusa Israele e Stati Uniti dell’attentato che ha ucciso lo scienziato nucleare Massud Alí Mohammedi. Ieri l’esplosione di una moto-bomba nelle vicinanze del suo domicilio a Teheran. Le autorità iraniane informano che Mohammedi era legato alle milizie pasdaran e dei Basiji ed era nella lista delle personalità sanzionabili dall’Occidente per il suo ruolo nello sviluppo del programma nucleare iraniano. Secondo l’agenzia Borna News, dipendente dall’IRNA e che ha citato «fonti informate», Mohammedi era «un alto scienziato nucleare del paese». Il presidente del Parlamento iraniano, Ali Lariyani, ha attribuito ai servizi segreti di Stai Uniti (CIA) e Israele (Mossad) la morte dello scienziato nucleare, indicando in «un gruppo monarchico senza credibilità», in allusione al movimento d’opposizione Associazione Monarchica con sede a Londra, come responsabile diretto, di manovalanza, dell’attentato. Questo gruppo ha poi negato di avere alcuna responsabilità. Teheran ha già accusato a dicembre Washington e Tel Aviv di aver sequestrato un altro fisico nucleare, Shahram Amiri, scomparso nel maggio 2009 in Arabia Saudita.
 

Honduras. 14 gennaio. Il Congresso golpista avalla il presidente golpista Roberto Micheletti e ratifica l’uscita dell’Honduras dall’ALBA. La decisione, adottata il 15 dicembre dal Consiglio dei Ministri, è stata ratificata ieri con 123 voti a favore e 5 contrari. Il governo golpista segnalò a dicembre che l’uscita dall’ALBA (Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America), alla quale l’Honduras aveva aderito il 25 agosto 2008, non implicava sospendere le relazioni commerciali con i paesi che la integrano ed ha insistito nel prevedere il mantenimento dell’accordo con Petrocaribe, un’alleanza che ha permesso, durante il governo Zelaya (spodestato poi dai golpisti), che l’Honduras cominciasse a comprare combustibile a credito dal Venezuela, oltre a ricevere cooperazione per diversi progetti sociali.
 

Honduras. 14 gennaio. Micheletti ottiene l’immunità con la nomina di deputato a vita. Il Congresso dell’Honduras lo ha deciso ieri. Il golpista Roberto Micheletti potrà così evitare in futuro di essere processato per delitti legati al colpo di Stato dello scorso 28 giugno.
 

Turchia / Israele. 15 gennaio. Israele si vede costretta a fare marcia indietro e a chiedere scusa alla Turchia. Pare così chiudersi la crisi diplomatica apertasi tra i due paesi anche se rimane il rischio, per lo Stato sionista, di perdere il principale e strategico alleato musulmano che ha. Il detonatore della crisi è stato l’atteggiamento umiliante al quale il viceministro israeliano degli Esteri, Danny Ayalon, ha sottoposto l’ambasciatore turco, Oguz Celikkol, che aveva convocato per protestare per la messa in onda di una teleserie in cui agenti del Mossad appaiono uccidendo bambini. Ayalon fece sedere su una sedia molto più bassa Celikkol quando lo convocò. «Una condotta infantile» quella del governo Netanyahu, disse il commentatore del Canale 2 (privato) della televisione israeliana, Amnon Abramovich. Il quotidiano Haaretz al riguardo ha scritto che «il popolo turco non ci perdonerà e non dimenticherà mai».
 

Turchia / Israele. 15 gennaio. Sta virando la politica estera di Ankara? Parrebbe proprio di sì. La crisi delle ultime ore tra Israele e Turchia s’inscriverebbe in questo scenario. Secondo alcuni analisti sta virando verso i paesi arabi, mentre altri ritengono che Ankara ambisca a diventare una potenza regionale. In meno di un anno, il presidente turco, Abdullah Gül, ed il primo ministro turco, Recep Tayyip Erdogan, hanno visitato tre volte la Siria ed hanno ricevuto dirigenti giordani, egiziani, libanesi e libici, firmando accordi di cooperazione e di soppressione dei visti con questi paesi. Significative le critiche di Erdogan a Israele per quel che sta facendo, dalla mattanza dello scorso anno, a Gaza. All’Occidente che vuole punire l’Iran dice che «Israele ha armi nucleari e quelli che si allarmano di fronte all’Iran dovrebbero fare lo stesso di fronte ad Israele». Agli inizi di novembre, provocando stupore a Washington e Bruxelles, ha difeso il presidente sudanese, Omar al-Bashir, contro il quale è stato spiccato un ordine di arresto internazionale. Da ricordare che la Turchia, membro della NATO, ha firmato nel 1996 un’alleanza militare con Israele.
 

Yemen. 15 gennaio. Gli ulema dello Yemen avvertono gli Stati Uniti: proclameranno la guerra santa in caso d’intervento straniero nel paese. Il consiglio degli ulema, che ha riunito 150 studiosi dell’Islam in una moschea della capitale Sana’a, sempre nel comunicato diffuso ieri, ha ribadito il proprio rifiuto a qualunque tipo di collaborazione del regime di Sana’a con gli USA.
 

Libano. 16 gennaio. Hezbollah risponde alle minacce d’Israele. Hassan Nasrallah, alto dirigente del movimento sciita della resistenza nazionale, ha avvertito che, in caso di attacco israeliano, le sue milizie torneranno a vincere e «cambieranno la faccia della regione». Ha risposto così alle minacce lanciate due giorni fa dal ministro israeliano della Difesa, Ehud Barack. Israele ritiene che Hezbollah possa attualmente contare su 40mila razzi, a fronte dei 14mila di cui disponeva nell’ultima aggressione sionista dell’estate 2006.
 

Libano. 16 gennaio. Hezbollah ha il diritto a tenere le armi essendo incombente la minaccia d’aggressione israeliana e permanendo la sua occupazione di porzioni di terra libanese. Questo diritto è stato ratificato il 2 dicembre scorso dal governo libanese, con un articolo (il 6) di una dichiarazione politica che pone allo stesso livello Stato, esercito, popolazione e Hezbollah nel far fronte a qualunque aggessione israeliana. Si oppose solo il ministro del Lavoro, Butros Harb, ed espressero dubbi quattro ministri. Alla fine il documento passò senza emendamenti. Il ministro dell’Informazione, Tarek Mitri, al termine della riunione del governo, ridimensionò la portata delle «riserve», escludendo che si potesse parlare di un’opposizione in seno al governo. Nella riunione, il presidente, Michel Suleiman, dichiarò che Israele continuava ad essere una minaccia per il Libano e che era necessario affrontare questa questione con grande responsabilità nazionale. In una videoconferenza trasmessa qualche giorno prima dalle televisioni arabe, il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, aveva riaffermato la validità della resistenza come unico mezzo per far fronte ad Israele, precisando che questa ha da combinarsi con l’esercito libanese. Dopo aver rilevato che gli Stati Uniti si ridimensioneranno come forza egemonica mondiale, giacché il loro sistema è in crisi, accusò Washington di promuovere «una politica che incoraggia l’instabilità e sostiene l’entità sionista», ed aggiunse che «Israele costituisce una minaccia permanente per il Libano stante le sue ambizioni storiche su questo territorio e per l’acqua».
 

Kurdistan. 16 gennaio. Öcalan delega la sua leadership nel PKK a causa dell’isolamento carcerario cui è sottoposto. Abdullah Öcalan, dirigente storico del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), ha rimesso ieri le sue responsabilità non potendo portarle avanti nelle condizioni di vita di isolamento estremo e da ergastolano cui è sottoposto nell’isola-prigione di Imrali. E’ il via libera a che la dirigenza in libertà della formazione possa agire come ritenga necessario. Ne dà notizia l’agenzia Firat. Öcalan è uno degli interlocutori in rappresentanza del popolo kurdo nell’incipiente processo di dialogo che il primo ministro turco, Recep Tayyip Erdogan, ha avviato ma che si è già bloccato. Tra gli interlocutori anche il DTP, formazione che rappresenta gli eletti kurdi nel Parlamento di Ankara e che è appena stato illegalizzato dalla Corte Costituzionale turca. Il governo ha trasferito altri cinque prigionieri politici kurdi a Imrali, ma l’isolamento rispetto all’esterno continua ad essere estremo. Öcalan ha pertanto detto ieri che cesserà di dare ordini ai membri del PKK a partire dai mesi di febbraio-marzo.
 

Kurdistan. 16 gennaio. La decisione di Öcalan si produce a poco più di un mese dall’illegalizzazione del partito kurdo DTP (Partito della Società Democratica). L’11 dicembre la Corte Costituzionale lo ha messo fuori legge e ha fatto decadere il mandato del presidente Ahmet Turk, della deputata Aysel Tugluk e a 37 dirigenti del DTP ha fatto divieto di fare politica per 5 anni, con la motivazione di essere una minaccia per l’unità nazionale secondo gli artt. 101 e 102. I 37 dirigenti politici kurdi sono: Abdulkadir Fırat, Abdullah İsnaç, Ahmet Ay, Ahmet Ertak, Ahmet Türk, Ali Bozan, Ayhan Ayaz Aydın Budak, Ayhan Karabulut, Aysel Tuğluk, Bedri Fırat, Cemal Kuhak, Deniz Yeşilyurt, Ferhan Türk, Fettah Dadaş, Hacı Üzen, Halit Kahraman, Hatice Adıbelli, Hüseyin Bektaşoğlu, Hüseyin Kalkan, İzzet Belge, Kemal Aktaş, Leyla Zana, Mehmet Veysi Dilekçi, Metin Tekçe, Murat Avcı, Murat Taş, Musa Farisoğlulları, Necdet Atalayı, Nurettin Demirtaş e Selim Sadak. Al termine di una conferenza stampa emotivamente forte, Ahmet Türk, presidente del DTP, ha annunciato che il gruppo parlamentare (che conta 21 deputati) si ritirerà dal parlamento. «Abbiamo fatto politica fino a oggi» –ha detto Türk– «perché credevamo nel potere della politica e vedevamo nel parlamento un luogo dove i problemi possono essere risolti. Condanniamo fortemente la decisione della corte costituzione della Turchia, che non aiuta ad una soluzione pacifica e democratica della questione kurda. Questa decisione rallenta ulteriormente la democratizzazione della Turchia e cerca di spingere il popolo kurdo fuori della scena politica. Siamo sicuri che il nostro popolo non lascerà la strada politica e pacifica per la soluzione della questione kurda ma se l’Unione Europea vuole una Turchia democratica deve intervenire per far cambiare la legge che riguarda i partiti politici. Una Turchia che nel XXI° secolo mette fuori legge l’unica voce politica kurda in Turchia non dovrebbe avere il diritto di entrare nella UE».
 

Haiti. 16 gennaio. Commando della U. S. Air Force Special Operation Forces si impadronisce dell’aeroporto di Port-au-Prince e improvvisa le funzioni di una torre di controllo. Sono ora i militari USA a decidere chi può atterrare e chi no. Il dispiegamento di forze militari USA verso Haiti è senza precedenti per un disastro naturale. Su ordine del presidente Obama il comando meridionale del Pentagono ha già fatto arrivare al largo dell’isola la portaerei Uss Carl Vinson con un «vasto contingente di aerei ed elicotteri». L’affianca una nave anfibia che trasporta un corpo di spedizione di 2mila marines, seguita da altre quattro navi militari. Ancora più veloce è il dispiegamento di truppe aviotrasportate voluto dalla Casa Bianca. Arrivata ad Haiti, su ordine di Obama, l’82^ divisione dei paracadutisti, 5.000 soldati partiti a velocità record sugli aerei da trasporto C-17, decollati dalla base di Fort Bragg nel North Carolina. Entro fine settimana il contingente militare USA raddoppierà, arrivando a 10mila. A fianco a una nave-ospedale, la Usns Comfort, si schiera una delle più moderne portaerei del Southern Command. L’82^ Airborne Division dovrà mobilitarsi anche in una missione di polizia militare.
 

Venezuela. 16 gennaio. Aumento del salario minimo pari al 25%: del 10% in marzo e di un altro 15% in settembre. L’annuncio è venuto direttamente dal presidente venezuelano Hugo Chavez. Nominati anche due nuovi ministri: Alì Rodriguez all’Elettricità e Jorge Giordani agli accorpati ministeri della Pianificazione e delle Finanze. Chavez, con un lungo discorso all’Assemblea Nazionale, ha parlato anche delle difficoltà suscitate nella capitale dal piano di razionamento energetico. A Caracas l’entrata in vigore del decreto che sospendeva per quattro ore al giorno l’energia elettrica aveva provocato un caos generalizzato, costringendo il governo a tornare sui propri passi e a sostituire il ministro dell’Energia Angel Rodríguez con il titolare delle Finanze, Alí Rodríguez. Quest’ultimo ha comunque ribadito che il piano di risparmio energetico deve continuare, per evitare un «disastro nazionale». Chavez ha poi minacciato di espropriare i negozi che aumentino i prezzi.
 

Venezuela. 16 gennaio. Si sono registrati interventi contro negozianti che, approfittando della svalutazione, hanno speculato sui prezzi: a decine di negozi e supermercati è stata imposta la chiusura. Non si sono salvate neppure le due grandi catene commerciali Cada ed Exito (quest’ultima a capitale franco-colombiano), per le quali è stata annunciata l’espropriazione.
 

Euskal Herria. 17 gennaio. ETA: processo democratico, unica opzione. In un comunicato in lingua basca pubblicato dal quotidiano basco Gara (17 gennaio), ETA (Euskadi Ta Askatasuna, Patria basca e libertà) sottolinea che è arrivato il momento di prendere l’iniziativa e plaude al lavoro della sinistra abertzale (patriottica, indipendentista, ndr) basca. Iniziativa, dibattito, collaborazione, processo democratico, attivazione della società, organizzazione e lotta sono gli assi principali su cui ruotano le riflessioni che ETA articola nel suo comunicato. «Tenendo conto che bisogna rispondere alla repressione» –afferma ETA– «la nostra forza si radica nella lotta politica». «La sinistra abertzale», si legge nel comunicato, «motore della lotta di questo popolo, ha parlato, e ETA fa proprie le sue parole. Non possiamo rimanere fermi a guardare il nemico, è giunta l’ora di prendere l’iniziativa e agire, anche adesso. In questo momento in cui il nemico sferra il suo attacco più duro non possiamo rimanere fermi in una posizione di mera resistenza. Dobbiamo rispondere con quella capacità di iniziativa che vorrebbero soffocare. Sicuramente più che resistere alla repressione, la nostra forza risiede nella lotta politica. Le ragioni del nemico si riducono a niente davanti alla Sinistra abertzale nel dibattito politico».
 

Euskal Herria. 17 gennaio. ETA sottolinea nel comunicato che «la sinistra abertzale è l’unica che propone un quadro politico che fa propria l’opzione per cui tutti i progetti politici possano essere sostenuti e possano svilupparsi liberamente». In questo senso, valorizza e plaude all’attitudine e al lavoro della sinistra indipendentista perché, nonostante gli attacchi di cui è oggetto, ha saputo mantenersi risoluta nella lotta ed allo stesso tempo ha avanzato proposte: «Questo è quel che abbiamo visto a Altsasu (Dichiarazione di Altsasu del 14 novembre 2009, condivisa dalla sinistra abertzale, seguita da 7 punti considerati i principi con i quali iniziare un cammino verso una risoluzione del conflitto basco, ndr), la sinistra abertzale plurale di sempre, differenti origini, generazioni, tendenze e personalità unite nella collaborazione. Questo è stato uno dei segreti della sinistra abertzale, intensa nel dibattito e ferma nelle decisioni, unita». Il comunicato di ETA giunge dopo la dichiarazione della sinistra abertzale, annunciata a Venezia e nei Paesi Baschi il 14 novembre scorso. Da allora nei Paesi Baschi è in atto una consultazione tra la base e la popolazione sui principi del documento. Nella dichiarazione del 14 novembre, definita ‘un primo passo per il processo democratico’, la sinistra abertzale sosteneva tra le altre cose «che lo strumento fondamentale per la nuova fase politica è il processo democratico e la sua messa in moto, una decisione unilaterale della sinistra abertzale. Per il suo sviluppo si cercheranno accordi bilaterali o multilaterali; con gli attori politici baschi, con la comunità internazionale e con gli Stati per il superamento del conflitto. In definitiva il processo democratico è la scommessa strategica della sinistra abertzale per ottenere il cambiamento politico e sociale».
 

Euskal Herria. 17 gennaio. Nel suo comunicato ETA sostiene che il processo democratico diventerà «il centro della lotta da sviluppare in futuro dalla sinistra abertzale», e aggiunge che ciò significherebbe «la democratizzazione di una situazione politico-giuridica di oppressione; il superamento in termini democratici, del conflitto politico; la valorizzazione dei diritti nazionali di Euskal Herria ed i diritti civili e politici dei suoi cittadini; portare Euskal Herria in uno scenario di autodeterminazione in modo graduale, regolato e condiviso; dotare di meccanismi giuridici-politici il nostro popolo per poter passare, così da una situazione di oppressione ad una di riconoscimento». Partendo dall’affermazione che «il processo democratico non è la migliore opzione, bensì l’unica», ETA ribadisce che «dobbiamo comprendere che la sua principale garanzia è il nostro popolo. Perché solo con la forza e la spinta del nostro popolo si potrà aprire, costruire e portare fino in fondo questo processo». Dalle esperienze passate si devono trarre –scrive ETA– due lezioni: «se non ci sarà questa attivazione popolare, il processo democratico non avanzerà», ma non sarà possibile nemmeno senza la partecipazione dello Stato spagnolo. «Se il processo democratico» –insiste ETA– «deve svilupparsi con mezzi democratici e senza ingerenze, come crediamo anche noi, anche l’ingerenza e la violenza dello Stato devono cessare». Il comunicato si conclude sottolineando che «la vittoria sta nella lotta e vogliamo invitare il nostro popolo e ogni cittadino a organizzarsi e lottare, a essere protagonista nella liberazione del nostro popolo». Cfr. http://www.gara.net/paperezkoa/20100117/177657/es/ETA-hace-suyos-planteamientos-expresados-izquierda-abertzale . Per approfondimenti, vedi “Euskal Herria/ La proposta politica della sinistra patriottica basca” (in “Indipendenza”, n.27, novembre/dicembre 2009, versione cartacea).
 

Libano. 17 gennaio. Hamas e Hezbollah s’incontrano ai massimi livelli per analizzare il conflitto palestinese. Il massimo dirigente del movimento palestinese Hamas, Khaled Meshal, ed il massimo dirigente del movimento libanese Hezbollah, Hassan Nasrallah, si sono riuniti in Libano. Al termine, entrambe le organizzazioni hanno dichiarato di aver analizzato le diverse «gestioni politiche che si stanno mettendo in atto per riannodare le negoziazioni di pace» ed hanno criticato i dirigenti arabi per aver intavolato dette negoziazioni «secondo le condizioni israeliane», il che dimostra la loro incapacità di «fronte alle minacce nemiche».
 

Ucraina. 19 gennaio. Mosca è la grande vincitrice delle elezioni presidenziali in Ucraina. Viktor Yanukovich (36,36% dei voti) e Yulia Timoshenko (25%) sono passati al secondo turno del 7 febbraio, mentre Viktor Yushenko (5,51%) è fuori. La Russia vede uscire di scena un suo nemico. Chiunque sia il futuro presidente dell’Ucraina, il filo-russo Viktor Yanukovich o la musa della Rivoluzione Arancione Yulia Timoshenko, che ora intende mantenere buone relazioni con la Russia, Mosca potrà contare su un interlocutore molto più conciliante, dopo anni di scontro aperto. Secondo il politologo russo Fedor Lukianov «le relazioni passeranno ad essere pragmatiche, cioè, mercantili». Andrew Wilson, esperto del Consiglio Europeo delle Relazioni Internazionali, ne è convinto: «nessuno dei candidati è una marionetta di Mosca», anche se è significativo che né Yanukovich né Timoshenko «hanno menzionato l’adesione alla NATO o l’uscita della flotta russa dal mar Nero», due delle questioni sulle quali Yushenko accendeva l’ira russa. «La Russia ha vinto. La politica di de-russificazione dell’Ucraina è uscita screditata», sentenzia il politologo filo-russo Sergei Markov. Le relazioni ucraino-russe si sono degradate notevolmente dopo l’elezione di Yuschenko nel 2004 largamente foraggiato da Washington. I momenti più intensi del confronto si sono avuti con le due crisi che privarono l’Europa del gas russo, nel 2006 e nel 2009. Dall’estate 2009, il Cremlino ha deciso di non negoziare più, su questa questione, con Yushenko. Ora, al secondo turno, risulterà chiave la figura del banchiere-imprenditore Sergei Tigipko, che ha ottenuto il terzo posto, nel suo esordio alle presidenziali, con il 13,07% dei voti.
 

Palestina. 20 gennaio. Se Fatah siglasse un accordo di riconciliazione con Hamas, l’amministrazione statunitense potrebbe punirla mettendola sotto assedio. E’ quanto ha dichiarato ieri Jibril al-Rejoub, vice-segretario del Comitato centrale di Fatah, al quotidiano tunisino Al-Sabah. In un’intervista televisiva mandata in onda da Al-Quds Tv, sempre ieri, il premier palestinese nella Striscia di Gaza, Ismail Haniyah, ha dichiarato che la riconciliazione nazionale non sarà raggiunta finché la volontà palestinese non sarà libera da pressioni e diktat stranieri. E ha aggiunto che Hamas vuole un accordo onnicomprensivo che non lasci spazio agli errori passati.
 

Honduras. 21 gennaio. «Oggi mi sento orgoglioso e con la fronte molto in alto». Così, colui che ha raggiunto l’obiettivo di scalzare con il golpe Zelaya, il golpista Roberto Micheletti, ha detto rivolgendosi ai salvadoregni, al momento di lasciare la Casa Presidenziale. Ha precisato, nel suo messaggio trasmesso via radio e per televisione in tutto il territorio nazionale, di non lasciare il potere, ma solo di mettersi «a lato» per facilitare l’inizio del nuovo governo che presiederà Porfirio Lobo a partire dal prossimo 27 di queste mese. «Con questo gesto, offro al presidente eletto le maggiori opportunità di iniziare il suo mandato con ampia effettività, evitando che la mia persona sia una distrazione nel processo di alternabilità al potere o un argomento perché l’Honduras non riceva un maggior riconoscimento della comunità internazionale», ha aggiunto Micheletti. Intanto i sei membri della Giunta dei Comandanti delle Forze Armate (messi ora sotto accusa, per salvare le apparenze, dalla giustizia per l’espulsione dal paese del deposto presidente Manuel Zelaya, il 28 giugno 2009), dovranno non uscire dall’Honduras e presentarsi a mettere la firma ogni mese in un registro alla Corte Suprema.
 

Galizia / Spagna. 22 gennaio. Decine di migliaia di persone in corteo, ieri, a Compostela, in difesa della lingua gallega nell’insegnamento. Protestavano contro il decreto del plurilinguismo approvato dalla Giunta di Galizia, presieduta da Alberto Núñez Feijóo (Partito Popolare), che riduce le ore in gallego per incrementare la presenza dell’inglese come lingua veicolare. Lo sciopero generale nella scuola ha avuto un seguito del 90% tra professori e alunni.
 

Bolivia. 23 gennaio. Morales annuncia suddivisioni di terre dopo essere stato investito per la seconda volta consecutiva come presidente della Bolivia. Alla nuova Assemblea Legislativa Plurinazionale, Evo Morales ha detto che tredici milioni di ettari saranno ripartiti tra gli emigranti che vogliano tornare, gli indigeni ed i contadini senza terra. Il vicepresidente, Álvaro García Linera, che ha preso possesso ieri della carica, ha sottolineato che l’orizzonte del suo paese è il socialismo. «La nostra modernità statale, quella che stiamo costruendo con la dirigenza popolare, è molto distinta dalla modernità capitalista», ha detto.
 

Francia. 24 gennaio. Nuove guerre in Medio Oriente? Ne è convinto il presidente francese Nicolas Sarkozy che fissa anche una data: quest’anno. A riferire la previsione di Sarkozy, convinto che Israele sia sempre più vicino ad un attacco all’Iran, è l’autorevole quotidiano arabo al Hayat. Sarkozy, riferisce il giornale, ha fatto questa previsione durante la recente visita del premier libanese Saad Hariri a Parigi. Ieri, poi, il ministro israeliano Yossi Peled, ha detto che si tratta solo di una questione di tempo ma che tra lo Stato ebraico e il movimento sciita Hezbollah riprenderanno le ostilità. Peled, un ex generale, ha aggiunto che, in caso di conflitto, Israele considererà «sia il Libano che la Siria responsabili».
 

Haiti. 25 gennaio. «Gli americani tendono a confondere l’intervento militare con quello di emergenza. Manca una capacità di coordinamento, utile per non disperdere gli aiuti che sono stati inviati». Così Guido Bertolaso, direttore della Protezione civile Italiano. E poi aggiunge: «si assiste a una fiera della vanità. Si viene qua con l’ansia di far bella figura davanti alle telecamere, si sventolano le bandiere, ma non c’è uno che dice “lavorate e poi andate davanti alle telecamere e prendete la medaglietta”». Il riferimento è anche a Bill Clinton che ad Haiti si fa riprendere mentre scarica le cassette come fosse un umile volontario. «Clinton [ex presidente USA, ndr] che scarica le cassette della frutta» non è servito. «Sarebbe stata la svolta se lui avesse gestito l’emergenza in prima persona, invece se n’è andato», dice Berolaso. La «tecnica d’intervento» ad Haiti applicata dagli USA, aggiunge, è quella già usata in passato a Goma, Ruanda e Cambogia. «Si viene qui, si dà un po’ da mangiare, bere e il problema per loro è risolto, ma è una contraddizione se non si pongono le basi per la vita futura».
 

Haiti. 25 gennaio. Approfittando di una tragedia umanitaria per interessi innanzitutto geopolitici, Washington ha preso possesso di Haiti. Il 12 gennaio, un terremoto di 7,3 gradi della scala Richter devasta il più povero paese del continente; il 19 gennaio dagli elicotteri, partiti dalle portaerei mandate da Obama, scendono i marines, mitragliatrici in pugno, posizionandosi subito di fronte al Palazzo Nazionale di Port-au-Prince a rappresentare l’immagine più significativa della “solidarietà armata” di Washington. Obama manda soldati (un totale di 15mila, tra quelli già presenti ed i nuovi arrivati), invece di medici, infermieri e squadre di soccorso, mentre, tra i primi a prestare soccorso poche ore dopo il sisma, ci sono già i venezuelani e i cubani (questi ultimi avevano già una missione sanitaria sul posto, poi raggiunta da un nuovo contingente di medici). I marines di Obama occupano anche l’aeroporto, ostacolando di fatto i soccorsi: a molti aerei con a bordo ospedali da campo e medicine viene impedito l’atterraggio e deviati nella Repubblica Dominicana (da dove è molto difficile raggiungere il territorio haitiano), per lasciare pista libera all’arrivo delle truppe o alla visita della segretaria di Stato Hillary Clinton. Per questo il ministro degli Esteri brasiliano Celso Amorim protesta con il Dipartimento di Stato USA. Denunce vengono anche da Médecins Sans Frontières e dalla ONG Konbit pou Ayiti. Il ministro francese alla Cooperazione, Alain Joyandet, chiede al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di definire il ruolo statunitense, e dice senza mezzi termini: «Si tratta di aiutare Haiti, non di occuparla». Di «occupazione militare» parla il presidente boliviano Evo Morales. Il venezuelano Hugo Chávez afferma che «l’impero» sta prendendo possesso di Haiti «sui cadaveri e le lacrime del suo popolo». Ci pensa Obama a chiarire le intenzioni USA: dopo aver affidato ai suoi predecessori Bush e Clinton la guida della raccolta di fondi a favore della ricostruzione, dichiara che il successo della missione sarà misurato «non in giorni e settimane, ma mesi e anni». A scanso di equivoci, il 21 gennaio, l’ambasciatore USA all’ONU, Alejandro Wolff, precisa che gli Stati Uniti manterranno le loro truppe nel paese «a lungo termine» e annuncia l’invio di altre migliaia di soldati.
 

Haiti. 25 gennaio. In Italia, il governo prende le distanze dalle dichiarazioni di Bertolaso, per compiacere l’alleato/padrone di questo paese. «Non si riconosce», dice il ministro degli Esteri Franco Frattini, da oggi in visita diplomatica negli USA, nei giudizi pronunciati (ieri, ndr) dal capo della Protezione civile Guido Bertolaso, un “tecnico” peraltro spesso elogiato da maggioranza e opposizione per la sua competenza...
 

Guayana e Martinica. 25 gennaio. Guayana e Martinica avranno una «collettività unica» all’interno della struttura francese. Gli elettori di Guayana e Martinica, convocati per pronunciarsi per la seconda volta, in quindici giorni, sul proprio futuro istituzionale, hanno detto ieri “sì” alla «collettività unica», in consultazioni marcate dalla scarsa partecipazione. Dopo aver respinto l’autonomia il 10 gennaio in referendum, ieri è stata approvata «la creazione di una collettività unica che eserciti le competenze attribuite al dipartimento e alla regione, come stabilisce l’articolo 73 della Costituzione». Questo significa che, invece di essere retti da un consiglio regionale ed un consiglio generale, queste «regioni monodipartimentali» saranno gestite da una sola collettività, invece delle due attuali, «con le stesse regole che nella metropoli». Il referendum di ieri è stato convocato dal governo francese, che desiderava porre termine alla spesa che comporta il mantenere (dal 1982) una doppia struttura istituzionale. In Guayana, ieri, si è recato alle urne il 27,44% degli aventi diritto ed in Martinica il 35,81%, in entrambi in netto calo rispetto al referendum del 10 gennaio.
 

Afghanistan. 26 gennaio. Elaborazione di un piano di stabilizzazione politica a scapito di quello militare. Secondo il comandante delle forze internazionali in Afghanistan, gen. statunitense Stanley McChrystal, intervistato ieri dal Financial Times, è inevitabile una soluzione politica al conflitto in Afghanistan. In tal senso si muove anche la diplomazia internazionale. Il governo di Berlino è anche pronto a finanziare con 50 milioni di euro il fondo destinato ad incoraggiare i militanti taliban ad abbandonare la lotta armata. A Londra i Paesi membri della NATO decideranno anche su eventuali ulteriori contributi militari dopo l’aumento delle truppe deciso dagli Stati Uniti. Proprio oggi il cancelliere tedesco ha confermato l’invio di altri 500 soldati supplementari in Afghanistan con una riserva flessibile di altri 350 uomini.
 

Afghanistan. 26 gennaio. Vero è che l’opzione dell’escalation militare resta sul terreno. McChrystal da tempo chiede l’invio di rinforzi nel Paese. Con il suo contingente la Germania è attualmente il terzo Paese a contribuire alla forza internazionale Isaf in Afghanistan. Washington ha annunciato lo scorso dicembre l’invio di altri 30mila uomini e altri Paesi europei, come la Spagna, Romania e Polonia, ne hanno seguito l’esempio. La Francia non ha ancora dato la sua disponibilità. In totale, dai soli Paesi europei dovrebbero giungere in Afghanistan altri 7mila soldati. Dalla Finlandia promessi altri 50 soldati. Il governo afghano, in occasione del vertice di Londra del 28 gennaio, ha messo a punto un piano per una proposta nazionale di riconciliazione. Un progetto che prevede anche l’apertura di una trattativa con esponenti taliban e con il leader del movimento “Hezb-e-Islami”, Gulbuddin Hekmatyar. In merito sembra che Karzai sia anche intenzionato a chiedere una revisione della lista nera dell’ONU da cui poi escludere i nomi di influenti personalità talebane considerati moderati. Il governo di Kabul pare abbia già raccolto l’appoggio preventivo di molti dei Paesi della coalizione internazionale tra cui Stati Uniti e Gran Bretagna. Un appoggio che prevede anche l’adesione all’offerta di lavoro, sicurezza, istruzione e benefici sociali per quanti accetteranno di aderire al piano di riconciliazione nazionale progettato dal governo afghano. A favore di questo piano si sono espressi anche l’inviato USA in Afghanistan, Richard Holbrooke, e il segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen. Anche i Paesi confinanti con l’Afghanistan e la Turchia hanno annunciato che sosterranno il piano del presidente Karzai. Una prima reazione a questo progetto, già giunta dai diretti interessati, i taliban, è stata negativa. Molti sperano che accettino di sedersi intorno, ma il timore è che si finisca solo per portare al tavolo dei negoziati taliban di ‘basso livello’. Karzai ha già annunciato che dopo Londra convocherà una ‘Jirga’, assemblea di pace tribale, per ricevere sostegno al suo progetto e per il quale chiederà anche l’appoggio dell’Arabia Saudita. 
 

Salvador. 26 gennaio. Il Salvador non entrerà nell’ALBA. Lo ha ribadito ieri il presidente salvadoregno, Mauricio Funes. L’ALBA (Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America) «non porta al momento nessun beneficio al paese», ha dichiarato, aggiungendo che darà impulso «all’integrazione o associazione con altri paesi della regione che favoriscano il popolo salvadoregno», giacché i suoi vicini sono i suoi principali soci commerciali insieme agli USA. «Mi interessa più la relazione con Guatemala e Honduras, ma ciò non significa che non andiamo a costruire relazioni d’intesa con Venezuela, Bolivia o Cuba», ha sostenuto.
 

Venezuela. 26 gennaio. Giorni di tensione in Venezuela dopo la decisione del governo di oscurare, a partire dalla mezzanotte del 23 gennaio, Rctv (Radio Caracas Televisión Internacional) e altri cinque canali via cavo, accusati di aver violato la “Ley de Responsabilidad Social en Radio y Televisión” che impone alle reti nazionali la trasmissione delle comunicazioni ufficiali (compresi i discorsi del presidente Chávez) ed il pagamento delle tasse. Su Rctv, il fatto che abbia sfidato platealmente il governo, andando incontro a una sicura sanzione, ha indotto molti a ritenere che la proprietà cercasse proprio un provvedimento di chiusura, per giustificare il ricorso a massicci licenziamenti del personale. Nelle manifestazioni a favore e contro la chiusura di Rctv si sono registrati incidenti e scontri in tutto il paese, con il bilancio di due morti (due studenti filogovernativi raggiunti da colpi d’arma da fuoco) e di una trentina di feriti. In seguito la Comisión Nacional de Telecomunicaciones ha ritirato il provvedimento contro TV Chile e due televisioni del gruppo messicano Televisa, perché i canali internazionali non sono tenuti all’osservanza della Ley de Responsabilidad Social. Quanto alle emittenti nazionali, nel momento in cui adempiranno agli obblighi di legge, potranno riprendere le trasmissioni.
 

Honduras. 27 gennaio. Amnistia generale per i reati politici e comuni connessi, per tutti i coinvolti nel colpo di Stato militare contro Manuel Zelaya. Ieri il provvedimento è stato approvato dal Congresso Nazionale dell’Honduras. Secondo il decreto, l’amnistia riguarda i reati di «tradimento della patria, contro la forma di governo, terrorismo, sedizione». Tra quelli «comuni connessi», ci sono anche «usurpazione delle funzioni, disobbedienza, abuso di autorità e violazione dei doveri dei funzionari». Pochi minuti dopo la sua investitura, Porfirio Lobo ha dato luce verde a detta misura. Il Fronte della Resistenza in Honduras ha indetto due mobilitazioni per protestare contro la presa di possesso di Lobo e per ribadire il suo appoggio al presidente Zelaya. Le manifestazioni più importanti si sono tenute nelle città di San Pedro Sula e nella capitale, Tegucigalpa, dove il corteo è terminato all’aeroporto di Toncontín, dove una moltitudine ha salutato Zelaya all’atto della sua uscita dal paese.
 

Honduras. 27 gennaio. Sette mesi dopo il golpe, Zelaya viene di nuovo espulso dall’Honduras. Il presidente legittimo dell’Honduras, Manuel Zelaya, ha lasciato il paese con destinazione la Repubblica Dominicana, dove sarà ricevuto in base a un salvacondotto frutto dell’accordo sottoscritto tra il presidente di questo paese, Leonel Fernández, ed il vincitore delle elezioni honduregne, Porfirio Lobo. Quest’ultimo ha preso possesso della carica in sostituzione di Roberto Micheletti. L’Accordo per la Ricostruzione Nazionale ed il Rafforzamento della Democrazia in Honduras firmato a Santo Domingo stabilisce che, grazie ad un salvacondotto, Zelaya, la sua famiglia ed i collaboratori più prossimi possano recarsi nella Repubblica Dominicana in qualità di «ospiti distinti». Una volta qui, Zelaya avrà la libertà di recarsi in un altro Stato, se lo desidera, secondo gli accordi. Questi ha già fatto sapere che intende permanere nell’isola un paio di settimane e poi trasferirsi in Messico, dove prevede di risiedere «per un qualcerto tempo» e incorporarsi nel Parlamento Centroamericano. Zelaya ha quindi espresso l’intenzione di voler tornare nel suo paese quando ci siano condizioni per affrontare la giustizia del suo paese. A suo parere, attualmente, non esistono giudici giusti in questa nazione ed ha dichiarato che si recherà nei tribunali quando il verdetto non sia manipolato dai gruppi golpisti. «La mia idea è di ritornare un giorno, non so quanto tempo passerà, ma so che ritornerò», ha affermato lunedì in un’intervista ad una radio locale.
 

Honduras. 27 gennaio. Scarsa la presenza internazionale alla cerimonia di insediamento di Porfirio Lobo. Tra estreme misure di sicurezza –circa 5.500 tra effettivi di polizia e militari, secondo TeleSur– hanno assistito solo i presidenti di Panama (Ricardo Martinelli), della Repubblica Dominicana (Leonel Fernández), di Taiwan (Ma Ying-Jeou) e il vicepresidente della Colombia (Francisco Santos). I paesi dell’Unione Europea hanno inviato, come rappresentanti, incaricati d’affari. Si chiude in questo modo questa prima fase golpista iniziata il 28 giugno con la destituzione del presidente costituzionale Manuel Zelaya, golpe attuato dalla destra civile e dal vertice militare (ora messo sotto accusa dalla giustizia per salvare le apparenze), grazie all’appoggio decisivo dell’amministrazione USA, che pure aveva detto di condannare il golpe.
 

Palestina. 28 gennaio. Motovedette da guerra israeliane continuano ad attaccare i pescherecci palestinesi. Oggi è stata la volta di un pescatore palestinese, Wael al-Bardawil, che si trovava al largo delle coste della Striscia di Gaza, ferito all’addome e ricoverato all’ospedale Abu Yusef an-Najjar, a Rafah. Poco prima le motovette da guerra avevano aperto il fuoco contro tre pescherecci palestinesi che si trovavano a due miglia dalla spiaggia di Rafah, danneggiandone alcuni a colpi di cannone. La Striscia di Gaza, abitata da 1,5 milioni di cittadini palestinesi, vive sotto assedio dal 2007. I pescatori sono circa 3.500.
 

Palestina. 28 gennaio. In aumento malformazioni congenite nei neonati a Gaza. A constatarlo, molti specialisti medici che hanno rilevato l’incremento dopo l’aggressione israeliana dello scorso anno. In crescita anche gli aborti spontanei. Sotto accusa l’utilizzo, nei bombardamenti, del fosforo bianco.
 

Yemen. 28 gennaio. Conferenza sullo Yemen a porte chiuse al Foreign Office. Vi partecipano il premier yemenita, Ali Mohammed Megawar e il ministro degli Esteri, Abubakr Al-Qirbi, oltre ai ministri degli Esteri dei Paesi del G8. Assicurata anche la presenza del segretario di Stato USA Hillary Clinton, e del Consiglio di cooperazione del Golfo, Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi, Oman, Kuwait e Bahrain oltre che dell’Alto rappresentante per la politica Estera dell’Unione Europea, UE, Catherine Ashton, delle Nazioni Unite, della Banca Mondiale, del Fondo monetario internazionale. Si punterà a trovare un’intesa per il sostegno allo sviluppo e all’economia dello Yemen e soprattutto il sostegno alla lotta “contro il terrorismo”.
 

Palestina. 29 gennaio. Hamas imputa ad Israele l’assassinio a Dubai di un suo esponente di spicco, Mahmoud Abdul Raouf al-Mabhouh, 50 anni, uno dei fondatori delle brigate Izz al-Din al-Qassam, braccio militare di Hamas, che prendono il nome da un religioso siriano attivo contro la presenza militare britannica in Palestina negli anni Trenta. Dell’assassinio, avvenuto dieci giorni fa a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, Hamas ha informato solo dieci giorni dopo con un comunicato. Per ragioni di opportunità, ha detto Izzat al-Rishaq, membro dell’ufficio politico della delegazione di Hamas in esilio a Damasco (Siria). «Mabhouh è stato assassinato il 20 gennaio scorso, in circostanze misteriose, il giorno dopo essere arrivato a Dubai proveniente da Damasco», ha dichiarato al-Rishaq, «la vicenda rende necessaria un’inchiesta congiunta tra noi e le autorità degli Emirati Arabi Uniti. Qualsiasi rivelazione comprometterebbe l’indagine e, nei giorni scorsi, avrebbe potuto favorire la fuga degli agenti del Mossad (servizi segreti israeliani ndr) coinvolti nell’attentato». Intervistato da al-Jazeera, il fratello, Fayed al-Mabhouh, ha fornito qualche dettaglio. «Lo hanno ucciso con un apparecchio elettrico, applicato sulla test