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Il rogo dei libri di David Irving é un sinistro segnale per la libertà di ricerca

di Francesco Lamendola - 11/02/2010

 

Se la vicenda di David Irving fosse accaduta nella Germania nazista o nell’Unione Sovietica di Stalin, nessuno vi avrebbe trovato nulla di strano, perché si sa che in quei totalitarismi la libertà di ricerca dello storico non era cosa particolarmente gradita o apprezzata; e se ne comprende fin troppo bene la ragione.
Invece è accaduta in Austria, nel 2006 e 2007, vale a dire in un Paese democratico e nel nostro libero e tollerante terzo millennio. Uno storico di sessantotto anni (è nato nel 1938 da ufficiale di marina), di nazionalità britannica, viene arrestato lungo una autostrada austriaca, da otto agenti di polizia che gli puntano le pistole alla testa, come il peggiore dei criminali, in esecuzione di un mandato d’arresto per apologia del nazismo spiccato nel lontano 1989. Egli era tornato in Austria su invito di una associazione studentesca per tenere una conferenza e sarebbe ripartito nel giro di poche ore, con un’auto presa a noleggio a Zurigo, in Svizzera. Fra parentesi, l’associazione studentesca si è dissolta come nebbia al sole e alcuni indizi lasciano pensare che l’invito fosse parte di una ben congegnata trappola per mettere le mani sul “pericoloso” storico negazionista (anche se Irving non ha mai negato l’Olocausto: le sue “colpe” sono quella di contestare le cifre ufficiali e quella di sostenere che Hitler non fosse personalmente a conoscenza delle modalità con cui Himmler stava conducendo la “soluzione finale”).
Il suo fermo è avvenuto in circostanze a dir poco anomale: trattenuto per settimane senza poter vedere un avvocato e senza poter telefonare a casa; mentre il suo conto bancario in Inghilterra veniva congelato e la moglie (una cittadina danese), malata, si vedeva costretta a lasciare la loro casa di Londra con la figlia undicenne.
Frattanto le autorità austriache procedevano alla distruzione dei libri di Irving presenti nelle biblioteche degli istituti di pena, facendole bruciare; e ciò nonostante il fatto che delle circa trenta pubblicazioni dello storico inglese, la maggior parte non avesse mai subito alcuna accusa di revisionismo o negazionismo, poiché il “caso” Irving è scoppiato solo nel 1996, allorché egli ha perso la causa contro la studiosa americana Deborah Lipstadt ed è stato condannato da una sentenza in cui si afferma che “ha glorificato e si è identificato con il patito nazista tedesco”, cosa che in Austria e in altri Paesi è automaticamente punita da una legge dello Stato. Ma il suo libro più famoso, «La guerra di Hitler», risale al lontano 1977; ed altri suoi libri di larga diffusione, come quello sulla distruzione di Dresda nel 1945 o la biografia del maresciallo Erwin Rommel, non avevano mai sollevato obiezioni di metodo da parte della comunità accademica.
Condannato a tre anni di carcere in primo grado, Irving è stato rimesso in libertà alla fine del 2006, dopo quattrocento giorni di carcere, grazie alla sentenza del processo d’appello, in cui è stato assistito dal giudice Herbert Schaller.
Ora, non vogliamo metterci ad esporre e discutere, in questa sede, i contenuti storici dei libri di David Irving. Le sue tesi riguardo al nazismo e al genocidio degli Ebrei possono piacere o non piacere e, naturalmente, possono essere criticate fin che si vuole.
Tuttavia, stabilito che egli non ha mai tentato di negare che il genocidio vi fu, né di mascherare la natura criminale del regime nazista, tutto quel che desideriamo fare è interrogarci sulla natura di un sistema politico - quello democratico odierno - che mette in prigione gli storici i quali sostengono posizioni non ortodosse, o non completamente ortodosse; che brucia i loro libri e che esercita vendette sulle loro famiglie; che permette a gruppi di facinorosi di ricorrere alla violenza per impedire loro di parlare (il francese Robert Faurisson, nel 1989, ha riportato la frattura della mascella); che si fa strumento di una volontà di controllo dell’opinione pubblica da parte di alcune potentissime lobbies ebraiche, le quali sono in grado di esercitare pressioni sulla stampa internazionale, sulla televisione, sulla comunità scientifica e su governi e magistrature di singoli Paesi.
A noi sembra che un sistema politico il quale sia capace di ricorrere a simili metodi per zittire ogni forma di pensiero indipendente e per impaurire ogni potenziale dissenso, non meriti altra qualifica che quella di “totalitarismo democratico”: dove l’accento cade, ovviamente, su primo termine, mentre il secondo non è che un vuoto orpello o, se si preferisce, un comodo specchietto per le allodole.
Citiamo alcuni brevi stralci dal libro di David Irving «Perseguitato» (titolo originale: «Banged up», Windsor, Focalpoint Pulications, 2007; traduzione italiana di Genni Gianfranceschi, Marina di Massa, Edizioni Clandestine, 2008, pp. 53-57;  11-111):

«Il Presidente Onorario dell’Archivio della Documentazione della Resistenza Austriaca risultava essere il professor A. Maleta.  Un nome già sentito. Si trattava di una singolare omonimia  oppure il professor Maleta era quello stesso che  anni prima aveva fornito una deposizione giurata, mentendo, in cui asseriva di aver personalmente visto in attività le camera a gas nel campo di Dachau, il primo campo di concentramento di Heinrich Himmler? Per quanto il governo tedesco  avesse da tempo negato l’esistenza di impianti di quel genere a Dachau, molte persone a causa della falsa dichiarazione di Maleta finirono in carcere.
Continuando a scorrere il dossier [l’atto di incriminazione a carico di Irving emesso nel 1989 dall’allora capo della polizia viennese, Günther Bögl] scoprii cose ben peggiori quali la richiesta inviata alla polizia  municipale dalla Israelitische Kultursgemeinde, la comunità culturale israeliana austriaca: il loro direttore, il generale Peter Grosz, reclamava l’autorizzazione a indire una manifestazione contro di me il 6 novembre 1989 di fronte al Park Hotel, luogo dove si sarebbe svolta la conferenza. Prevedeva un afflusso di 4.000-5.000 manifestanti con l’imperativo di impedire lo svolgimento del discorso.
Qualcosa di questa Comunità Culturale Israelita, qualcosa di equivalente al nostri stimato Consiglio dei Rappresentanti degli Ebrei britannici, mi ricordava la Coalizione per la Dignità Umana occasionalmente incontrata in Oregon;  li chiamavo “la ressa sputante” (perché quello facevano, fuori dai miei incontri). Durante la manifestazione, come riportano i giornali dell’epoca, Grosz, dal palco, si rivolse ai dimostranti invitandoli a ricorrere alla violenza, se necessario, per fermare la mia conferenza. Tanto vale la cultura nella loro comunità.
Il mio avvocato, Dr. Herbert Schaller, sporse immediatamente denuncia contro Grosz per incitamento ala violenza, mas la pratica fu ben presto soffocata nei condotti della giustizia austriaca.
Nell’Austria moderna, la giustizia è una strada a senso unico. Sono quelli come Grosz  che ricevono un trattamento speciale. Così pensavo, mentre riportavo alla memoria molti particolari inquietanti delle vicende avvenute sedici ani prima. […]
In seguito alla mia vicenda, il mondo intero si avide quanto in Austria  la libertà d’espressione fosse una chimera. Il governo austriaco non si aspettava certo un tale ‘rinculo’ come lo definì il “Times” in un editoriale in prima pagina.  La stampa internazionale, anche quella non propriamente affine alle tesi da me sostenute, considerato che come storico vanto comunque  una certa credibilità e oltre 30 pubblicazioni con editori autorevoli quali Ullstein, Bertelsmann,  Hoffmann & Campe, Scherz, Heyne,  Rowholt, etc., circa la mia vicenda assunse posizioni sostanzialmente corrette.
Solo la stampa austriaca seppe distinguersi per grettezza.  Ancora oggi mi domando se l’intera vicenda non nascondesse una regia occulta  e fini a me sconosciuti.
L’Austria di oggi è ossessionata ai limiti della paranoia dalla presenza di presunti storici nazisti e revisionisti, al punto da ledere le libertà individuali del cittadino.
Naturalmente, come qualsiasi normale essere umano, personalmente disapprovo i raccapriccianti crimini perpetrati dai nazisti contro gli Ebrei e non solo. Ribadisco, non sono né un nazista né un ebreo, ma solamente uno storico britannico che cerca di stabilire alcune verità su quella immensa tragedia che fu l’olocausto - come, per quale motivo e perché - e fintanto che sia possibile, nell’osservanza delle leggi vigenti, anche di renderle pubbliche. Senza rancore, odio o secondi fini - “sine ira et studio” - proprio come mi fu insegnato a scuola.»

Lo ripetiamo: non è necessario addentrarsi nelle tesi specifiche sostenute da Irving nei suoi lavori e nelle sue conferenze.
Alcune delle sue tesi, come quella che vede nella rivolta ungherese del 1956 una reazione contro lo strapotere dei crudeli tiranni comunisti locali, tutti di origine ebraica (a cominciare dal primo in assoluto, quel Béla Kun che aveva preso il potere nel 1919, prima di fuggire in Unione Sovietica), possono essere contestate a volontà. La storiografia, si sa, è frutto di interpretazione, ovviamente sulla base dei fatti; ma i fatti non parlano da soli, checché ne dicano gli storici di tendenza positivista.
Il punto, però, è un altro.
Il punto è se vi sia ancora spazio, nella cornice del Pensiero Unico della tarda modernità, oggi dominante, per la libera ricerca della verità e per la libera manifestazione del pensiero. Qui non si parla di terrorismo, di Al Qaida o di Brigate Rosse: qui si parla del mestiere di storico, che non può essere neanche concepito se non in un quadro di libertà di ricerca e di espressione. Per sapere a che cosa si riduca il mestiere di storico in una società totalitaria, basta leggere i libri di storia pubblicati nella Germania degli anni Trenta o nell’Unione Sovietica, fino a Gorbaciov e alla vigilia della caduta del comunismo.
Tuttavia, è chiaro che la libertà di ricerca e di espressione - ora come ora - non è minacciata a trecentosessanta gradi. È chiaro che ci sono tesi che si possono sostenere, per quanto eterodosse; e altre che non si possono sostenere.
Continuare a gettare tutta intera la responsabilità della seconda guerra mondiale sulla sola Germania hitleriana, ad esempio, è cosa storicamente ormai discutibilissima, ma nessuno storico il quale insista in una tesi del genere verrà mai disapprovato, censurato o, addirittura, perseguitato. E nessuno storico del Medio Oriente il quale denunci le attività antisemite e filonaziste del Gran Muftì di Gerusalemme verrà mai disapprovato, censurato o perseguitato.
I problemi sorgono quando qualche storico si azzarda a sostenere delle tesi considerate eretiche, intorno a certi fatti della storia, e non a tutti indistintamente. Ormai nessuno si sognerebbe di negare che le autorità britanniche fecero distribuire volontariamente delle coperte intrise di vaiolo ad alcune tribù di pellerossa, o che i primi campi di concentramento per civili - nei quali trovarono la morte migliaia di donne e bambini - furono quelli allestiti dall’esercito inglese durante la guerra contro i Boeri, fra il 1899 e il 1902. Certo sono verità scomode, per alcuni: però si possono esprimere; e, comunque, ci si può ragionare sopra.
Si può perfino discutere se davvero le due bombe atomiche lanciate sui Hiroshima e Nagasaki nel 1945 furono davvero necessarie; se è proprio vero che l’invasione americana del Giappone sarebbe costata un milione di morti; se, cioè, si sia trattato di un male necessario e calcolato, in vista di un bene superiore, o se non si sia trattato - invece - di un cinico gioco volto a intimorire l’Unione Sovietica la quale, proprio in quei giorni, si apprestava a vibrare al Giappone agonizzante la più vergognosa pugnalata alla schiena che mai sia stata inferta (e al cui confronto l’attacco di Mussolini alla Francia nel giugno del 1940 appare una cosa da gentiluomini).
No: le cose che non si possono dire sono altre. Sono, ad esempio, che lo Stato di Israele è nato anche facendo ricorso al terrorismo; che la banda Stern era specializzata nel trucidare donne e bambini arabi della Palestina; che la “giornata della memoria” serve a coprire uno sfruttamento politico dell’Olocausto, come hanno riconosciuto perfino studiosi ebrei come Norman Filkenstein (ma che cosa sarebbe accaduto se a dirlo fosse stato uno storico non ebreo?). Così come non si può dire, e si fa di tutto per metterlo a tacere, che nel corso della operazione “Piombo Fuso” nella Striscia di Gaza, l’esercito israeliano ha compiuto crimini contro l’umanità, per appurare i quali sono in corso delle inchieste internazionali.
Ciascuno è libero di trarre da sé le proprie conclusioni.
Ma vedere uno storico di sessantotto  anni bloccato in auto e arrestato da otto agenti, pistole spianate; vederlo poi processato e condannato come un criminale, per reati di opinione; e tutto questo nel pavido o, peggio, nel complice silenzio della comunità accademica e della stampa internazionale: ebbene, tutto ciò supera la più sbrigliata fantasia di qualche autore di utopie negative, come George Orwell in «1984».
Forse si è trattato di un test.
Forse, qualcuno voleva vedere se ci sarebbe stata una reazione della cultura e dell’opinione pubblica; non in difesa delle tesi di Irving, ma in difesa della libertà di ricerca e della libertà di opinione.
Se così è stato, il test ha avuto pieno successo per coloro i quali lo hanno voluto.
La reazione non c’è stata o è stata fiacca, terribilmente fiacca.
A chi toccherà la prossima volta?
Quali altri spazi di ricerca e di parola subiranno un ulteriore giro di vite, nei prossimi anni?
Domande terribilmente scomode; e, soprattutto, domande quanto mai politicamente scorrette.