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La mia generazione non ha perso, purtroppo

di Fiorenza Licitra - 11/02/2010

Contrariamente a quanto cantava Gaber, la mia generazione non ha perso e io non faccio parte di una razza in estinzione, purtroppo.
E come si potrebbe mai perdere una guerra che non si combatte? Chi sarebbe poi il famigerato nemico contro cui lottare, seppur ipoteticamente? A differenza del grande jihād degli islamici, la guerra noi non la non tentiamo neanche contro il nostro nemico più efferato, noi stessi, figuriamoci dichiararla agli altri…siamo o non siamo pacifisti?
La mia generazione detesta la globalizzazione, ma abbraccia ciecamente i suoi disvalori negando tutti i principi e i fondamenti di una società civile, nemici giurati di quel vero Male assoluto che è la globalizzazione; osteggia, infatti, -senza la minima cognizione di causa- la religione, l’identità, la famiglia, il pudore, l’onore, la fede, il senso comunitario, la differenza.
La mia ridente generazione reclama lo Stato laico in tutte le sue declinazioni -salvo due volte a settimana quando c’è il corso intensivo di Yoga- per ostacolare meglio l’imperante materialismo capitalistico, non considerando poi che la religione è rimasta l’unica, seppur scarna, manifestazione di spiritualità.
La mia benemerita generazione non è italiana nemmeno per sogno -a meno che non si vincano i mondiali di calcio- perché ha un non so che di razzistico sentirsi fieramente italiani (sul fieramente se ne può ancora discutere, ma sull’origine…mater semper certa est). Ammira gli altri popoli, ma solo folkloristicamente, tanto da volerli inglobare sotto il suo modello unico -quello occidentale- e, trovando disdicevole l’estensione della globalizzazione solo sul campo economico e di mercato, invoca che l’attenzione venga rivolga anche sul modus vivendi, sulla lingua e su tutto il dominio della conoscenza, gravi ostacoli alla tanto ambita uguaglianza socio-culturale.
La mia lungimirante generazione ha in odio la famiglia perché è da bigotti credere nella scelta salda e idealistica di un uomo e una donna, che un giorno oseranno mettere al mondo dei figli e avranno  pure l’arroganza di educare, di insegnare e di lasciare loro un’eredità morale.
La mia giusta generazione, ignorando il sacrosanto ordine cosmogonico dei ruoli, preferisce le coppie miste, i tradimenti su tutti i fronti possibili, i vecchi all’ospizio, i bambini cresciuti dalle coppie omosessuali, l’individualismo del single e il sesso liberale e liberalizzato come una merce di scambio. E la globalizzazione si gonfia d’orgoglio.
La mia scrupolosa generazione è piena di riguardi per le galline e gli animali tutti, per i parcheggi degli handicappati, i diritti degli omosessuali e degli immigrati, ma non dimostra grossi segni di scontento -forse per timidezza- quando tantissimi italiani non arrivano a fine mese, quando un padre di famiglia a sessant’anni perde insieme al lavoro anche la casa e quando non ci si può permettere un letto in ospedale con le adeguate cure.  Maledetta timidezza.
La mia attenta generazione detesta formalmente l’America, ne emula sostanzialmente i comportamenti imbecilli e segue fedelmente e con un certo automatismo lo stile di vita, non solo quello vestiario (non è così superficiale). Apprende tutto ciò che c’è da sapere sul mondo virtuale, accantona in via definitiva i libri, invidia il loro quantistico senso di grandezza, fa del divismo la nuova mitologia e si nutre di cibo in scatola e di surgelati davanti alla televisione, mentre segna diligentemente sull’agenda la prossima manifestazione no-global.
La mia squisita generazione viaggia per il mondo con la stessa facilità con cui una come me gira l’angolo della strada; va in India un mesetto o due per scoprire il Sé e, nel tempo libero, fa tante fotografie a tutti quei bambini che non hanno futuro, ma che sono così fotogenici e colorati!
Ogni volta che la mia candida generazione intraprende un viaggio dall’altra parte dell’emisfero sembra che abbia voltato solo l’angolo perché la sua apertura mentale d’incanto si è fatta fessura e, tornando all’ovile, nutre ancora più astio per il suo vecchio Paese fragilmente legato alle tradizioni.
La mia amabile generazione è sociale, ma non socievole: sta meravigliosamente bene in mezzo alle folle -tranne poi soffrire di crisi di panico quando è sola con se stessa in una stanza-, ma se si prova ad avvicinare uno di questi rivoluzionari dell’ultima ora, la prima cosa che ti colpisce, non solo metaforicamente, è la maleducazione; gli spiriti più sensibili avvertiranno anche un diffuso malessere dovuto a quell’incolmabile distanza che scaturisce dalla mancanza di un dialogo profondo e sincero, proprio del confronto con l’Altro. Ma questo, si sa, riesce meglio di fronte allo schermo di un computer.
La mia fiera generazione s’indigna per la guerra civile in Medio Oriente, per la fame nel mondo, per  gli zingari, i clandestini e pure per il buco dell’ozono, ma se un amico gli chiede un po’ di tempo per essere ascoltato, guai! Non ha mai molto tempo, e sfido io, deve salvare il mondo, mica bagattelle.
La mia mansueta generazione è decisamente contraria all’intolleranza e chi, inavvertitamente, non  concorda con quello che è il loro credo liberale deve essere pronto a subire gli insulti e gli affronti personali, democraticamente s’intende.
La mia avvincente generazione sfila in piazza contro tutte le mafie: celebra Borsellino, Impastato e Falcone come eroi, osanna tuttavia i pentiti –ha un fortissimo senso dell’onore- e si droga da paura. Questo però è l’effetto collaterale delle canne che accorcia la memoria e fa dimenticare di come il monopolio della droga sia detenuto in massima parte dalla mafia stessa.
La buona notizia è che tutto ciò che la globalizzazione cerca di realizzare, la mia precoce generazione lo attua, la cattiva è che la mia generazione è contro la globalizzazione.
La mia generazione mi fa salire le lacrime agli occhi, ma non dal riso, non ho abbastanza senso del comico, o del ridicolo, bensì per un senso di vergogna che m’invade e che nutro per lei; mi verrebbe da chiedere scusa, ma non so a chi.
Rino Gaetano, altro uomo frainteso dai più, in un suo pezzo scrive “Semmai qualcuno capirà, sarà senz’altro un altro come me” e a un altro come me non ci sarà bisogno di dir nulla, basterà guardarsi negli occhi per capirsi, ma senza webcam di mezzo.

 

 


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