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Foibe ed esodo. Una tragedia italiana

di Lorenzo Salimbeni - 09/02/2010

Gli eventi che si vogliono ricordare nell’ambito della Giornata del Ricordo, istituita con la Legge 92/1994, riguardano la sciagura che a più ondate ha colpito cittadini italiani nella fase finale della Seconda Guerra Mondiale, ma anche e soprattutto a conflitto finito.

Le cause ovviamente vanno cercate a ritroso nel tempo e senza dubbio grandi sono state le responsabilità dell’Italia (non solo fascista, ma anche della precedente epoca liberale) nel rapportarsi con le comunità slovene e croate che al termine della Grande Guerra si sono trovate all’interno dei confini del Regno d’Italia. D’altro canto va riconosciuto che nel mondo slavo lo sbocco al mare garantito da Trieste, l’Istria, Fiume e la Dalmazia fu uno degli obiettivi prioritari di quel nascente nazionalismo. La precedente situazione di equilibrio sociale (campagne a maggioranza slava, città costiere prettamente italiane) venne alterata dalla presenza invasiva dello Stato fascista con le sue strutture e sovrastrutture, sicché le componenti più accese del nazionalismo slavo avviarono un primo embrione di lotta clandestina già negli anni Venti e Trenta, ancorché destinata ad essere duramente repressa.

Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e l’invasione della Jugoslavia da parte dell’Italia e dei suoi alleati dell’Asse portarono ad un livello ancora maggiore le contrapposizioni, poiché le cellule nazionaliste slave trovarono nuova linfa nel supporto che ricevevano dalle formazioni partigiane attive nella madrepatria, le quali sotto la guida di Tito coprivano con il velo del comunismo una forma di nazionalismo panslavo che in realtà diventava la sommatoria dei singoli nazionalismi (sloveno, croato e, benché ridimensionato, serbo). Le occupazioni militari italiane in territorio ex jugoslavo dall’aprile 1941 in poi fecero scoprire alle unità combattenti quanto fosse spietata la lotta partigiana e quanto i civili stessi venissero travolti dalle contrapposizioni fra le fazioni che erano finalmente emerse all’interno della dissolta compagine jugoslava (cattolici croati contro ortodossi serbi, comunisti contro cattolici in Slovenia, partigiani contro collaborazionisti, comunisti contro nazionalisti cetnici, federalisti contro indipendentisti in Montenegro, albanesi contro serbi in Kosovo, croati contro ebrei e zingari, ortodossi contro musulmani).

L’8 settembre 1943 segnò il tracollo dello Stato italiano e la dissoluzione delle sue Forze Armate: probabilmente le regioni del confine orientale furono quelle che vissero nella maniera peggiore quelle terribili giornate. Non trovando più un esercito che li contrastasse o una forza pubblica che li domasse, i nuclei partigiani attivi nell’entroterra istriano e triestino si scatenarono nei confronti dei simboli dell’italianità, andando a colpire nelle località più isolate personaggi implicati con l’ex regime, ma anche semplici funzionari statali proprio in quanto simbolo delle istituzioni italiane. Cosa ancor più grave, le stragi ed i rapimenti di persone riguardarono non solo coloro che erano stati aprioristicamente considerati colpevoli, ma anche le loro famiglie: Norma Cossetto [nella foto sopra], giovane studentessa di Lettere ed ormai assurta praticamente a simbolo di queste efferatezze, è stata, in quanto figlia di un piccolo gerarca fascista di un paesino dell’Istria interna, rapita, violentata e scaraventata in una foiba (una delle cavità di origine naturale che costellano l’Istria ed il Carso e che vennero usate per gettarvi appunto molte delle vittime di questi eccidi, spesso ancora in vita). Solamente alla fine del mese le forze armate tedesche che avevano preso il controllo dell’Italia centro-settentrionale dopo l’armistizio dell’8 settembre riuscirono a riportare l’ordine anche in queste contrade, contribuendo però in prospettiva ad esacerbare ulteriormente gli animi causa le loro dure misure di lotta antiguerriglia.

Lo stesso fronte antifascista giuliano si trovò in difficoltà nel periodo 1943-’45, poiché il PCI locale decise, dopo una serie di discutibili assestamenti all’interno della sua classe dirigente, di aderire alle richieste dei partiti comunisti sloveno e croato, i quali avevano dichiarato l’annessione dell’Istria alla nascente Jugoslavia socialista e federativa di Tito ed ora facevano la voce grossa anche riguardo a Trieste e Gorizia. Gli altri partiti del CLN rivendicarono invece l’italianità di queste terre ovvero propesero per dei plebisciti che a guerra finita ne decretassero le sorti, ma non trovarono attenzione per queste loro istanze neppure ai vertici del CLNAI, il quale era impreparato riguardo a queste vicende e non riuscì ad assumere una posizione autorevole nei confronti delle delegazioni jugoslave che vennero a parlamentare a Milano.

Su questo sfondo si giunge al collasso della Repubblica Sociale Italiana, all’insurrezione nazionale del 25 aprile ed alla ritirata tedesca, ma contestualmente prende il via “la corsa per Trieste”: da ovest la 2° Divisione neozelandese e da est il IX Corpus partigiano di Tito cercano di raggiungere per primi il capoluogo giuliano, gli uni per assicurasi un porto da cui rifornire le forze alleate che si installeranno a breve in Austria, gli altri per assecondare le proprie rivendicazioni di stampo nazionalista in base alla politica del fatto compiuto. Il 30 aprile il Corpo dei Volontari della Libertà, cui aderivano le strutture militari cielleniste locali, scatenò l’insurrezione di Trieste, respinse i nazisti in ritirata dall’Istria e costrinse ad arroccarsi in alcune postazioni i tedeschi già presenti in città. Il Primo Maggio entrarono a Trieste, con un giorno d’anticipo sui neozelandesi, le avanguardie titine, dando il via ai terribili Quaranta Giorni. Fino al 10 giugno seguente, infatti, Trieste fu l’epicentro di una serie di deportazioni, processi sommari, esecuzioni arbitrarie e violenze che colpirono non solo gli esponenti rimasti del vecchio regime ed i loro congiunti, ma anche gli stessi esponenti del CLN che rivendicavano l’italianità di Trieste; scene analoghe ebbero luogo a Gorizia, Pola, Fiume e di nuovo nell’Istria interna. Pulizia etnica e genocidio possono forse sembrare termini eccessivi per descrivere questa mattanza, ma è ormai assodato che si trattò di un progetto pianificato e coscientemente portato avanti per colpire una comunità nazionale nei suoi elementi di spicco e per decretarne l’annichilimento instaurando un clima di terrore. L’arbitrato di Belgrado fra angloamericani e jugoslavi pose fine alla presenza jugoslava a Trieste, in cui si instaurava un Governo Militare Alleato, ma nel resto della Venezia Giulia, a Fiume e in Dalmazia la presenza jugoslava era ormai inamovibile.

Il Trattato di Pace sottoscritto dall’Italia il 10 febbraio 1947 sancì la definizione del nuovo confine orientale, con Gorizia mutilata del suo entroterra, Trieste ridotta ai minimi termini della sua provincia ed ancora Territorio Libero spartito in una Zona A con un Governo Militare Alleato ed una Zona B sotto amministrazione militare jugoslava, l’Istria, Fiume e la Dalmazia annesse alla Jugoslavia. Spaventati da quanto patito nei mesi precedenti ed avendo visto il clima oppressivo instaurato dalla Jugoslavia al suo interno, centinaia di migliaia di italiani intrapresero la mesta via dell’esodo: si trattava di semplici civili, intere famiglie, gente radicata da generazioni in quelle terre, non più di gerarchi o personaggi compromessi politicamente, giacché di costoro era stata già fatta selvaggiamente piazza pulita. Trieste divenne una delle prime tappe nell’esilio di questi disperati (già nel 1944 vi erano scappati i superstiti dei terrificanti bombardamenti che rasero al suolo Zara per volere di Tito), sicché la situazione confusa e priva di sbocchi occupazionali portò a sua volta migliaia di triestini a scegliere di emigrare. Gli istriani, fiumani e dalmati, che trovarono ricovero nei Campi Profughi ai limiti della decenza igienico-sanitaria allestiti in vecchie caserme disseminate nella penisola italiana, vi giunsero dopo aver attraversato porti e stazioni ferroviarie in cui picchetti di militanti comunisti li accoglievano a sputi e insulti poiché li consideravano alla stregua di fascisti in fuga dai paradisi del socialismo reale

Ed è per onorare le tragedie vissute da queste persone, da questi nostri connazionali, non certo per anacronistici nazionalismi di frontiera ovvero per pretestuosi revisionismi storiografici, che è stato istituito il Giorno del Ricordo che siamo chiamati a celebrare.