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L'ombrello sopra il Partenone

di Roberto Zavaglia - 14/02/2010

Dal vertice dell’Unione Europea di giovedì alla Grecia non sono arrivati soldi, ma quello che, con linguaggio diplomatico, si definisce un forte sostegno politico. E, insieme, raccomandazioni, incoraggiamenti, attestati di fiducia. Vedremo se ciò basterà ad Atene per salvarsi dai morsi della speculazione finanziaria che, se non venisse fermata, potrebbe addirittura causare la bancarotta del Paese.
  Il presidente (permanente) del Consiglio Herman Van Rompuy ha dichiarato che non si sono decisi aiuti diretti anche perché la Grecia non li ha chiesti, facendo intendere che la situazione è meno drammatica di quanto si teme. Ha provato a infondere ottimismo anche Jean-Claude Juncker, presidente dell’Eurogruppo, che ha detto di non prendere nemmeno in considerazione un’uscita di Atene dall’euro ed ha aggiunto che la Ue interverrà, con “misure determinate e coordinate”, solo se i greci fallissero nel loro piano di rientro dal debito.
  Le decisioni del Consiglio dei capi di Stato e di governo, niente di particolarmente eclatante come si vede, sono state precedute da consultazioni fra Sarkozy e Merkel che, rimettendo in moto il cosiddetto motore franco-tedesco dell’Unione, sembrano avere dettato la linea a tutti. Probabilmente, la Francia avrebbe preferito stabilire anche un pacchetto di aiuti europeo, che invece la cancelliera tedesca, almeno in questa fase, non intende concedere, temendo che i suoi elettori le rimproverino di spendere il denaro dei contribuenti per pagare i debiti degli “spreconi” greci. Per Parigi e Berlino c’è anche l’esigenza di salvare i denari propri: le banche francesi e quelle tedesche hanno crediti pubblici e privati in Grecia, rispettivamente, per 56 e 28 miliardi di euri. La solidarietà politica verso Atene, insieme all’impegno a vigilare sul suo piano finanziario, è comunque giunta in ritardo, dopo che per settimane l’Europa era rimasta silenziosa, dando così fiato alla speculazione finanziaria.
  Ovviamente, i problemi della Grecia non possono rimanere circoscritti a quel Paese: già ora rischiano di causare un effetto-domino in Portogallo e Spagna. Quella in atto è, senza dubbio, la più grave crisi dalla nascita dell’euro. Si è di conseguenza aperto il dibattito su cosa sia giusto fare quando le finanze di un singolo Paese dell’area della moneta comune vengano a trovarsi  in una situazione di rischio. Prevale, al momento, la tesi che non si debba creare un precedente negativo, ovvero non si debbano fornire fondi a uno Stato che, a causa di una cattiva gestione economica, si sia cacciato nei guai, mentendo oltretutto, come è il caso della Grecia, sull’entità del proprio debito. Non è però possibile, nell’Europa dell’euro, assistere passivamente al default di uno dei Paesi che vi appartengono. Sarebbe come se l’Italia lasciasse andare alla deriva la Calabria o la Campania, disinteressandosi delle inevitabili ricadute sul piano nazionale.
  Ecco, allora, che l’Europa si è messa a fare il tifo affinché i greci si tramutino improvvisamente in operose e frugali formichine, in un popolo capace di produrre e risparmiare come i cinesi, con in più il sole e il Partenone per attrarre il turismo. Promette lacrime e sangue, infatti, il piano del governo ellenico per superare la crisi. L’obiettivo sarebbe quello di portare, entro il 2012, il deficit dal 13 al 3%, con una robusta riduzione del 4% già nel corso di questo anno. Ci riusciranno i greci, da soli? Molti ne dubitano, perché per il governo del socialista Papandreou sarà difficile fare digerire al suo popolo, notoriamente combattivo sul piano delle proteste in genere e di quelle sindacali in particolare, il congelamento dei salari e delle pensioni, misure draconiane contro l’evasione fiscale, l’aumento delle tasse su generi come alcool, sigarette e benzina. Mentre a Bruxelles si esprimono speranze, in Grecia la Confederazione dei Lavoratori ha già annunciato un primo sciopero generale per il 24 febbraio.
  La crisi di Atene rappresenta, in ogni caso, un importante banco di prova per l’Unione Europea; per la sua saldezza, per la sua volontà di procedere unita e di rappresentare l’embrione di un governo comune. Nell’affrontare la crisi finanziaria mondiale l’Europa non era riuscita a produrre lo scatto in avanti auspicabile, limitandosi a “coordinare” i diversi interventi degli Stati e contribuendo, di suo, con un misero 0,3% di risorse. Le gravi difficoltà di un Paese dell’euro ripropongono ora il tema del governo economico dell’Unione. In questa materia siamo ancora fermi alla fallimentare “Strategia di Lisbona”, dal nome della città in cui, nel marzo 2000, venne lanciato, con alti squilli di fanfara, questo progetto. Pochi se ricordano perché le persone hanno imparato a valutare le decisioni comunitarie dai loro risultati che, di solito, sono modesti.
  Dieci anni fa, il Consiglio Europeo, riunito nella capitale portoghese, annunciò addirittura che quella comunitaria sarebbe diventata “l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita sostenibile con migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”. Il tutto entro il 2010. Per giudicare oggi, basta pensare al campo della ricerca e sviluppo, su cui a Lisbona si pose la maggiore enfasi per primeggiare nella competizione economica globale. Il risultato è che oggi nella Ue si investe l’1,77% del Pil in questo settore, contro il 2,66% degli Usa e il 3,39% del Giappone. Tutti coloro che si sono dedicati allo studio del “disastro di Lisbona” sono concordi nel rilevare che la colpa sia degli Stati che, dopo essersi impegnati in un programma comune, hanno continuato imperterriti nelle loro programmazioni nazionali.
 L’Unione Europea è l’unico caso nella storia di un’organizzazione -difficile da dirsi federale, confederale o altro ancora, perché non si capisce cos’è dal punto di vista istituzionale- che possieda una banca e una moneta comuni, senza avere una politica economica e un fisco propri. Anche per questo gli anelli deboli della sua catena sono facilmente attaccabili dagli speculatori. Rinunciamo, nel corso delle crisi e nella gestione ordinaria, alle economie di scala che la poderosa economia continentale ci consentirebbe. Gli Stati continuano a credere di potere competere da soli con le vecchie e nuove potenze economiche, subendo, ogni anno che passa, un declassamento ulteriore.
  Priva di un governo economico, la Ue spera che i greci se la cavino con la solita amara ricetta di tagli allo stato sociale e nuove tasse. Almeno per ora, non si è proposto di emettere bond europei per aiutare Atene, né sono state annunciate altre misure comunitarie. E’ possibile, pero, che il “caso Grecia” finisca con il dimostrare che in questo modo non si può andare avanti, che se si vuole salvare uno per salvarsi tutti bisogna cambiare strada. Puntando sulla qualità e la creatività del lavoro per realizzare innovazione e grandi progetti ai quali, solamente unendo davvero le forze, l’Europa può ancora ambire.