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L’Europa resta vassallo degli Usa di Obama

di Marco Tarchi - Alessandro Bedini - 10/02/2010

    
 
Politologo dell’Università di Firenze, direttore di due riviste che promuovono il pensiero anticonformista, «Diorama » e «Trasgressioni», Marco Tarchi è spesso in rotta di collisione con il pensiero dominante e riesce sempre a proporre letture originali di fenomeni politici che la maggior parte dei mass media presentano sotto l’aspetto del «politicamente corretto». L’ultimo numero di «Diorama» affronta l’argomento dell’elezione del presidente americano Barak Obama, in copertina campeggia un titolo significativo: «Al tempo dell’Obamania», dove compaiono contributi dello scrittore francese Alain De Benoist, dello stesso Tarchi e altri. Abbiamo voluto approfondire con Tarchi le ragioni che hanno portato il mondo intero a osannare l’elezione del primo presidente di colore negli Stati Uniti e le ricadute reali che un simile avvenimento può avere sul piano internazionale.

Professor Tarchi, lei ha dedicato buona parte della rivista «Diorama», che dirige, al caso Obama, ovvero alle reazioni che nel mondo si sono avuto in occasione dell’elezione del nuovo presidente Usa. Può spiegarci il perché di questa scelta?
«"Diorama" cerca di proporre, ogni volta che si trova ad occuparsi di fenomeni politici e sociali significativi, analisi e commenti che sfuggano alla tentazione dell’ovvietà e del conformismo. Il successo di Obama e le prospettive della sua presidenza si prestavano ottimamente a questa prospettiva, perché sinora sono sfuggiti a qualunque rilievo critico: quasi tutti hanno preferito compiacersi, entusiasmarsi,profetizzare futuri radiosi, recriminare sul passato. A noi è sembrato opportuno domandarci cosa avrebbe potuto profilarsi dietro questo coro di osanna, cercando di spiegare a chi ci legge che la nuova amministrazione statunitense andrà giudicata sui fatti, in primo luogo sugli effettivi scostamenti dalle azioni di quelle che l’hanno preceduta. Perché è sulla sostanza che si misura la politica; non ci si può basare sulle forme».

In occasione dell’elezione di Obama s’è assistito in Italia, ma non solo, a una trasversale infatuazione, intendo da destra e da sinistra, sconfinante in una vera Obamamania. Su cosa si fonda tale trasversalità?
«In parte sul diffuso scontento verso l’operato della presidenza Bush, in parte sulla curiosità nei confronti del primo uomo di colore - peraltro non un afroamericano al 100%, come si è cercato di far credere per rendere più glamour il personaggio - asceso alla Casa Bianca, in parte sul desiderio di molti intellettuali e politici di ricostruirsi un’immagine rosea degli Usa. L’americanismo imperante al di qua dell’Atlantico, che aveva subìto qualche danno dalla guerra irachena, ha contato molto in questa sorta di apologia preventiva di un personaggio senz’altro interessante, ma ancora da verificare».

Alain De Benoist, in un suo articolo su «Diorama», sottolinea come il colore della pelle del presidente Obama abbia giocato parecchio sull’immaginario collettivo mondiale, molto meno su quello statunitense. Pensa che il fattore etnico abbia pesato così tanto nell’elezione del nuovo presidente?
«De Benoist cita, come altri hanno fatto prima di lui, i risultati delle rilevazioni sulla composizione della base di sostegno elettorale di cui Obama ha potuto avvalersi, frutto dei consueti exit polls. Secondo questi dati, nonostante tutto il candidato democratico non è riuscito a raccogliere il consenso della maggioranza degli elettori bianchi, che gli hanno preferito McCain. Ha però avuto successo presso le minoranze etniche: quella afroamericana - che è rimasta in buona parte abulica, ma ha comunque avuto un tasso di partecipazione al voto maggiore del solito - ma anche quella ispanica, ormai consistente. Quindi, questo fattore pare aver avuto un notevole peso».

Al di là delle scelte multilateraliste del presidente Obama, in netta contrapposizione a quelle del suo predecessore George W. Bush, pensa che cambierà qualcosa di fondamentale nella politica statunitense?
«Ne dubito. Ho l’impressione che il nuovo presidente voglia raggiungere gli stessi obiettivi dei predecessori - a partire dal consolidamento del ruolo imperiale degli Usa e dall’attribuzione agli alleati atlantici di ruoli rigorosamente subordinati -, utilizzando però un modo di porsi e di comunicare molto più raffinato e soft di quelli di Bush jr. ma anche di Clinton. Le sue prime mosse, iniziando dal rafforzato impegno in una guerra che
ha il sapore dello "scontro di civiltà" come è quella in Afghanistan e dall’annuncio di vago sapore bushiano di un "imminente attacco terroristico" di Al Qaeda in Europa, di cui non viene fornito alcun indizio concreto, si collocano in questo solco».

Si sforzi di delineare i rapporti tra Stati Uniti e Europa alla luce dell’avvento di Obama e dei risultati del recente G20 tenutosi a Londra.
«Il G20 ha confermato quel che si sapeva in proposito: europei e statunitensi proclamano la reciproca lealtà e l’impegno a migliorare ulteriormente i rapporti, il che mi pare impossibile, giacché di regola da decenni i Paesi dell’Europa si sforzano di fare tutto ciò che Washington si attende da loro: i casi di dissenso sono stati rari e sono rapidamente rientrati. Ma quando dalle parole si deve passare ai fatti, si è costretti a constatare che gli interessi delle due parti divergono. Sino ad oggi, in caso di contenziosi, di ordine
commerciale o di altro genere, è stata costantemente l’Europa a piegarsi a compromessi che non le erano favorevoli. Le cose sono destinate a cambiare? Come ho detto, ne dubito, perché quando s’è acquisita una posizione di vantaggio nei rapporti non si è mai tentati di cederla. A maggior ragione, quando si è la maggiore potenza mondiale. Per uscire da questa condizione ed aspirare a poter trattare, fra qualche decennio, da pari a pari con gli Usa, l’Unione europea dovrà giocare sulle triangolazioni. Cioè decidere su quale, o quali, delle potenze emergenti destinate ad essere seri rivali degli Stati Uniti varrà la pena di puntare. Al momento, questa scelta riguarda Cina, Russia e India. In un assetto geopolitico multipolare, l’Europa potrebbe costituire un "grande spazio" autonomo, alleato ma non più vassallo di altre potenze. Ma per raggiungere questo obiettivo dovrebbe avere una classe dirigente all’altezza. E non mi sembra che l’attuale risponda a questo criterio».

[tratto da L'Eco di Bergamo del 25 aprile 2009]