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La vita risponde alle nostre domande nei modi e nei tempi che ci trovano desti

di Francesco Lamendola - 10/02/2010

 

Anche se il più delle volte non ne siamo affatto consapevoli, nel corso della nostra vita noi formuliamo tutta una serie di domande: con le nostre aspettative, con le nostre paure, con i nostri desideri.
Poiché molto spesso non ce ne rendiamo conto, abbiamo semmai l’impressione che sia la vita stessa ad interrogarci, a formulare delle domande che sovente ci risultano enigmatiche e alle quali non siamo in grado di rispondere.
Ma la vita non formula domande che non siano le domande poste da noi stessi, perché una legge fondamentale dell’esistente è che nulla ci viene presentato che non sia in proporzione alla nostra capacità di sostenerlo. Per cui, se talvolta ci sembra di vacillare davanti a interrogativi più grandi di noi, dovremmo forse imparare a comprendere che siamo proprio noi a porli, magari in maniera sbagliata o inadeguata.
Dunque: noi formuliamo le domande, e la vita ci risponde. Ma non ci risponde nei tempi e nei modi che noi vorremmo, per la semplice ragione che molte volte la nostra evoluzione spirituale è troppo rudimentale perché possiamo capire.
Infatti, non si tratta di un “capire” esclusivamente razionale: è fin troppo evidente che si può essere delle persone estremamente razionali e tuttavia, nel medesimo tempo, delle persone assolutamente inadeguate sul piano della comprensione spirituale. Si tratta, invece, di un “capire” che abbraccia l’essenza delle cose in tutta la loro profondità e verità e che, pertanto, eccede di molto le modeste funzioni del Logos razionale e strumentale.
Le donne, in questo, sono avvantaggiate: la loro meravigliosa intuitività le mette in grado di cogliere in un batter di ciglia ciò che, sovente, un uomo deve faticare molti anni per arrivare a comprendere. Poi, però, esse fanno fatica a razionalizzare ciò che hanno compreso intuitivamente e a tradurlo coerentemente in azioni concrete e in scelte esistenziali.
Del resto, in Occidente esiste da sempre una autentica frattura tra la sfera rigidamente razionale e quella intuitiva e creativa, simboleggiata dalle diverse funzioni dei due emisferi del cervello: nessuno si aspetta che un filosofo o un matematico siano anche dei mistici; anzi, se ciò accade, viene considerato con il più grande stupore, per non dire con imbarazzo.
Nelle culture orientali, e specialmente in India, non è così: al contrario, in esse si dà praticamente per scontato che il filosofo o lo scienziato non siano soltanto dei signori che lavorano al tavolino, ma delle persone capaci di oltrepassare - senza negarlo - il pensiero strumentale e calcolante, per aprirsi alle forme più alte della consapevolezza intuitiva. Va da sé che questo presuppone una serie di conoscenze, anche di natura estremamente pratica, circa le tecniche della respirazione e di altre funzioni vitali che, in Occidente, sono considerate come assolutamente superflue, o, quanto meno, profondamente estranee alla sfera del pensiero.
Ma torniamo al nostro tema principale.
Quando, nel corso della propria vita, ciascuno di noi imbocca un sentiero anziché un altro, operando una scelta anziché un’altra (ivi compresa, eventualmente, quella di non scegliere affatto, lasciando che siano altri a decidere per lui), è come se egli formulasse una domanda nei confronti della vita stessa. Per esempio, è come se chiedesse: «È questa la strada che mi condurrà al successo e al denaro? È questa la strada che mio condurrà al piacere e all’amore?»; ma ognuna di queste domande è legata ad un denominatore comune: la ricerca della verità.
Si suole dire e ripetere - è perfino un luogo comune - che tutti gli esseri umani, istintivamente, non cercano null’altro che la propria felicità.
Non è vero. Cercano la verità, ma non lo sanno: credono di cercare la felicità, ed è per questo motivo che sin ingannano circa le risposte che ricevono. Se si crede di cercare una cosa e, invece, si va alla ricerca di una cosa diversa, è ovvio che non si trova né l’una, né l’altra: e può essere necessario molto tempo perché le esperienze negative così accumulate incomincino a lasciar filtrare un po’ di luce nella propria ignoranza.
Noi siamo, quasi tutti, degli ignoranti e dei sonnambuli, che se ne vanno in giro a tentoni, nel buio, ingannandoci non solo su ciò che sperimentiamo, ma anche su ciò di cui crediamo di essere alla ricerca; nessuna meraviglia, perciò, che la nostra vita sia disseminata dei cocci delle nostre illusioni perdute e delle nostre speranze infrante. Come avrebbero potuto le cose andare diversamente, in simili condizioni?
Quando affermiamo che gli uomini cercano la verità, magari senza saperlo, non ci riferiamo ad una verità esteriore e puramente razionale, bensì alla verità interiore più profonda, che coincide - in ultima analisi - con la verità universale: poiché al fondo di ognuno di noi, come al fondo di ogni altro ente, vi è lo splendore ineffabile dell’Essere.
In ciascuno di noi vi è una parte divina: anche nel peggior criminale; anche nella persona più superficiale, immatura ed egoista. Una parte divina, sepolta sotto spessi strati di fango e peggio: un diamante luminoso, di pregio inestimabile, avvolto in densi strati di ignoranza, paura e brama cieca e smodata. È per questo che, nelle culture dell’India, due persone si salutano giungendo le mani e chinando il capo,  come davanti a una divinità: perché in noi abita realmente una parte divina; ed è essa, non l’involucro esterno, a meritare sommo rispetto.
Dunque: gli esseri umani cercano la propria verità interiore: trovata quella, troverebbero anche tutto il resto - e la felicità sarebbe data loro in premio, secondo il vecchio motto di San Tommaso d’Aquino: «La felicità è conoscere e amare il Sommo Bene». Ma non lo sanno: ed è per questo che si avventurano lungo strade ingannevoli e sterili, attraverso afose pianure coperte di polvere, nelle quali disperdono inutilmente le loro migliori energie, reiterando e accumulando con zelo degno d’una causa migliore sempre gli stessi, monotoni errori.
Dunque, ciascuno di noi pone alla vita una serie di domande, e questo fin dalla prima infanzia e sino all’ultimo giorno che ci viene concesso. Ma poiché siamo ignoranti e impazienti, vorremmo che la risposta arrivasse subito, esattamente tale quale ci piacerebbe che fosse; invece la vita ha i suoi tempi, che in realtà sono i nostri, ma che non coincidono con l’impazienza del nostro picciolo io, del nostro falso Ego con il quale, erroneamente, ci identifichiamo.
La risposta, di fatto, c’è e non tarda a venire; ma bisogna che noi siamo capaci di riconoscerla e, in un certo senso, di meritarla: perché nulla viene dato gratis e senza sforzo - nulla che abbia un reale valore, bene inteso. La risposta può essere data da un incontro, da un cambiamento, da una situazione che si viene a creare e davanti alla quale siamo inviati a fare una scelta; ed è scritta in caratteri che dobbiamo imparare a riconoscere.
A volte può accadere che la risposta ci giunga avvolta in un velo ingannevole, come un dipinto prezioso che è stato ricoperto da un affresco dozzinale: ed è compito nostro saper riconoscere gli indizi che quel che cercavamo si trova lì, a portata di mano, ma nascosto sotto uno strato di sostanza ingannevole. In un certo senso, si tratta di un “test” che ha lo scopo di metterci alla prova, per vedere se siamo capaci di sviluppare la vista interiore.
Ma, in realtà, non c’è nessuno che ci sottopone a dei “test”; siamo noi stessi che, a causa della nostra ignoranza, andiamo ripetutamente a sbattere contro i medesimi ostacoli, smarriamo continuamente la medesima chiave: per cui impariamo a nostre spese, poco alla volta e con fatica, a diventare più desti e consapevoli.
Questa è una cosa che nessuno ci può insegnare.
I Maestri, infatti, possono offrirci delle indicazioni, basandosi sulla loro ricca esperienza di meditazione e di spiritualità; ma siamo noi che dobbiamo percorrere la via. È per questo che dobbiamo sforzarci di diventare i maestri di noi stessi: è con i nostri occhi che dobbiamo imparare a vedere e con i nostri orecchi che dobbiamo imparare a udire, non con quelli di un Maestro, per quanto sublime egli sia.
Così come dovremmo imparare a diventare i medici di noi stessi, riconoscendo i segnali che il nostro corpo e la nostra mente ci inviano per il nostro stesso bene, così pure dovremmo imparare a diventare i maestri di noi stessi, imparando a leggere le risposte alle nostre domande che la vita ci offre di continuo.
Ovviamente, per poterlo fare dobbiamo superare il doppio pregiudizio del falso Ego: il pregiudizio antropocentrico, che vorrebbe l’uomo al centro di ogni cosa, insensibile e indifferente a tutti gli altri viventi, nonché alla Terra ed al cosmo in cui vive; e il pregiudizio dell’autosufficienza, che vorrebbe ogni singolo essere umano rinchiuso nella prigione orgogliosa della propria finitezza e che lo porta a credersi separato e contrapposto al “tu”.
La verità è che nessun uomo è un’isola; che mille e mille fili legano ciascun ente con tutti gli altri; che idee, pensieri, sentimenti, emozioni, non sono mai solo e completamente “nostri”, nel senso di nati con noi e destinati a finire con noi; ma che tutto, tutto, tutto ciò che esiste, esiste in maniera unitaria e solidale; e non si potrebbe separare dal cuore pulsante dell’Universo neppure un sassolino o un insignificante filo d’erba.
Ecco perché è ridicola, e insieme pietosa, la presunzione che spinge tanti uomini che si credono di valore - artisti, scienziati, pensatori - a firmare con enfasi le proprie opere, a presentarsi come i creatori di qualche cosa che essi soli, dal nulla del non-essere, hanno portato alla luce. L’ultimo alpinista che raggiunge la cima della montagna deve piantarvi la propria bandierina; l’ultimo studente in gita scolastica deve porre la propria firma sulla base del monumento illustre: “io, io, io”. L’uomo occidentale non sa fare altro che pronunciare la parola “io”, che gloriarsi e gonfiare il petto: il cacciatore quando abbatte la selvaggina e poi si mette in posa davanti alla macchina fotografica, come l’uomo politico quando parla ai microfoni davanti alle folle e si presenta come il salvatore della Patria o come l’uomo della Provvidenza.
Molto più giustamente, in Oriente - e soprattutto in India - la mentalità è del tutto differente. Sappiamo pochissimo dei filosofi indiani, in quanto individui; e non conosciamo neppure gli autori materiali dei Veda. Nessun Michelangelo e nessun Bernini hanno firmato i capolavori architettonici o scultorei di quella antica e gloriosa civiltà. Pochissimi di quei grandi uomini e dei loro innumerevoli ammiratori di più e più generazioni hanno ritenuto importante tramandare il ricordo delle loro biografie.
In Europa, solo durante il “buio” Medioevo (che certo non fu tanto buio come amano descriverlo gli storici di formazione neoilluminista) vi fu, rispetto alla modernità, un ritorno della cultura ad un atteggiamento di maggiore modestia nei confronti delle opere dell’ingegno umano, viste come manifestazione della gloria divina. Al di fuori dei limiti cronologici del Medioevo, Bach fu uno degli ultimi geni europei a riconoscere questo debito fondamentale nei confronti della trascendenza: le sue oltre mille composizioni musicali portano tutte, dalla prima all’ultima, la dicitura estremamente significativa: “S. D. G.”, “Soli Deo Gratia”.
In conclusione, noi dobbiamo diventare consapevoli del genere di domande che poniamo alla vita, perché solo così potremo diventare capaci di leggere le risposte.
Le domande fondamentali sono sempre le stesse: «Chi sono io? E qual è la verità che alberga in fondo al mio essere?».
Porre, invece, le domande: «Che cosa devo fare per essere felice? Che cosa mi manca per essere felice?», significa formulare degli interrogativi fuorvianti. La felicità è un premio, non un fine; e, se mai - per assurdo - la si potesse perseguire come se fosse un fine, non la troveremmo aggiungendo qualcosa, ma, al contrario, togliendo qualcosa dal nostro cammino.
Per trovare l’essenziale, bisogna far sì che rimanga solo ciò che non è superfluo. Perciò, non si deve chiedere: «Che cosa mi manca?», ma bensì: «Che cosa devo eliminare?».
L’essenziale, è la nostra verità interiore; ed essa coincide con la Verità in quanto tale, ossia con la fonte perennemente luminosa dell’Essere.
Noi già ci siamo, e perciò avremmo già tutte le risposte; dobbiamo solo imparare a udirle.