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Etiopia, la maxi-truffa Gilgel Gibe

di Romina Arena - 11/02/2010

Costruire tre dighe in uno dei Paesi più aridi del continente africano ha il sapore di un bluff, di una truffa. Ha anche quei risvolti tipici, attesi e puntualmente verificatisi delle tragedie ambientali in cui a rimetterci non sono gli speculatori, ma quelle popolazioni cui le terre sono state scippate per costruire cattedrali al progresso. L’altra sfumatura, comune alle grandi opere, è quel gusto amaro ed insopportabile dell’inutilità che in Etiopia è diventata tre volte regola.

 

Valle del fiume Oromo
La diga rischia di creare gravi danni all’equilibrio naturale, già di per sé fragile, della valle del fiume Oromo
Le imprese edili italiane trovano molto redditizio esportare le proprie tecnologie per fare affari altrove. È successo a Dubai, dove sono stati costruiti grattacieli faraonici per nababbi. È successo in Etiopia, dove l’impresa Salini, in un progetto cofinanziato dal governo italiano che non si dimentica i trascorsi coloniali in quella terra, ha messo in piedi la diga Gilgel Gibe II, inaugurata lo scorso 13 gennaio e consegnata in pompa magna dal Ministro degli Esteri Frattini in persona con ben sei mesi di anticipo sulla scadenza naturale dei lavori.

 

''L'Italia ha contribuito a realizzare un'opera che permette l'accesso all'elettricità a molti milioni di cittadini dell'Etiopia'', ha commentato Frattini al termine della cerimonia presenziata dalle massime autorità. L’Italia, però ha anche contribuito a realizzare un’opera della quale dopo appena due settimane, il 25 gennaio, un tunnel destinato a generare energia sfruttando la differenza di altitudine tra il bacino della Gilgel ed il sottostante fiume Gibe, è crollato.

Secondo le dichiarazioni della Salini, si sarebbe trattato di un imprevisto geologico che ha provocato la precipitazione di materiale che ha interessato circa 15 metri di tunnel. Come sempre, l’uomo è innocente e la colpa è della natura. Ma già prima che la diga fosse realizzata, il progetto era stato fortemente criticato per la sua pericolosità in termini di impatto ambientale.

Secondo la Campagna per la riforma della Banca Mondiale (Crbm) la diga rischia di creare gravi danni all’equilibrio naturale, già di per sé fragile, della valle del fiume Oromo, nell’area nord ovest dell'Etiopia, oltre a mettere a rischio la sopravvivenza stessa del Lago Turkana, vicino al confine con il Kenya. In una terra con un bacino di risorse molto scarso, poi, una struttura del genere potrebbe acuire i conflitti tra le comunità che occupano l’area.

Tra l’altro non va sottovalutato il costo umano dell’operazione: se per la prima costruzione, la Gilgel Gibe I, sono state sfollate coattivamente diecimila persone, per il progetto della Gilgel Gibe II a rimetterci sono stati in duecentomila.

Secondo PeaceReporter le comunità coinvolte hanno subito un graduale impoverimento. Le famiglie sono state insediate in una zona semi-paludosa poco fertile e con appezzamenti di terra più piccoli di quelli che possedevano prima.

L’aumento della densità di popolazione ha creato conflittualità tra le comunità residenti per la gestione dei pascoli, dal momento che, per la loro scarsità, numerose famiglie hanno perso fino all’80 percento del bestiame. Il tutto nella totale mancanza di servizi di base.

 

Scuola africana
Negli accordi, poi, si parlava di nuove scuole, che invece non ci sono.
Nonostante il sito ufficiale della cooperazione italiana in Etiopia abbia sottolineato che la produzione di energia elettrica nel Paese sarebbe aumentata del 30-40% con la costruzione della diga e per quanto le abitazioni siano sovrastate dai cavi dell’alta tensione, le stesse sono ugualmente prive di luce ed acqua corrente, in barba alle testuali dichiarazioni riportate sul sito, secondo cui:“ [la diga] fornirà elettricità a numerosi nuclei familiari cambiando significativamente la vita di molte persone. In luoghi dove prima mancava l’elettricità sarà possibile alimentare strutture come ospedali e scuole”.

 

Negli accordi, poi, si parlava di nuove scuole, che invece non ci sono. Ci si è invece limitati a ristrutturare le vecchie, che ora gestiscono fino a 1.100 studenti, alcuni dei quali distanti addirittura due ore di cammino. Inoltre, il bacino ha inondato la strada asfaltata che collegava la città di Jimma alla capitale, isolando i villaggi e costringendo i mezzi di trasporto ad aggirare il bacino su un percorso sterrato di quasi 40 Km.

E non è tutto. La Salini ha già in cantiere la costruzione di un’altra diga, la Gilgel Gibe III, alta 240 metri, con una potenza di 1.870 MW ed un costo complessivo di 1,5 miliardi di euro. La nuova diga sbarrerà il fiume Oromo creando un bacino di 150 chilometri compromettendo definitivamente un fondamentale ecosistema fluviale dal quale dipende l’esistenza di tante piccole comunità locali.

Dalle sue inondazioni, infatti, dipende l'agricoltura locale, dalle sue acque dipende l'allevamento, dal suo scorrere la vita spirituale delle varie etnie che lo costeggiano, tra cui i Mursi, i Bodi, i Galeb, i Karoe già messi a dura prova da crisi ambientali come l’abbassamento del lago Turkana che hanno condannato queste popolazioni alla carestia ed alle migrazioni.

Lungo le sponde del fiume, poi, sono stati ritrovati resti di ominidi e utensili risalenti a milioni di anni fa e questo è valso il riconoscimento di patrimonio dell'Umanità da parte dell'UNESCO.

Un cedimento nella struttura che avrà un invaso di 11 miliardi di metri cubi, afferma la Crbm, potrebbe causare un disastro di proporzioni apocalittiche. Disastri che non sono lontani dalla probabilità di verificarsi effettivamente se si va a guardare la gestione della diga.

 

Frattini in Etiopia
La diga è stata inaugurata dal Ministro degli Esteri Frattini in persona
Sempre secondo PeaceReporter, la diga non rilascia il flusso minimo previsto per garantire la sopravvivenza dell’ecosistema. Si passa dall’assenza di ogni rilascio durante la stagione secca, al riempimento fino al limite eseguito durante la stagione delle piogge per sfruttarne al massimo la potenza, per poi procedere con rilasci di emergenza a protezione dell’infrastruttura.

 

Si tratta di una gestione irresponsabile che provoca scompensi, molto pericolosi. Nell’estate del 2006, nei distretti di Dashenech e Nyangatom, lungo il fiume Oromo, un’alluvione ha provocato la morte di 364 persone, la distruzione di 15 villaggi e 15.000 profughi.

Una situazione ancora più drammatica se si pensa alla labilità dei rapporti al confine tra Etiopia e Kenya sul quale si sta piazzando questa vera e propria bomba. La tensione alla frontiera etiope-kenyana, infatti, sta crescendo dopo le proteste dei pescatori kenyani contro la diga che sbarrerebbe l'Oromo, il principale affluente del lago Turkana, che gli fornisce l'80% dell'acqua, che è la loro unica fonte di sostentamento per i pascoli, l’agricoltura e la pesca. A dipendere dal lago sono circa 3.000 pescatori.

Quando il Kenya ha iniziato ad opporsi alla costruzione della Gilgel Gibe III gli attacchi della milizia etnica etiope Marrile sono aumentati per intensità e ferocia delle esecuzioni. C’è però il rischio, secondo Green report che il governo keniota stia assumendo un atteggiamento doppiogiochista nei confronti del progetto.

Dal sito riportiamo le dichiarazioni di Samia Bwana, direttrice dell'associazione ambientalista Friends of Lake Turkana, la quale ha spiegato che “Durante i due anni che ci vorranno per riempire il bacino della diga, il lago Turkana si ritirerà, aumentando la sua salinità, danneggiando l'economia locale, degradando la biodiversità ed aumentando il rischio di conflitti transfrontalieri, La costruzione della diga deve essere fermata in attesa di una valutazione da parte del Kenya, che ha detto di voler importare l'energia prodotta dall'Etiopia, dell'impatto che la diga avrà sulla gente del posto e sull'ambiente”.

Pare, a proposito, che al Kenya questa diga proprio non serva dal momento che nel paese si sta avviando il progetto di un grande campo eolico lungo le rive del Turkana in grado di produrre 300MW.

 

Gilgel
L'Italia approvò un prestito di 220 milioni di euro al governo etiopico per il finanziamento del progetto idroelettrico Gilgel Gibe II
L’affare delle dighe in Etiopia non ha propriamente le caratteristiche di una manovra trasparente. Dietro si muovono la Direzione della cooperazione italiana del Ministero per gli Affari Esteri e la Banca europea per gli investimenti.

 

Nel 2004, la Direzione per la cooperazione allo sviluppo del Ministero degli Affari Esteri italiano approvò un prestito di 220 milioni di euro al governo etiopico per il finanziamento del progetto idroelettrico Gilgel Gibe II, ovvero una parte consistente del denaro necessario alla realizzazione dell’opera che, secondo un accordo già siglato in precedenza tra l’esecutivo di Addis Abeba e la Salini, sarebbe costata circa 400 milioni di euro.

Il prestito, il più grande mai erogato nella storia del fondo rotativo della cooperazione, è stato concesso nonostante il parere negativo del nucleo di valutazione della direzione per la cooperazione e del ministero dell’economia e delle finanze. Le riserve del nucleo riguardavano alcuni fattori che non possono essere sottovalutati quando si investe in un progetto, ancora meno quando il progetto ha la portata così vasta come quella di una diga.

In particolare, si sottolineava la mancanza di uno studio di fattibilità, l’insufficiente attenzione alle procedure di gestione e di controllo del contratto e il fatto che l’Etiopia è uno dei paesi più poveri del pianeta, a cui l’Italia aveva appena deciso di cancellare i 300 milioni di euro di debito dovuti, subito rimpiazzati da un importo di 220 milioni.

Non è tutto, la concessione dei lavori alla Salini è avvenuta senza ricorrere ad alcuna gara di appalto in aperta inottemperanza delle linee guida del ministero dell’economia e agli standard internazionali sulla trasparenza e la concorrenza.

Come allora aveva sottolineato il periodico in lingua amharica “Reporter”, era stata la stessa Salini, “di sua iniziativa e a sue spese, ad aver disegnato e presentato al governo etiopico il progetto”. La trattativa diretta viola anche la legge etiopica, che permette la trattativa diretta solo in casi di imprevedibile urgenza.

Proprio per questo motivo al ministero degli esteri di Addis Abeba, al quale la Salini si era rivolta per negoziare il suo contratto, la versione adottata per suffragare la fattibilità dell’opera è stata proprio questa: “la costruzione di una diga è urgente in un Paese gravemente carente dal punto di vista delle risorse energetiche com’è l’Etiopia”.

 

Etiopia
l’Africa è una terra ricca, ma non certo per gli africani
Nel 2005, nel contesto si inserisce anche la Banca europea per gli investimenti (Bei) che, in barba alle buone pratiche europee che vorrebbero che l’aggiudicazione dei contratti pubblici non avvenga con il metodo della trattativa diretta, concede al progetto la bella somma di 50 milioni di euro.

 

Questo tipo di atteggiamento ha destato non poche perplessità in seno all’Agenzia italiana di credito all’export che ha negato alla Salini una garanzia sul prestito della Bei, adducendo le stesse motivazioni avanzate dal nucleo di valutazione della Farnesina.

Nel frattempo, le carte del progetto arrivano sulla scrivania della Guardia di Finanza e della Magistratura che iniziano ad indagare per una possibile corruzione in cui sono coinvolti la Salini e la direzione della cooperazione italiana allo sviluppo.

Nel 2007, infatti, la Procura di Roma apre un procedimento penale a carico della Direzione Generale Cooperazione allo sviluppo relativamente alla concessione del prestito. Contemporaneamente la Crbm, assieme ad International Rivers (Stati Uniti) e Cee Bankwatch Network (Europa), ha avviato un’indagine in Etiopia proprio per fare luce sull’intera questione.

Ne è scaturito un dossier nel quale sono riportate interviste di pubblici ufficiali, esponenti delle comunità locali, associazioni ed esponenti del mondo accademico. Nel rapporto si ricostruiscono la storia e il ruolo dei diversi attori finanziari nella costruzione delle dighe.

Lo scandalo è talmente grosso e talmente palese che la Banca europea per gli investimenti ha negato un finanziamento gemello per la costruzione della Gilgel III, ufficialmente per i rischi ambientali che comporterebbe, ma molto più verosimilmente per la posizione scomoda già assunta con il prestito illegale di quei 50 milioni di euro per la realizzazione della Gilgel II.

Nel frattempo, la Salini continua a fare affari d’oro in Africa accaparrandosi alcuni lavori anche i Uganda. Come dire: l’Africa è una terra ricca, ma non certo per gli africani.