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Principi di mercato e moralismo economico

di Mauro Tozzato - 15/02/2010

Così scrive Piero Ostellino in un editoriale, sul Corriere del 08.02.2010,:

<<All’etica universalistica della Chiesa in difesa dei più deboli[…]una parte del mondo dell’impresa ha risposto con il moralismo degli uomini di buone intenzioni che, per dirla con Benedetto Croce, “sono nient’altro che ipocriti”.

Ostellino si riferisce principalmente, almeno qui in Italia, a Giulio Tremonti e Guido Rossi in quanto esponenti di punta di quella corrente politico-economica che sostiene il valore dell’ “economia sociale di mercato” e che porta avanti - in collegamento con la componente cattolico-liberale presente sia nella maggioranza che nell’opposizione – una presunta linea di compromesso tra le esigenze di efficienza dell’”economica”, applicata al pubblico e al privato, e i principi etici. Questi principi si dovrebbero fondare attraverso la loro relazione con una nuova “socialità responsabile” da declinare nella direzione di una equità che penalizzi coloro che minano la solidità delle istituzioni (soprattutto finanziarie) e salvaguardi i deboli e i volenterosi. E rifacendosi poi a Tremonti e alla politica del governo in particolare, l’editorialista continua affermando che questo tipo di politica economica:

<<persegue però questo profitto con analogo accanimento [rispetto al capitalismo anglo-sassone. N.d.r.]al riparo dalla concorrenza, grazie alla non contendibilità delle imprese – che ne alimenta e protegge le inefficienze – e al corporativismo delle professioni che, associato al conservatorismo dei sindacati, ostacola l’ingresso ai giovani e penalizza il merito. Sopravvive, inoltre, come rendita – concessioni e licenze di Stato – e con i sussidi governativi alla vendita di prodotti poco competitivi sul mercato e fa pagare a correntisti e imprese servizi bancari fra i più cari d’Europa.>>

Effettivamente in Italia sembra che ci siano - a tenere banco nei dibattiti riguardanti l’economia italiana e le sue prospettive - da una parte i sostenitori del libero mercato e della smithiana  “mano invisibile” (come Ostellino) e dall’altra i fautori dell’economia sociale di mercato (Rossi, Tremonti ecc.). La prospettiva neokeynesiana  appare, infatti, caldeggiata attualmente solo da alcune componenti della cosiddetta “sinistra”, estromessa dal Parlamento nel 2008; ma tutto questo non significa, però, che non esista una tendenza politica nella nostra economia la quale surdetermina, di fatto, le discussioni e le “chiacchere” che prendono il “davanti della scena”. Si tratta del carattere weimariano che caratterizza il sistema economico e finanziario italiano e che non si esaurisce – come ha più volte ricordato La Grassa – nella semplice attivazione di trasferimenti monetari, da parte dello Stato, alla GFeID del nostro paese, ma nella completa subordinazione ai poteri forti economici e politici degli Stati Uniti e della loro longa manus che lavora a Bruxelles e dirige la cosiddetta UE. Continuiamo ora con la parte più propriamente “filosofica” dell’editoriale di Ostellino:

<<La rivoluzione marginalista ha introdotto, nell’apprezzamento di un bene, i concetti “qualitativi”(soggettivi) di utilità e di scarsità, rispetto a quello “quantitativo”(oggettivo) di valore-lavoro dell’economia classica. Ma, con il concetto di “utile”, ha anche teorizzato il ruolo della scelta e dell’interesse nell’economia, distinguendo la volontà pratica, che coincide col fine individuale, da quella morale che trascende in un fine universale. <<Il fatto economico – scrive Croce – è l’attività pratica dell’uomo, in quanto si consideri per sé, indipendentemente da ogni determinazione morale o immorale>>. Ma, attenzione: non indipendentemente dalle regole né dalla naturale socievolezza degli uomini (la “simpatia” di cui parla Adam Smith).>>

La prima osservazione che mi viene da fare è che a partire da G. Frege la distinzione tra ciò che risulta teoreticamente soggettivo e/o oggettivo risulta determinato dalla funzione che un elemento denotato assume in una proposizione logica esistenziale (come soggetto o come predicato) e in un determinato contesto fattuale. In Senso e denotazione Frege spiega come per oggetto si debba considerare ciò in direzione del quale l’attore si pone intenzionalmente come dato di fatto rispetto ad una possibile azione da svolgere. Il senso rappresenterebbe invece l’elaborazione concettuale che la coscienza “costruisce”. In entrambi gli aspetti è presente l’attività di una coscienza costruttiva e schematizzante e il dato di fatto non costituisce mai un momento contrapposto o esterno alla conoscenza scientifica stessa. Dietro all’individualismo metodologico dei neo-classici - e come decostruzione ideologica della loro visione – è necessario, perciò, sviluppare una determinata lettura dei rapporti sociali e dell’articolazione delle forze nella società in quanto il loro approccio conoscitivo non può rendere conto di come una mera valutazione di un soggetto che agisce e sceglie arbitrariamente possa dare forma a quello che lo stesso Hayek chiama ordine esteso di mercato. Per quanto riguarda Croce è giusto ricordare che il suo realismo politico lo metteva in grado di separare, e di tenere separati, l’ambito della morale da quello della politica e dell’economia ma non di rispondere alle tematiche messe in gioco dall’approccio propriamente religioso che, non a caso, così prepotentemente, in questi anni, sembra rialzare la testa nei confronti di una secolarizzazione ritenuta inarrestabile. Ma su questo ultimo tema ritorneremo in altra occasione.